Mirko Denza (1982) ha studiato Giurisprudenza presso l’Università di Napoli Federico II discutendo una tesi in Diritto Penale dal titolo Organo verticistico e associazione mafiosa (relatore Vincenzo Patalano – Correlatore Francesco Marco De Martino). Successivamente ha conseguito la laurea magistrale in Scienze Storiche discutendo una tesi dal titolo L’effimero nella cultura italiana: il suo racconto attraverso i media (1977-1985). Ha partecipato a diversi Premi letterari nella categoria racconti inediti: segnalazione Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 4° Edizione, finalista Premio Internazionale “Michelangelo Buonarroti” 5 ° Edizione, vincitore Premio letterario Sulmona “Parole in giallo” edizione 2018 nella categoria raccolta di racconti inediti.

Recensione a Maurizio Ciampa, Italia minima. Sogni, emozioni e rabbia di un paese in movimento (1943-2023) Donzelli, Roma 2024, pp. 240, € 19,00.

In questo lavoro la storia intesa come narrazione di grandi eventi, come analisi di personaggi che hanno dettato e orientato lo scorrere del tempo, non trova spazio. Le porte vengono chiuse o meglio viene aperta la porta secondaria, quella laterale che a nessuno interessa, troppo sfolgorante è il portale principale maestoso nella sua lucentezza.

Questo libro rappresenta una raccolta di voci, di lamenti, di sospiri e di grida, quasi come se l’Autore si trasformasse in un tecnico del suono. Protagoniste sono le microstorie, i volti di personaggi che hanno vissuto ai margini, portatori di disgrazie e di ansie, ma che testimoniano, forse in modo più convincente, il passaggio del tempo. Il tempo è quello del 1943, lo spazio è una Napoli tormentata dalla fame, dalla disperazione e disorientata dagli eventi che compongono la storia nazionale ed europea. La folla attende la liberazione del miracolo del suo santo, quel Gennaro che molte donne interpellano come se fosse un loro parente, o un vigile con la divisa a cui viene rivolta una domanda. Il presagio della sofferenza è tutto concentrato in quel grumo di sangue, in quella immobile solidità che non vuole sciogliersi, non vuole alleggerire l’oppressione che pesa sui cuori di quella gente tutta stipata all’interno della chiesa. Anche il rumore sordo ed inquietante della montagna addormentata, il guardiano severo e minaccioso che guarda dall’alto quel formicaio partenopeo, diventa il protagonista nel 1944. Le parole di Ciampa sono indicative del momento:

il vulcano rompe con violenza la sua gabbia, esce dalla pietrosa abulia con la voce fonda di chi ha taciuto a lungo. Senza alcuna remora esplode in un collerico furore, che era lì da tempo, e, da tempo, andava macerando in una sacca di astio rugginoso.

Napoli deve affrontare anche questa durissima prova oltre alla tragedia dei bombardamenti. Nel 1944, in una Roma liberata dagli Alleati, la radio diventa strumento di libertà, diventa un veicolo prezioso per fare sgorgare la voce delle donne sempre più interessata ad occupare uno spazio. Ci troviamo in un tornante della storia in cui l’uomo, ritornato devastato dall’esperienza della guerra, non comprende e non riesce a trovare un ruolo all’interno del nucleo familiare.

Questo disorientamento affligge le donne che, dopo aver gestito e sopportato il peso dell’organizzazione familiare, non voglio arretrare, non vogliono rinunciare a quello spazio di libertà e di autonomia. Altri temi, quali la sessualità, l’aborto e il divorzio, iniziano a diventare oggetto di discussione attraverso scritti e discussioni radiofoniche. Nel 1950 arriva il primo freno, arriva la censura voluta da un mondo politico e sociale per nulla pronto a fare entrare questi temi nell’agenda politica. Il suono della folla può divenire assordante soprattutto quando la rabbia, accumulata da anni, trova finalmente il suo sfogo e si mischia con l’entusiasmo, con l’estasi della liberazione.

Le immagini del momento vengono catturate da due fotografi che giungono sul posto quasi trascinati dalla marea di gente che si sta riversando verso il luogo in cui si sta consumando il rito ancestrale dello sfogo. Piazzale Loreto: luogo che a tutti ricorda lo spazio in cui si è celebrata la fine del regime fascista, luogo in cui ha trovato spazio solo ed esclusivamente la voglia di vendetta mista ad una rabbia tipica degli amanti abbandonati e derisi dal loro grande amore. Senza dubbio quello spazio viene occupato da partigiani ma anche da convinti fascisti trasformatisi in acerrimi nemici del Duce. Ancora le parole dell’Autore giungono a rischiarare la mente del lettore che viene trascinato in quella piazza:

intervengono i vigili del fuoco con gli idranti: getti d’acqua per raffreddare la furia della folla e arginare la calca, ma anche per rinfrescare i corpi rimasti esposti al sole durante l’intera mattinata […] che colano acqua e sangue, la folla in basso, a perdita d’occhio, come un mare in tempesta.

Anche nel 1951 protagonista sono un gruppo di giovani donne romane che si ritrovano in via Savoia, tutte desiderose di iniziare una nuova vita, di conquistare una propria autonomia. La speranza passa attraverso la selezione per un posto come dattilografa, che però viene spazzata via dal boato che testimonia il crollo del villino in cui si era radunata quella piccola folla speranzosa. Di questa tragedia verrà prodotto anche un film che però verrà censurato perché bisognava veicolare l’immagine di un’Italia gioiosa e proiettata verso un futuro lucente.

Il libro si snoda lungo storie che accompagnano il faticoso procedere delle vicende italiane. Non solo disperazione, rabbia e frustrazione, ma anche la speranza della rinascita che passa pure attraverso la costruzione dell’Autostrada del Sole, la produzione della Seicento, la speranza del nuovo lavoro, la fabbrica come approdo e simbolo di liberazione per i lavoratori agricoli non più soggetti al ritmo delle stagioni. La fabbrica, come dimostrato dagli eventi, si trasformerà in uno spazio sempre più oppressivo, in cui il ritmo forsennato della produzione piegherà sempre più le vite appese degli operai.

Poi ci sarà il tempo delle lotte, delle conquiste civili e sindacali. Una umanità ripresa nei gesti tormentati della quotidianità, osservata mentre accede in un posto di lavoro che assomiglia ad una bolgia dantesca, spazio in cui il singolo perde la sua individualità per diventare un ingranaggio del ciclo infernale della produzione. Il rituale del “barachin”, ossia del contenitore in cui veniva custodito il cibo, il pranzo per l’operaio rappresentava un momento di evasione ma anche la possibilità di condividere con le altre persone pietanze diverse, sapori che provenivano dal Sud Italia, zona considerata esotica e ancora afflitta da una storica arretratezza. Gli studi di Ernesto De Martino sui rituali ancestrali della Puglia e della Basilicata hanno messo in luce tradizioni, sentimenti, persone poste ai margini del corso ufficiale della storia. Ancora una volta voci e volti che l’Autore richiama alla mente del lettore come il dolore straziante dei bambini e degli adulti rinchiusi in manicomio in cui il contenimento e le sevizie erano all’ordine del giorno.

Il libro termina con lo sgretolarsi del sogno del socialismo reale, il crollo del comunismo, la fine del Partito Comunista italiano e l’incertezza del nuovo cammino che dovrà intraprendere il mondo politico della sinistra italiana.

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