Sandra Santoro insegna greco e latino nei licei a Napoli.

Recensione a
D.J. Breeze, L’esercito romano
il Mulino, Bologna 2019, pp. 168, €13.00.

Che la pace si associasse ossimoricamente alla guerra era già noto a Cicerone quando, nella Settima Filippica, pronunciava con profondo realismo politico ed antropologico un’espressione divenuta proverbiale: si pace frui volumus, bellum gerendum est! Il debutto di Roma nella storia, sin dai tempi della Roma quadrata delle origini, è condizionato dalla necessità di una solida organizzazione militare, atta a contrastare gli attacchi dei popoli confinanti il Septimontium e a garantire l’estensione di influenza di questa primo nucleo comunitario.

Quale fu lo strumento che fece di Roma uno degli imperi più vasti e longevi di ogni tempo? Cosa rallentò, stando alla teoria dell’anaciclosi polibiana, il naturale deterioramento della grandezza dell’impero romano, causato, in ultima istanza, dall’impatto delle popolazioni germaniche su di un corpo statale già leso da inguaribili ferite interne? Quanto il modello romano spiccò nelle moderne indagini nel campo della scienza politica da Machiavelli in poi che, nella sua sofferta condanna della crisi politica dell’età a lui contemporanea, si appellò all’esemplare senso civico e allo slancio eroico degli eserciti cittadini romani? La “gravità dei tempi” dell’Italia rinascimentale veniva attribuita ai particolarismi politici di Stati regionali retti da cittadini indolenti, rinunciatari e militarmente dipendenti da truppe mercenarie o compagnie di ventura; la grandezza di Roma, invece, secondo Machiavelli, si era edificata sull’amor patrio e sulla forza invincibile di soldati reclutati con obbligo di servizio militare all’interno della stessa cittadinanza: la storia di Roma coincideva con quella del suo esercito.

Da questa lucida consapevolezza procede lo studio di David J. Breeze, archeologo ed a lungo ispettore per le antichità della Scozia, presentato in un agile e scorrevole saggio storico che illustra la parabola della macchina da guerra più poderosa e rinomata per la sua eccellenza tattica. Si tratta di un prodotto editoriale dallo stile efficacemente sciolto e comunicativo, accuratamente ordinato in capitoli che informano il lettore sui vari aspetti delle milizie romane: dalla struttura alle strategie belliche, dall’uso delle armi alla costruzione di accampamenti e fortini, dai criteri e dalle mansioni di arruolamento alla vita delle legioni in tempo di pace. L’avvio è dato da una cornice introduttiva dalla quale si evince il ponderoso sforzo nel lavoro selettivo sulle fonti, comprendenti, in primis, i resoconti letterari di autori d’età repubblicana ed imperiale sia in lingua latina (Livio, Cesare, Tacito, Vegezio, Pseudo-Igino) sia in  lingua greca ( Polibio, Flavio Giuseppe ed Arriano).

A corredo delle testimonianze storiografiche, significative integrazioni alle informazioni su pergamena, supporto metallico, papiri, e registranti le attività quotidiane dei soldati romani, provengono da documenti scritti su materiali organici reperiti negli scavi in Egitto ed in Siria e presso alcune località lungo il Vallo di Adriano; il confronto tra queste tavolette di recente scoperta presso Vindolanda e Carlise ed il materiale afferente al Vicino Oriente valida la possibilità dell’utilizzo di quest’ultimo per indagare sulle attività militari lungo le frontiere europee dell’impero. Il cursus honorum, gli incarichi speciali e straordinari sono desunti da lapidi onorifiche o funerarie; le sculture e i monumenti offrono la rappresentazione visiva dei soldati in combattimento; l’input del XIX sec. alla ricerca scientifica moderna ha portato «allo scavo di siti militari di tutti tipi e alla raccolta di un vasto repertorio di artefatti che ci permettono di ricostruire le armature indossate dai soldati e ci aiutano a comprendere meglio le loro tattiche di combattimento, oltre al cibo che si preparavano, ai metodi di cottura e alle stoviglie che usavano»; infine, l’archeologia sperimentale ha contribuito a fare chiarezza sul funzionamento dell’esercito romano, nei suoi aspetti tecnici.

Le milizie a Roma decretarono la sorte del suo ampliamento da città-stato ad un impero senza confini, complessa rete territoriale nella quale la varietà del substrato etnico e linguistico dei suoi abitanti veniva contrastata dal latino ufficiale e dalle nuove suggestioni culturali dall’Urbe. Il tratto caratterizzante di quella che per Breeze costituì la longa manus all’imperialismo romano fu decisamente la sua efficienza: il nucleo originario si riconduce alla prima legione istituita da Romolo, il corpus bellico vero e proprio prese forma in età repubblicana, quando si consolidò quell’organizzazione politico-militare avviata da Servio Tullio che distribuì la popolazione in classi sociali in base al censo e centurie (riforma che sanciva il peso politico delle classi più abbienti). Dopo una fase iniziale, nella quale l’aspetto tattico valorizzava il modello della falange greca, i successi del V e IV sec. a.C., contro l’ultimo baluardo etrusco di Veio e l’incursione gallica, apportarono non solo l’ampliamento della legione e l’uso del lungo scudo italico, di quello ovale, poi, ma anche l’introduzione di un compenso giornaliero per fanti e cavalieri. Gli inarrestabili trionfi dal IV al II sec a.C. incisero sulla svolta dell’ultimo secolo della repubblica:«una costituzione idonea ad una città-stato non era appropriata a un impero che si estendeva da un capo all’altro del Mediterraneo.

La velocità dell’espansione di Roma fornì inoltre ampie opportunità ai suoi capi militari. All’improvviso il mondo era diventato il loro bacino di pesca; potevano conquistare nuove terre pressoché a piacimento, anche se qualcuno era destinato a morire nel tentativo. In tali circostanze, l’esercito stesso doveva cambiare». Mario, homo novus dalle spiccate doti politiche, console per ben sette volte e responsabile delle vittorie romane su Giugurta, sui Cimbri ed i Teutoni, avrebbe, secondo lo storico, in sintonia con la tesi Lawrence Kippie, solo accelerato cambiamenti già in corso. Il loro effetto sul futuro della società romana fu notevole al punto da segnare i successivi equilibri di potere. L’aspetto volontario dell’arruolamento accolse in seno alle truppe non solo gli Italici ed i proletari, ma avviò il processo di professionalizzazione del servizio militare e quello di fidelizzazione delle truppe ai rispettivi condottieri; inoltre, provvide all’uniformazione delle classi di soldati, tant’è che gli armati alla leggera furono sciolti ed incorporati nelle centurie. L’instaurazione del principato, a seguito di lunghe e sanguinose guerre civili, si accompagnò ad una riorganizzazione del corpo militare, con una riduzione delle legioni a ventisei o ventisette e con lo stanziamento di molti uomini nelle colonie, per facilitarne il congedo; a ciò si aggiunse un premio postservitium, per evitare il saccheggio delle terre di recente conquista, e la composizione della guardia pretoriana di stanza a Roma; le due flotte principali, invece, vennero dislocate una a Miseno, nel golfo di Napoli, l’altra a Ravenna, nell’Adriatico. Il completamento della riforma avviata in età repubblicana, o meglio, il passaggio all’esercito professione  si accompagnò a importanti fenomeni sociali, quali, ad esempio, l’opposizione alle nuove tasse per il finanziamento del tesoro militare e, di contro, l’ammutinamento come espressione di protesta per la richiesta di migliori e minori tempi di servizio, nonché per il pagamento immediato delle loro gratifiche; le guerre civili, di cui l’impero fu più volte (ad esempio, dopo Nerone e dopo Commodo) teatro,denunciarono il consolidamento della forza politica delle truppe, al punto che dopo la dinastia dei Severi, conclusasi con l’assassinio di Severo Alessandro nel 235 d.C, «soldati semplici con esperienza e determinazione potevano elevarsi dalla truppa fino a diventare imperatori. E a livello inferiore l’attenta pianificazione di carriera che dava ai soldati la giusta esperienza prima di essere promossi centurioni o decurioni non risulta più essere seguita. Da quei cinque decenni caotici e fatali del III sec. ne uscì un esercito diverso…».

Allorché nei secoli a venire le frontiere vennero sfondate, si optò per nuove soluzioni, nella fattispecie per l’erezione di mura alte e spesse, al fine di chiudere a difesa le  città, e per l’istituzionalizzazione delle truppe da campo (si ricordi, a tal proposito la suddivisione dei corpi, nel tardo impero, in comitatentes, eserciti da campo mobili, e limitanei, quelli di frontiera).

Lo stanziamento alimentò, in molti casi, l’ambizione del miles a primeggiare sui concittadini attraverso delazioni e estorsioni: non poche sono le testimonianze letterarie di età imperiale (Petronio, Giovenale, Apuleio) che accostano la vita del soldato ad una condizione vantaggiosa, molto spesso degenerante in episodi di corruzione ed abusi di ogni sorta. Breeze prende per mano il lettore, addentrandolo, a passi lenti e felpati, con stile limpido e sintetico, tipico della scrittura informativa, nelle stanze più segrete della vita militare della civiltà romana, la cui preminente visione positiva attenua le dèfaillance comportamentali (tradimenti, atteggiamenti sovversivi, ebbrezza, abusi, depredazioni) e strategiche di centurioni, generali e truppe armate, responsabili anche delle più umilianti sconfitte (ad esempio, quella di Teutoburgo). Quale “asso nella manica” nel suo glorioso percorso ascensionale? Breeze risponde: «la capacità di reinventarsi fu una delle ragioni del lungo successo dell’esercito romano».

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