Sandra Santoro insegna greco e latino nei licei a Napoli.

Recensione a
D. Kagan, La Guerra del Peloponneso. La storia del più grande conflitto della Grecia classica
Mondadori, Milano 2020, pp. 516, €18,00.

Nell’Edipo a Colono, dramma dell’ormai ultranovantenne Sofocle ed incentrato sulla “riabilitazione morale” del cieco e lacero Edipo, si leva, nella parte conclusiva, un commovente canto corale che racchiude la più intensa e struggente lode alla città di Atene; i versi 668-719 della tragedia in questione costituiscono uno dei più suggestivi intermezzi lirici, nel quale si condensa la sfibrante irrequietezza del poeta, testimone degli orrori del più grande conflitto della Grecia classica, la Guerra del Peloponneso. L’eco sofoclea convoglia un sentire comune, è il fremito che opprime il popolo di Atene, ormai dilaniata da una guerra quasi trentennale che ne esaurì la supremazia sullo scacchiere geopolitico greco.

A distanza di circa ventiquattro secoli, un eccellente Donald Kagan, attento studioso internazionale di storia greca, senza prescindere dalle informazioni provenienti dal capolavoro tucidideo, pietra miliare della storiografia antica e improntato su un approccio scientifico alla materia, ricostruisce le trame politiche del più grande conflitto che coinvolse il mondo greco del V sec. a.C. La valutazione delle fasi belliche avviene ad ampio spettro, ripercorrendo e distinguendo con rigore analitico la molteplicità di fattori che innescarono le ostilità tra il blocco filo-ateniese e quello filo-spartano. Lo storico di origini lituane, docente a Harvard fino al 2013, opera accuratamente il distinguo tra le tucididee aitìai (cause occasionali) e l’alethestàte pròfasis (la causa più vera) degli avvenimenti ed interviene con una ricostruzione precisa e studiata dei dati a disposizione, provenienti da altre fonti, laddove la testimonianza tucididea risulti carente per la sua incompiutezza.

La Guerra del Peloponneso rappresentò un punto di svolta cruciale agli occhi dei contemporanei: disgregò le póleis greche, indebolì l’ideologia panellenica, segnò l’inizio dell’epilogo della tanto conclamata libertà dei Greci. Si scorgono, con occhio critico, le responsabilità decisionali di personalità storiche straordinarie, si prospetta il bilancio delle innumerevoli perdite umane e dell’enorme dispendio di risorse materiali delle poleis implicate: «la Guerra del Peloponneso fu anche un conflitto di una ferocia senza precedenti: violò persino lo spietato codice che aveva fino ad allora regolato la guerra tra i greci e sfondò la linea sottile che separava la civiltà dalla barbarie. Ira, frustrazione e desiderio di vendetta crebbero con il protrarsi dei combattimenti dando luogo ad un’escalation di atrocità: prigionieri mutilati ed uccisi, gettati nei pozzi a morire di fame, sete e freddo, o in mare ad annegare; bambini innocenti trucidati da bande di predoni; intere città distrutte, gli uomini uccisi, le donne e i più giovani venduti come schiavi». Ma dove affondavano le radici della logorante rivalità tra Sparta ed Atene? Quale idea del “giusto” era sottesa all’esecuzione dei crimini più atroci? Quali criteri opportunistici entrarono in gioco nel prospetto delle alleanze che gli eventi tracciarono? Cosa accadde dopo il Trattato della Pace dell’inverno del 446-445 a.C., con il quale Atene cedette le terre peloponnesiache conquistate tra gli anni ’60 e ’40 della Pentencontaetìa e Sparta accondiscese ad un riconoscimento ufficiale dell’imperialismo ateniese, consolidato dalla confederazione marittima della Lega delio-attica 478-477 a. C.?

Kagan individua nel trattato stesso un «potenziale di instabilità» rappresentato dall’insoddisfazione della parte “radicale” ateniese, che spingeva all’espansione dell’impero e mal sopportava la soluzione della restituzione delle terre conquistate, e una parte politica spartana che lamentava la frustrazione per non aver conseguito una completa vittoria sulla rivale. Pressava, sull’altro fronte, l’odio verso Atene della fazione filo-oligarchica di Megara e Tebe. L’asse della concordia fu squilibrato dalle contese e dalle guerre civili che investirono Sibari, in attesa di aiuto dalla madrepatria per popolare la colonia di Turi. Dopo il rifiuto di Sparta, Atene rispose alla richiesta dei Sibariti, ma, evidentemente, l’intervento non fu finalizzato all’allargamento dell’imperialismo ateniese:Turi rappresentava la rinuncia da parte di Atene all’opportunità di fondare una propria colonia, ed era la prova tangibile che essa non aveva ambizioni imperiali ad occidente e perseguiva una politica di pacifico panellenismo». Altre ancora furono le occasioni insidiose per la pace appena siglata: le insurrezioni di alcuni membri della Lega delio-attica sostenute dalla Persia e da Sparta.

Secondo Kagan, Atene era ben lontana dal progetto di uno scontro armato con i suoi rivali, faceva affidamento sulla strategia difensiva periclea e sulla “diplomazia della deterrenza”, per contrastare ogni proposito di ribellione da parte delle città della Lega e per disinnescare qualsiasi progetto offensivo di Sparta e dei suoi alleati. Probabilmente fu il debole vigore della “politica della deterrenza” che avviò la gloriosa Atene al declino: «obiettivo della deterrenza è suscitare nel nemico un tale timore da indurlo a rinunciare a combattere, mentre la strategia di Pericle dava bene poco da temere agli spartani». L’urto definitivo con Sparta si ebbe proprio quando Atene era all’apice del suo splendore economico e politico: l’interferenza ateniese nel conflitto tra Corinto (alleata di Sparta) e Corfù, l’embargo imposto a Megara (alleata di Sparta),il decreto con cui si imponeva a Potidea l’interruzione dei rapporti con Corinto (alleata di Sparta).

Kagan ritiene che né il Decreto megarese né l’ultimatum imposto a Potidea violassero il Trattato di pace trentennale e che, invece, fossero pienamente coerenti con la “deterrenza diplomatica” avviata da Pericle per prevenire l’estendersi della guerra. Benché fino al 431 a. C. la strategia periclea avesse mirato ad evitare la presa delle armi, la pressione dei Corinzi su Sparta e l’odio tebano verso Atene, ostile al suo progetto di unificazione della Beozia, invitarono la controparte a non indietreggiare dinanzi alla guerra dichiarata. L’invasione spartana dell’Attica determinò l’attuazione della politica precauzionale di Pericle, limitandosi a raccogliere la cittadinanza entro le Grandi Mura e a far uscire dei distaccamenti di cavalleria affinché dissuadessero l’esercito nemico dall’avvicinarsi alla città. Ciò valse allo stratega ateniese l’accusa di vigliaccheria mossagli da colui che Tucidide ed Aristotele definirono il più crudele e rozzo tra i politici del tempo, Cleone, esponente dell’ala estrema democratica. La campagna punitiva contro Sparta del 431 a.C., successiva alla precedente inazione ateniese, riportò a Pericle il favore popolare, al punto da essere indicato come l’oratore più abile per l’elogio ai caduti, assimilabile per la sua originalità ed efficacia al Gettysburg Address di Lincoln del 1863: «Come Lincoln, Pericle voleva spiegare ai vivi, nel corso di una difficile guerra, perché le loro sofferenze fossero giustificate e la loro dedizione necessaria. Nel farlo, tracciò il più glorioso e affascinante ritratto a noi noto della democrazia ateniese e della sua superiorità sullo stile di vita spartano».

Il logoramento che caratterizzò questa prima fase della guerra fu acuito dallo scoppio della peste, in cui perse la vita anche il glorioso condottiero. Smentendo il giudizio tucidideo in base al quale Atene, nell’età di Pericle, era stata una democrazia solo nominale e si era trasformata nel regime del suo “cittadino più degno”, Kagan giustifica l’azione periclea in quanto adeguatamente rispettosa della volontà delle assemblee e condotta all’insegna della franchezza: «Era un politico che, cosa rara negli Stati democratici, aveva detto ai cittadini tutta la verità, pur portando avanti azioni discutibili e impopolari». Solo dopo la sua morte, si cercarono nuove strade per conseguire la vittoria, caratterizzate dall’aggressività e dall’offensiva di Cleone. Fu proprio quest’ultimo che, in un vero e proprio agòn oratorio con Diodoto, sostenne la necessità di ricorrere a misure eccessive contro i ribelli di Mitilene nel 427 a.C. Il vuoto di potere post-Pericle affidò le sorti dell’imperialismo ateniese ai contrasti tra fazioni avverse, quella radicale, rappresentata dal guerrafondaio Cleone, e quella conservatrice moderata con a capo Nicia. Sebbene artefice della famosa pace suggellata nel 421 a.C. e rappresentante della linea “pacifista”, Nicia fu coinvolto in un intervento offensivo-punitivo, che ispirò a Tucidide la considerazione della guerra come “maestra di violenza”.

Durante gli anni di una pace apparente, gli Ateniesi, reclamando l’alleanza della neutrale Melo, risposero alla sua resistenza con l’espugnazione dell’isola, con il massacro degli adulti e con la riduzione in schiavitù delle donne ed i bambini (416-415 a.C.): «ormai […] avevano completamente abbandonato la politica moderata di Pericle, considerata fallimentare, preferendole quella più dura di Cleone nella speranza che dissuadesse da future resistenze e ribellioni». Un vero e proprio cambiamento di rotta si ebbe con l’entrata in scena di Alcibiade, vincitore su Nicia e promotore del trasferimento del conflitto in Magna Grecia per rimuoverlo dallo stallo. La spedizione ateniese in Sicilia, paragonata da Kagan al tentativo britannico per la conquista dei Dardanelli nel 1915 e alla guerra americana in Vietnam degli anni ’60 e ’70, ebbe un disastroso esito fallimentare e contribuì enormemente al sentimento comune della fine imminente, presagita, secondo l’opinione pubblica, dal sacrilegio della mutilazione delle Erme per mano di Alcibiade.

La potenza di Atene si avviava al tramonto: dopo la defezione di molti alleati della Lega delio-attica e l’alleanza spartana con il Gran Re di Persia, Atene divenne lo scenario di lotte civili che segnarono il futuro della democrazia, dal colpo di Stato oligarchico del 411 a.C. al ritorno della democrazia poco dopo. Solo la vittoria spartana ad Egospotami nel 404 a.C. rese evidente la debolezza dell’ideologia democratica, superata dall’instaurazione di un “governo fantoccio” che ricondusse la città all’ordine, con interventi di confisca e condanna a morte degli avversari politici. Anche quando la democrazia venne restaurata nel 403 a.C., all’insegna della moderazione e dell’equilibrio, la logica del terrore prevalse e la condanna di Socrate divenne il caso emblematico di una città che non aveva ancora metabolizzato il trauma della violenza bellica e della sconfitta. Le due città protagoniste dello scontro non avevano rivaleggiato solo sul piano della supremazia, ma anche e soprattutto sul piano ideologico, originando l’antagonismo tra due forme di governo opposte, quella della democrazia ateniese e quella della oligarchia spartana. Analogamente alla Grande Guerra del 1914-1918, la grande guerra tra Atene e Sparta «fu un evento tragico, un cruciale momento di svolta nella storia, la fine di un’epoca di progresso, prosperità, fiducia e speranza, e l’inizio di un periodo oscuro».

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