Sandra Santoro insegna greco e latino nei licei a Napoli.

Recensione a
S. Tatti, Esuli: scrittori e scrittrici dall’antichità ad oggi
Carocci, Roma 2021, pp. 184, €19.00.

L’errare verso ignote destinazioni, il nomadismo coatto, l’implacabile convertirsi in tiepide o ardenti nuove occupazioni raccontano dell’esule, un’“entità narrante”, quale emerge nel quadro della letteratura di ogni tempo sul tema. L’esperienza dell’espatrio forzato nella letteratura tematizza quasi sempre il disfarsi di un ordine (storico, politico, sociale, ideologico…), implica uno sradicamento dalla propria comunità, un sentimento di frustrazione da cui procede un bisogno di compensazione e sicurezza; i nodi del dolore si aggrovigliano e si sciolgono in variegate forme di scrittura con intento memorialistico, testimoniale e metabolizzante dell’esclusione subita. Si crea dunque, in tal senso, una complicità inscindibile tra scrittura e nostalgia provocata dall’esilio, una cooperazione che allevia la drammaticità dell’evento, fino a trasformarla in una consapevolezza esistenziale che non va taciuta, anzi, va offerta come lascito necessario e paradigmatico.

Concepito e scritto tra i mesi della primavera e dell’estate del 2020, il testo di Silvia Tatti ripercorre la storia del tema dall’autorevolissima fonte biblica ai classici, dalle fonti medioevali a quelle rinascimentali, dalla cultura risorgimentale sino a quella dei nostri giorni. Non si intende costruire una storia unitaria della letteratura dell’esilio, piuttosto si intende far riemergere quel «deposito memoriale» di immagini, parole, cliché che ritornano come il movimento di una sinfonia che si ripete, in diari, saggi, memorie, liriche, narrazioni di ogni tempo. La vicenda dell’esodo del popolo ebraico e la sua riammissione in patria dall’Egitto, rievocata nell’Antico Testamento (Esodo, Libro di Ezechiele, Salmi, Libro di Isaia), ispirano un immaginario della partenza dell’esule ed un simbolismo trasparente che riscuoteranno enorme successo nei successivi momenti della narrazione sull’argomento: «il lascito che le scritture sacre consegnano alla tradizione letteraria riguarda dunque la rappresentazione dell’esilio che da esperienza storica e biografica diventa l’emblema di un percorso universale di punizione e sottrazione, di perdita e dolore, ma che assume anche il valore di una prova e di un percorso di purificazione che permette al credente di essere riammesso nelle grazie del Signore».

Anche nel mondo greco l’arma dell’esclusione dalla comunità viene impugnata a danno di chi si macchia di aidòs, contro chi disprezza quella compunzione che inibisce l’agire immorale, ogni trasgressione delle regole. Il teatro tragico contribuisce notevolmente a ridefinire l’accezione di esilio, non più inteso solamente nella sua valenza sociale e politica, ma secondo un’ottica esistenziale, come accade soprattutto nelle Fenicie (Euripide), nelle Supplici (Eschilo), nell’Edipo re ( Sofocle):

l’esperienza dell’esilio […] diventa un elemento chiave attraverso il quale misurare il rapporto tra l’individuo e la comunità; nell’isolamento e nella lontananza cui sono condannati tanti protagonisti delle tragedie greche si amplifica la riflessione sul destino dell’uomo e sul senso dell’esistenza.

Come ripulirsi dalla macchia sociale? In che modo si colma il vuoto della fuoriuscita da una comunità che concepisce l’individuo come “animale sociale”? Quale attenuazione di un’afflizione che angustia l’animo, gettandolo in un’abiezione quasi irrisolvibile? Da qui la necessità di riformulare il senso stesso della sconfitta dell’esule: nella tragedia, dunque, la catastrofe dell’esilio si riconverte in momento edificante, poiché sostiene la catarsi dell’eroe e lo riscatta dall’onta subita.

In ambiente romano, l’angoscia dell’allontanamento dalla patria alimenta quella fervida ostentazione della propria temperanza che sublima l’esperienza negativa in una prova di patriottismo e lungimiranza politica. Negli anni più difficili della storia del tramonto della repubblica romana e dell’irrefrenabile degradazione del mos maiorum, Cicerone ricorre ossessivamente alla scrittura con l’intento apologetico della sua missio e nobilitante della sua funzione di saggio che preserva e rafforza la sua integrità morale, anche lontano dalla sua terra e dai suoi cari, nonostante i complessi ingranaggi della storia. La connotazione epica del tema, insita nel racconto delle peregrinazioni del “fato profugus” Enea e della maturazione del senso profondo del suo destino, viene superata del tutto dalla attività poetica ovidiana, orientata nella direzione del bilancio esistenziale: la scrittura salva il peregrino e lo avvia alla «costruzione di una propria storia alternativa a quella pubblica cancellata dagli avvenimenti». La precarietà storica ed esistenziale (il provvedimento augusteo, i pericoli del viaggio verso Tomi) viene trasfigurata in forme letterarie  (soprattutto nei Tristia) che consolidano l’immagine del poeta eccellente che assorbe la vita e la redenzione proprio da quella scrittura che ne ha determinato la condanna. La consolazione è irrinunciabile, l’impegno letterario asseconda un’istanza emotiva di scarico dello sdegno e di ricostruzione identitaria; si canonizza lentamente l’effetto “terapeutico” della separazione dalla propria terra e dai propri cari dal momento che la vita solitaria comporta in sé la possibilità di abbandonarsi alla contemplazione, di interrogarsi sullo straniamento dell’uomo, di conquistare, nella relazione intima con se stessi, quella sicurezza spirituale, quella libertà interiore, quella constantia sapientis che abbatte anche i rovi più spinosi delle passioni e respinge ogni ingiustizia ed offesa.

Da Seneca a Dante il tema si arricchisce di connotazioni metaforiche che focalizzano l’attenzione sull’opportunità positiva del distacco dal mondo a favore di una rinnovata saggezza. Il poeta medioevale, memore della lezione di Cicerone e di Seneca, scosso dalle vicende storiche a lui contemporanee, proprio durante gli anni dell’esilio, concepisce il poema allegorico della Commedia, dove il Dante esule politico ed il Dante esule cristiano viaggiano nella direzione dell’affrancamento dalla materialità terrena e della salvezza, senza mai deflettere dal cammino predefinito dalla Grazia. Motivi, linguaggio e formule retoriche della tradizione transitano agevolmente nella produzione ottocentesca che genera un vero e proprio “mito eroico” dell’esilio, da Foscolo ai patrioti del Risorgimento: «la genealogia dell’esilio si avvale di una ritualità simbolica in cui hanno un ruolo importante, celebrativo e identitario, riti come i funerali, i necrologi, le biografie che concorrono a creare il mito del patriota che vive lontano dalla patria sacrificando all’ideale risorgimentale la sua vita personale». Oltre il confine, il passaggio nell’alterità del nuovo mondo comporta ardue prove individuali, privazioni profonde, di cui la più sentita e tragica è la sofferenza linguistica, la perdita di una comunicazione spontanea e immediata consentita dalla lingua madre. La risposta al fenomeno è duplice: c’è chi si immerge appieno nella nuova dimensione ed inaugura una nuova modalità di scrittura che fa capo ad una produzione in un’altra lingua, e chi, invece, preserva assoluta fedeltà alla lingua materna, quella lingua che urla il diritto inalienabile dell’identità e dell’appartenenza culturale e sociale, seppure politicamente negata.

Nell’emergente scrittura al femminile del Novecento il patrimonio tematico, linguistico, retorico e di generi si trasfonde in una riflessione in cui risuona l’eco di una fragilità autoriale femminile, connessa ad una condizione di genere già di per sé svantaggiata rispetto a quella maschile. Il luogo altro talora, come nel caso della filosofa Maria Zambrano, in fuga dalla Spagna negli anni bui del post-conflitto civile del 1936-1939, diviene spazio “metafisico”, un non luogo che «può trasformarsi in una condizione rivelatrice di esperienze conoscitive profonde, paragonato ad un naufragio, foriero di una rinascita che proietta il sopravvissuto in un’esistenza diversa». La modalità prescelta nello “spazio metafisico” per la crescita individuale è costituita dalla speculazione filosofico-razionale, ma soprattutto dall’empatia e dall’amore: esemplari sono al riguardo la fierezza e la nobiltà di ideali dell’eroina sofoclea Antigone, inflessibile nella sua difesa dell’amore incondizionato verso il fratello, seppure contrastato da una forte ragione di Stato. Anche indipendentemente da una reale situazione di dispatrio, la scrittura femminile si avvale del denotativo dell’esilio per denunciare una sentita marginalità culturale e sociale, per comunicare quell’insopprimibile istinto all’emancipazione e alla narrazione del forte sentire passionale ed immaginativo. Ed ancora la scrittura costituirà il vettore più sicuro che sottrae all’oblio vicende di inappartenenze e peregrinazioni, che riconcilia con la vita esistenze provate e massacrate dalle efferatezze delle guerre (come, ad esempio, Ungaretti ed autori dei nostri giorni), dalle ideologie totalitarie (Brecht e Mann), dagli effetti più crudeli di una globalizzazione che ha segnato più fortemente le sperequazioni tra nazioni e popoli della storia contemporanea.

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