Sandra Santoro insegna greco e latino nei licei a Napoli.

Recensione a
L. Canfora, Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni
BUR Rizzoli, Milano 2018, pp. 152, €10,00.

La morsa del “presentismo” ci stringe e ci costringe a collocare la nostra esistenza sempre più in un tempo che si concepisce come figlio di sé stesso, che accoglie i più rivoluzionari mutamenti e fenomeni come autoprodotti ed incondizionati da qualsivoglia nesso col passato. Si è sempre più inclini a rivendicare l’“autonomia” della modernità, quasi fosse l’unico mondo possibile e ben determinato da contenere in sé la causa e l’effetto di ogni processo. Questa semplificazione interpretativa della realtà esclude la complessità della concatenazione di circostanze, fattori, condizioni, maturati in passato, nel suo lungo corso, e risonanti, incontrovertibilmente, nell’oggi e nel domani. Prendere le distanze dal passato lede alla comprensione di ciò che accade intorno a noi e che, talora, appare oscuro; bisognerebbe, dunque, recuperare le radici della storia per affrontare gli inganni della società odierna e per fronteggiare le più urgenti necessità, con la consapevolezza che il loro nucleo germinale giace molto più lontano di quanto si possa immaginare. Ciò che è stato non va collocato nel suo cantuccio o affidato all’oblio, ma va rispolverato, rievocato, recuperato ed analizzato perché ci riguarda e costituisce la fonte da cui sgorgano molte delle questioni del momento attuale. Si rimane in superficie se si minimizza il valore dell’incidenza del passato sul presente, si rischia di avere una visione parziale della realtà, di perderne quelle specificità che, invece, uno sguardo all’indietro potrebbe spiegare. I numerosi quesiti del nostro quotidiano ci spingono a dialogare con la nostra storia, a concepirla come patrimonio da custodire gelosamente per la ricchezza delle risposte che può offrirci; scavare nelle viscere dell’antichità si rivela tutt’altro che un esercizio vuoto e superfluo, è il segno di una ricerca che vuole dipanare il groviglio dei perché irrisolti; in questo modo, si prospetta la necessità di un confronto coi nostri antenati, con la matrice della nostra identità culturale, con quella classicità che ha disegnato il profilo della nostra lingua e delle nostre tradizioni: ma in che modo va ricercato questo raffronto?

Canfora, nella sua silloge di saggi, che compone il volumetto Noi e gli antichi. Perché lo studio dei Greci e dei Romani giova all’intelligenza dei moderni, ci istruisce sul modo in cui va concepito il vincolo tra antichi e moderni: «la strada da percorrere, la meno ingenua, e forse anche la meno sterile, sarebbe proprio quella che punta a conoscere per differentiam: al di là di una tradizione umanistica di lunga durata, che insiste sulla identità tra loro e noi. Mette conto di sforzarsi di capire, con strumenti che ormai non mancano, la differenza». Questa relazione culturale tra noi e gli antichi va dunque liberata dagli spazi angusti della identità e riproposta in termini di diversità, perché le differenze definiscono più marcatamente il valore dell’eredità che i nostri antenati ci hanno trasmesso. È doveroso difendere lo studio della storia, è fondamentale definire quale metodo sia valido, quale legame vi sia tra storiografia e verità; partendo da ciò, Canfora evidenzia la difficoltà nello scrivere la storia ed invita a «prendere nozione della costante e consustanziale relatività del mestiere dello storico. A seconda della distanza dall’evento trattato, gli storici ne daranno un profilo e ne riveleranno delle facce volta a volta differenti: tutte, in fondo, in qualche modo vere, e spesso tra loro complementari: nessuna esaustiva, come esaustiva non sarebbe neanche la meccanica somma di tutte quelle facce». In questo modo ogni storia è soggetta al giudizio di chi la scrive e di chi la recupera, ponendola al servizio di nuove ideologie; il modello spartano nella sua forma di Stato-militare, descritto abilmente da Senofonte nella sua Costituzione degli Spartani, ed impostato su un’educazione fisica rigida e selettiva, ad esempio, fu molto apprezzato nel Terzo Reich e fu definito da Hitler come la più luminosa forma statale a base razziale della storia dell’umanità.

Similmente, nel fervore ideologico della guerra di secessione, i sudisti, a difesa della schiavitù delle piantagioni, invocarono la democrazia elitaria ateniese. Proseguendo ancora, tra la tarda Seconda Internazionale e la Terza Internazionale, possiamo ricordare come l’antichistica marxista abbia focalizzato l’attenzione sulla centralità della schiavitù come “contenuto” di produzione antico. Altrettanto pregnante è la sezione relativa alle differenze tra l’“autopsia” delle testimonianze dirette degli storici antichi e le fonti documentarie che hanno, nei secoli, conquistato la priorità rispetto all’esame autoptico (tramite l’osservazione diretta) di quanto narrato, su cui Erodoto elaborò la sua idea di historia. Di qui viene affrontata la questione della inconciliabilità del binomio storiografia-verità, con l’accento sul nesso tra potere e conoscenza, nonché sul condizionamento esercitato dagli Stati o dai regimi nell’accesso alla documentazione, sulla difficoltà di leggere le testimonianze «contropelo», in modo da depurarle dalle intenzioni di chi le ha prodotte. Questa lunga riflessione è corroborata dalla trattazione di interessanti temi concernenti l’attuale  statuto scolastico delle discipline classiche: citando un estratto da Filologia classica e… romantica 1962 di Girolamo Vitelli, Canfora insiste sulla conoscenza globale del classicismo, finalizzata non solo all’istruzione ma, prima di tutto, alla formazione civile, morale ed intellettuale dell’individuo.

Per uno studio più critico della cultura classica si raccomanda una maggiore interazione tra la lettura del testo e la storia dell’interpretazione del testo, fino a chiarire che «non esiste una interpretazione definitiva, “vera”, una volta per sempre, ma che, – al contrario – […] è nella storia e non è metastorica». A supporto di ciò si sostiene l’acuta meditazione storico-pedagogica di Gramsci, agli antipodi della suggestiva proposta del liberal-conservatore Alexis de Tocqueville, a favore, invece, di un sapere tecnologico scientifico, più spendibile all’interno di una società moderna industriale e meno pericoloso per il suo equilibrio;  Canfora, in convergenza con Gramsci, libera lo studio classico dall’accusa di meccanicità ed aridità, e ne loda l’esercizio al ragionamento e all’astrazione. Lo spiraglio critico che deriva da questa convinzione riguarda le più recenti riforme degli ordinamenti scolastici, tendenti, in misura crescente, alla banalizzazione e alla semplificazione dei contenuti, offrendo alla maggioranza un “surrogato di sapere”.

A difesa di un sapere più solido e consapevole, si ripropone la “frequentazione” dei Greci e dei Latini tramite la traduzione, ritenuto uno dei «cimenti intellettuali più ardui e maggiormente fondati sull’intuizione»; l’esercizio traduttivo deve compiersi con intelligenza storica e con la pratica al ragionamento sui cosiddetti “silenzi del testo”, su ciò che è taciuto dall’autore ma presupposto. L’assunto di Canfora, nel suo tripartito volumetto, perviene a contrastare ogni fermento di illusoria modernità che pretenda di slacciarsi dallo spessore ideologico della cultura classica, unico scudo alla sterilità del pensiero unico e all’ammanto della grande bellezza dei più alti valori umani.

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