Pierpaolo Naso è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l'Università "Guglielmo Marconi" di Roma, dopo aver conseguito presso l'Università di Roma "La Sapienza" la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. Dal 2023 è iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Ha pubblicato due contributi presso la "Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale" e la "Rivista di Studi Politici", oltre che numerose recensioni presso diverse riviste scientifiche di storia, diritto, geografia, filosofia e scienza politica.
Recensione a
A. Barbero, L’aristocrazia nella società francese del Medioevo. Analisi delle fonti letterarie (secoli X-XIII)
Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 464, € 25.00.
Cavalieri, nobili, monaci e mercanti: il fascino che suscita il Medioevo passa inevitabilmente da questi caratteristici tipi umani e storici. Il noto medievista Alessandro Barbero ha ripubblicato con Laterza il suo studio sull’aristocrazia nella società francese del Medioevo, la cui prima edizione Cappelli risale all’anno 1987. Già nell’Introduzione, l’Autore specifica che «per definire l’oggetto della ricerca ho scelto il termine volutamente neutro di aristocrazia, evitando di proposito quello di nobiltà, le cui consuete implicazioni giuridiche sono del tutto inadeguate alla realtà francese quale si presenta nei secoli centrali del Medioevo» (p. 3). Pertanto, nell’accezione aristocratica si comprende internamente una serie di figure distinte e concorrenti in molti casi. Barbero passa così in rassegna le accezioni linguistiche ed etimologiche sul tema. Il saggio si suddivide in tre Parti: “Nobili e milites”, “L’aristocrazia e la Chiesa”; “L’aristocrazia e i ceti inferiori”.
In primis, vengono analizzati i ruoli della nobiltà e della cavalleria: queste spesso confuse tra loro, ma con caratteristiche specifiche che le rendevano reciprocamente autonome. Non tutti i nobili erano cavalieri, e viceversa. Pertanto, il mestiere delle armi era diffusissimo e lo «status cavalleresco» determinava «prestigio sociale» parallelamente alla discendenza familiare nobiliare. A differenza di quella francese, la storiografia tedesca e olandese ha ritenuto più opportuno separare i concetti di nobiltà e cavalleria. Viene rivista anche la questione etimologica intorno al termine milites. Per Jean Flori la cavalleria andava considerata una corporazione di mestiere più che un ceto sociale; mentre per Franco Cardini la cavalleria ha posto l’accento maggiormente sugli aspetti iniziatici. Anche se i termini mostrerebbero una certa «rigidità» di significato, i concetti annessi sono caratterizzati da «fluidità»: vanno compresi perciò i problemi linguistici della Francia e dell’Europa medievale in genere.
Tra i vari autori, viene menzionato ad esempio l’agostiniano Egidio Romano che «traeva dall’insegnamento di Aristotele la convinzione che il concetto di nobiltà dovesse essere riservato alla discendenza da antenati illustri» (p. 45). Vi era poi una «signoria di banno» che, per legittimare il proprio dominio territoriale, avviava ricerche documentarie sulla discendenza di honores. Altro caso interessante fu quello dei milites che costituivano il nerbo della società normanna: la forza delle armi era tale da poter forgiare nuove dinastie come quella di Guglielmo “il Conquistatore”, dalla Normandia all’Inghilterra. Si definiva adoubement la consegna pubblica e solenne delle armi ai milites da parte paterna o signorile; questa pratica rituale risultava già presente tra i Germani e Romani. Il riconoscimento militare poteva possedere anche una legittimazione religiosa. A riguardo, Barbero fa notare che nel XII secolo per Guglielmo di Tiro «gli appartenenti all’equestris ordo sono senza discussione dei viri nobiles» (p. 81), mentre san Bernardo «non esita a parlare del sacramentum militare in riferimento all’adoubement» (p. 99).
Viene poi menzionato il caso della sconfitta crociata nella battaglia di Hattin (1187) per mano dell’esercito di Saladino: ciò privò i Cristiani della migliore cavalleria, tanto che Balian d’Ibelin dovette armare, come rimpiazzo, decine di giovani dalla borghesia di Gerusalemme. Una consuetudine diffusa nelle necessità dei re per limitare il potere della nobiltà: si tendeva a nominare cavalieri anche quegli uomini senza alcun diritto di nascita, ma che dimostravano fedeltà al sovrano. L’«aristocrazia militare» non fu generalmente composta da soggetti eguali nel medesimo piano, poiché possedeva una sua gerarchia interna in base al potere ed alla ricchezza. Su ciò poteva spiegarsi l’ordine di vassallaggio tipico della società medievale. Potevano tuttavia convivervi sia i riches hommes sia i povres chevaliers. Dalle cronache di Goffredo Malaterra sui normanni di Sicilia si poté evincere che il coraggio di andare in battaglia «il valore di un nobile, il pretium, risulta direttamente proporzionale alla sua auctoritas» (p. 139). Per necessità di numero, si ricorreva anche ad assoldare mercenari al di fuori dei valori cavallereschi.
Nel libro si considera la caratterizzazione della societas christiana costituita da chierici e laici; in particolare il rapporto che vigeva tra queste categorie e la gerarchia interna ad esse. Viene posto l’accento sulla spiritualità del tempo a fronte della guerra, della caccia e delle violenze in genere esercitate dall’aristocrazia laica, poiché ciò, si pensava, avrebbe provocato un disordine nell’armonia naturale disegnata da Dio. Per quei giovani aristocratici miscredenti o anticlericali, lo stile di vita dei monaci rappresentava l’esatto opposto della loro quotidianità. Bisognava piuttosto armarsi contro i pagani, e porsi a difesa della Chiesa: così avvenne quando vi furono le Crociate contro eretici in Europa e contro gli infedeli in Terrasanta. La religione coinvolse tutti gli strati sociali, tanto che si poteva ammettere la “guerra santa” al di fuori della Cristianità, ma non conflitti tra cristiani medesimi. Come è sempre avvenuto in passato con altri culti, si invocava l’intervento divino prima della battaglia. I crociati si lanciarono nella mischia con le insegne di Cristo: fu significativo il sacrificio cavalleresco di re Luigi IX “il Santo” a Tunisi nel 1270. Al contempo, i contadini pregavano nella speranza di sopravvivere a carestie e pestilenze. La protezione e la custodia delle reliquie dei Santi, diede prestigio all’alto clero.
I figli di nobili, qualora fossero cresciuti forti e coraggiosi, venivano destinati alla cavalleria; e Barbero specifica: «se i deboli e i deformi sono ceduti senza discussione al monastero, un ragazzo robusto è abbandonato malvolentieri» (p. 228). Eppure, furono numerosi i cavalieri che, da veterani di molte battaglie, scelsero di abbandonare la spada per la vita monacale, sia a causa delle ferite riportate, sia per pentimento, riscoprendo la caducità della vita terrena. Il testo si occupa anche del ruolo di templari e ospedalieri, in quanto veri e propri monaci-cavalieri: l’ingresso in questi Ordini poteva avvenire anche per parentela, creando una nuova tipologia di aristocrazia. Mentre buona parte del basso clero osservava con preoccupazione l’uso diffuso delle armi, tra gli imbarazzi degli agiografi, emersero anche alcune figure di vescovi armati. Questi, in quanto appartenenti sia dell’aristocrazia sia del clero, maneggiarono spada e pastorale, per controbilanciare gli abusi di potere in contrasto con la dottrina cattolica e per affermare il proprio dominio rispetto ai sovrani. Tra i «prelati guerrieri» viene ricordato dall’Autore l’arcivescovo Turpino, eroe morto nella battaglia di Roncisvalle narrata nella Chanson de Roland.
Nei capitoli dedicati alla trattazione sulla posizione dell’aristocrazia rispetto ai ceti subalterni, Barbero menziona Roland Mousnier in merito alla «possibilità di applicare la nozione di classe alle società di Ancien régime» (p. 304). Esisteva anche un codice d’onore comprendente una data solidarietà anche tra cavalieri nemici. Vi era anche un senso di comunione nell’etica cavalleresca in netto contrasto con quella emergente dei mercanti: la competizione delle armi non poteva essere paragonabile a quella del denaro. Il testo poi si occupa del conflitto sociale tra pauperes e principes, in particolare ci si focalizza sulla vicenda delle rivolte contadine della cosiddetta Jacquerie.
Barbero analizza i miti d’origine sulla cosiddetta «egemonia nobiliare», che andavano fatti risalire persino alle letture bibliche, ad esempio lo scontro fratricida dove il “nobile” Abele veniva ucciso dal “plebeo” Caino. La nobiltà d’animo del potere feudale veniva disputata con chi deteneva titoli ecclesiastici: e così i bellatores laici dovevano riconoscere una certa superiorità spirituale degli oratores clericali. In genere si pensava ad una gerarchia piramidale, ovvero una società di disuguaglianze ordinate che evitasse qualsiasi rischio di sprofondare nell’anarchia. «Non sorprende quindi che anche la monarchia abbia fatto ricorso al mito dell’età dell’oro per giustificare la propria esistenza» (p. 364), e di seguito, agli strati sociali gregari doveva convenire tutto ciò. L’aristocrazia, d’altro canto, si arroga il diritto di proteggere e guidare i ceti subalterni: ruoli ed attitudini concorrenti che già la monarchia intendeva praticare. Inoltre, secondo il pensiero del tempo, un vincolo sociale come il formariage rientrava nelle «leggi di natura» e, quindi, nella «legge divina».
Nelle conclusioni finali, si specifica che il termine noble non possedeva alcun riconoscimento giuridico ufficiale, bensì rientrava in un automatismo epocale specifico che ne garantiva una relativa posizione sociale elevata. Oltre all’analisi delle fonti dirette, ovvero cronisti e poeti appartenenti alla letteratura medievale – le varie Chansons de geste oppure il Roman de la Rose –, vi si ritrova un ampio resoconto della storiografia novecentesca – non solo francese, ma anche europea – sul Medioevo, come gli studi di Lucien Febvre e La société féodale (1939-1940) di Marc Bloch, quest’ultimo molto caro a Barbero.