Pierpaolo Naso è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l'Università "Guglielmo Marconi" di Roma, dopo aver conseguito presso l'Università di Roma "La Sapienza" la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. Dal 2023 è iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Ha pubblicato due contributi presso la "Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale" e la "Rivista di Studi Politici", oltre che numerose recensioni presso diverse riviste scientifiche di storia, diritto, geografia, filosofia e scienza politica.

Recensione a: Il municipalismo di Luigi Sturzo. Alle origini delle autonomie, a cura di N. Antonetti, M. Naro, il Mulino, Bologna 2019, pp. 168, € 16,00.

Tra le pubblicazioni promosse dall’Istituto Luigi Sturzo negli ultimi anni ve n’è una meritevole di particolare attenzione, anche ai fini dell’attuale dibattito pubblico italiano. Si tratta del libro dedicato al pensiero di Sturzo in materia di municipalismo e curato da Nicola Antonetti e Massimo Naro. Il volume contiene i contributi di Francesco Malgeri, Agostino Giovagnoli, Alessandro Pajno, Vittorio De Marco, Andrea Piraino, Giuseppe Di Fazio, Michele Pennisi ed Eugenio Guccione. La ricerca si focalizza appunto sul periodo «municipalista» sturziano, ossia la fase precedente e preparatoria alla fondazione del Partito popolare italiano; come spesso accaduto, la Sicilia è risultata un luogo-chiave per “esperimenti” politici da estendere all’intero Paese.

La presa sabauda di Roma nel 1870 aveva estromesso il Papato dalla vita politica. Nonostante questo clima conflittuale tra Stato e Chiesa, gli ambienti culturali furono caratterizzati da eterogeneità: i cattolici, inizialmente esclusi, compirono un’azione di reinserimento nella nuova comunità nazionale. Il giovane Sturzo si formò anche sul pensiero attivista di personalità come Giuseppe Toniolo e Romolo Murri, nel pieno del passaggio dall’astensionismo non expedit all’interventismo sociale della Rerum Novarum (1891) di Papa Leone XIII. D’altronde, l’Unità d’Italia aveva favorito un diretto collegamento tra le realtà ecclesiastiche – prima suddivise negli Stati preunitari – ed il vescovado di Roma: vi erano già dei comitati cattolici in cui iniziava a fiorire una coscienza nazionale affiancata all’interesse per questioni sociali. Sturzo non si mostrò un antistatalista a priori, ma intendeva rinnovare lo Stato e migliorarne la funzione a partire dal Mezzogiorno d’Italia. L’opposizione al centralismo si poneva come difesa degli enti locali meritevoli di maggiore autonomia: la famiglia, il Comune e la Regione erano da ritenersi «enti naturali intermedi» da inserire in uno «Stato organico». Per contrastare le ideologie dominanti –  allora hegelismo, panteismo ed ateismo –, vi era la necessità di creare sui territori un nuovo ceto politico, imprenditoriale ed amministrativo di formazione cattolica, che potesse divenire base per la creazione di un partito laico aperto alle masse popolari. Cionondimeno, la maggioranza della popolazione cattolica era alienata ma inevitabilmente condizionata da liberali, radicali, socialisti che dominavano la scena politica.

Nel saggio, si evidenzia che anche oltralpe – grazie a pensatori come Félicité de Lamennais e Jacques Maritain – si ragionava sull’esigenza di un impegno politico dei cattolici, nonostante la secolarizzazione della società europea generatasi dalla Rivoluzione francese. A cavallo tra i due secoli XIX e XX, il rapporto tra Stato italiano e Vaticano rimase in crisi fino alla firma dei Patti Lateranensi (1929), in cui venne revocata gradevolmente la «questione romana» per entrambe le parti. Prima di ciò, Sturzo non condivise il compromesso del «Patto Gentiloni» con i liberali, bensì si prodigò per elaborare un’alternativa indipendente dei cattolici nello scenario politico. Bisognava considerare oltretutto l’importante crescita del socialismo, ed in particolare il fenomeno dei Fasci siciliani dei lavoratori guidati a Catania da Giuseppe De Felice Giuffrida. Nonostante le repressioni contro il movimento defeliciano, tra contadini ed operai permase un senso di riscatto che, secondo Sturzo, l’attivismo cattolico aveva il dovere di rappresentare. Egli riconosceva la conflittualità nella dinamica politica e considerava la democrazia come un «consorzio civile»: comprese che era essenziale discutere una riforma dello Stato burocratico fino ad allora distante dai problemi sociali, e concepire il meridionalismo a partire dai Comuni. Il municipalismo ed il regionalismo si ponevano non come nemici dello Stato centrale, ma come proposte artefici di arricchimento ed ottimizzazione delle competenze amministrative. Di questo parere erano anche giuristi siciliani come Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano, che intravedevano nella «periferia» d’Italia il punto di partenza dell’«energia sociale». Il prete di Caltagirone immaginava la realizzazione di un’«agricoltura industrializzata» per superare il latifondismo e stare al passo con l’economia degli altri Paesi europei.

Alla fine dell’Ottocento, con la riforma per l’elezione del sindaco dal consiglio comunale – per città con un minimo di 10 mila abitanti –, si cominciò a dare maggiore legittimità alla politica degli enti locali. Nel medesimo periodo, le varie formazioni critiche al centralismo discussero anche per una riforma fiscale dei Comuni. Da questo sentire condiviso, nel 1901 nacque a Parma l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani (A.N.C.I.); e nel decennio successivo, Sturzo – in quanto prosindaco di Caltagirone – ne divenne vicepresidente, ritagliando così uno spazio rappresentativo degli amministratori cattolici in un contesto dove primeggiavano radicali, socialisti e repubblicani. In quegli anni, egli si prodigò per la fondazione di un istituto di credito per i contadini, battendosi quindi per la redistribuzione dei latifondi all’insegna di un nuovo concetto di libertà economica distinto dal significato liberale: motivi per cui il giornale La Croce di Costantino subì più volte la censura da parte delle autorità.

Nel novembre 1902, Sturzo riunì a Caltanissetta gli amministratori vicini al suo progetto politico, presentando il Programma municipale dei cattolici italiani. Non era più accettabile l’«ipoteca liberale» nei confronti del Comune come istituzione subordinata e senza benefici sociali. Egli, dunque, pensava ad un nuovo modello di democrazia attraverso il ricorso a referendum, così come tramite un sistema elettorale in senso proporzionale per rappresentanze associate, e non più per candidature individuali: questo era preludio di ciò che nel testo viene definita «ristrutturazione organica del Parlamento». Il convegno nisseno non aveva una prospettiva meramente isolana, ma fu di respiro nazionale, poiché vedeva integrate anche le esperienze dell’associazionismo cattolico del Nord Italia: non a caso, Sturzo condivideva le idee del cosiddetto «municipalismo sociale» di Angelo Mauri. La politica inoltre doveva riscoprire la sua funzione «pedagogica», emancipando il popolo dal notabilato locale, ponendosi come mediatrice delle realtà territoriali a Roma, in quello che fu in seguito definito «regionalismo nella Nazione». Per Sturzo, il «partito municipalista cristiano» doveva esprimere un programma comunitario e non individualista, cosicché i laici potessero svolgere un ruolo rilevante nelle istituzioni.

Nella miscellanea viene messa in evidenza la presenza di Mario Sturzo, il quale seppur perseguendo diverse esperienze, ha accompagnato il percorso politico del fratello Luigi influenzandone il pensiero di «prete sociale». In quel periodo, il clero di Catania operava seguendo le teorie della Scuola neotomista così come le prospettive contenute nell’enciclica Rerum Novarum. Con il cardinale Giuseppe Francica-Nava di Bondifè, si inaugurò difatti la stagione di una Chiesa interventista nella società e nella cultura, ricorrendo specialmente all’utilizzo della stampa periodica per attirare l’attenzione dei laici, allora disorientati dalla propaganda anti-clericale. Grazie a questo ambiente favorevole, poteva svilupparsi una nuova democrazia «cristiana» e non più solamente in chiave socialista: la visione degli Sturzo fu un «umanesimo integrale aperto al soprannaturale». Su questa linea, anche il contemporaneo Giovanni Battista Montini – futuro Papa Paolo VI – viene annoverato come autorevole esponente del «cattolicesimo politico del Novecento».

La «spiritualità civica» di Luigi Sturzo non viene considerata «modernista» in senso stretto, ma certamente presente nella modernità, portandosi al di fuori dei perimetri fisici ed immaginari della parrocchia. Il rapporto tra religione e cittadinanza risaliva agli insegnamenti di San Paolo sul comune sentire cristiano-romano: quindi nel Novecento, occorreva ritenersi cristiani, italiani ed europei. La sfida di Sturzo consisteva nel creare non un partito esplicitamente confessionale, ma un partito di massa, laico e d’ispirazione cattolica, nella consapevolezza che la società italiana riuscisse a mantenere come cardini fondamentali la famiglia, il Comune e la Chiesa. La struttura ideale si rifletteva sull’esperienza concreta di consiglieri e sindaci cattolici, i quali potevano fungere da “pionieri” di una nuova politica, con un «programma municipale» per un «partito municipale». Su questi temi, i cattolici iniziarono a votare in modo organizzato, ponendo le basi per un movimento politico nazionale, che il 18 gennaio 1919, poté realizzarsi nel Partito popolare con l’Appello ai liberi e forti. Il popolarismo si inseriva così al centro del campo democratico, sin da subito con percentuali elettorali importanti ed un gruppo parlamentare numeroso: il successo di Sturzo ricevette commenti di stima da avversari come Gaetano Salvemini e Antonio Gramsci.

Il saggio collettaneo in questione risulta utile per la comprensione aggiornata del pensiero sturziano, risalendo al municipalismo in quanto scaturigine del popolarismo cristiano, e rievocando sul medesimo tema le ricerche dello storico Gabriele De Rosa e la pubblicistica dell’epoca. Pertanto il libro può interessare all’analisi storiografica sull’origine degli enti locali, così come all’odierno dibattito sulle riforme costituzionali tra federalisti e unitari.

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