Pierpaolo Naso è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l'Università "Guglielmo Marconi" di Roma, dopo aver conseguito presso l'Università di Roma "La Sapienza" la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. Dal 2023 è iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Ha pubblicato due contributi presso la "Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale" e la "Rivista di Studi Politici", oltre che numerose recensioni presso diverse riviste scientifiche di storia, diritto, geografia, filosofia e scienza politica.

Recensione a: G. Preterossi, Teologia politica e diritto, Laterza, Roma-Bari 2022, pp. 304, € 25,00.

A cent’anni dalla prima versione schmittiana di Politische Theologie, il professor Geminello Preterossi dedica una monografia rapportando questo tema alle problematiche giuridico-filosofiche e politologiche presenti. Il testo, dal titolo per l’appunto Teologia politica e diritto, è stato edito da Laterza. Oltre che in italiano, vi è anche una edizione in lingua inglese: Political Theology and Law per i tipi della Routledge. Il saggio ripercorre non soltanto i passaggi significativi del noto concetto affrontato da Carl Schmitt, ma riserva anche molti riferimenti al pensiero di Thomas Hobbes e di Georg W. F. Hegel. Questi ultimi furono attinti dal giurista di Plettenberg, pur ribaltandone alcuni exempla teoretici.

Nonostante si possa immaginare retriva, la fondatezza – così come la strumentalità – dell’elaborazione teologico-politica manifesterebbe una caratteristica «insuperabilità» secondo l’Autore, che sin dalle prime righe pone una critica all’inconsistenza della spoliticizzazione odierna e della debolezza del diritto a fronte del dominio economico d’orientamento liberista. Si rileva una scarsa presenza di teologia politica nel senso tradizionale e, al tempo medesimo, l’avvento di nuovi tipi analoghi che pretendono, attraverso la retorica dei diritti umani, di ristabilire il linguaggio politico e giuridico non diversamente dall’affine prospettiva utilitarista della società di mercato. Vi sono tuttavia delle profonde ragioni genealogiche del termine nella storia, considerando l’evoluzione delle forme statuali conformemente ad immagini sempre più desacralizzate. Il potere, fondatosi fino al Medioevo su una giustificazione sacrale e trascendentale, con la Modernità ha difatti assunto un drastico cambio di paradigma legittimato da una dimensione mondana e umana. Lo sviluppo tecnologico ha ritrovato una commistione anche nella dottrina dello Stato coeva alla Riforma protestante, tanto che il Leviatano hobbesiano altro non era che un artificio umano: nella storia del pensiero politico europeo, al «dio mortale» di Hobbes si aggiunse il «dio mondano» di Hegel.

Schmitt, pur rimanendo legato al suo Cattolicesimo romano e forma politica (1923), si impegnò ad analizzare lo Stato moderno d’origine luterana, calvinista e anglicana: con realismo, il giurista tedesco ammoniva infatti che i principali concetti moderni andavano visionati come risultati di un radicale processo di secolarizzazione in Europa. Nello specifico, il cristianesimo avrebbe compreso già al suo interno questa corrente che via via divenne sempre più influente rispetto alla tradizione. La fine delle sanguinose guerre di religione (1618-1948) tra cattolici e protestanti generò un nuovo ordinamento giuridico, ossia lo jus publicum Europaeum fondato su un equilibrio paritetico tra Stati sovrani.

Il potere così è stato presentato come uno spazio vuoto, e aggettivabile da religione, politica e economia in disputa tra loro. La disamina metodologica della «teologia politica» riguarda difatti la commistione di questi elementi rivolti alla fondazione e al mantenimento di un determinato ordine: dal sacro all’artificiale e dal celeste al mondano. Schmitt tentò di spiegare meglio quest’ulteriore elemento nel 1970 con Teologia Politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica, rispondendo alla critica postagli da Erik Peterson.

Pertanto Preterossi sottolinea che l’effettiva necessità di secolarizzazione con il relativo «cuius regio eius religio» e il conseguente «cuius religio eius oeconomia» ha portato già nel Novecento ad una «divinizzazione» dell’economia, a discapito del primato della politica. Nel corso del tempo, difatti, il Politischen ha subìto un continuo rifacimento da «neutralizzazioni e spoliticizzazioni» al suo interno, con lo smantellamento progressivo dello Stato in senso stretto fino ai tentativi umanitari universali che hanno immaginato la costruzione normativista di una Civitas maxima globale: questa è l’essenza speculativa di ciò che Petrerossi ha definito come «teologia umanitaria».

Con il crollo del blocco sovietico e il compimento della globalizzazione occidentale – seppur come parentesi odiernamente in declino – è stata ripensata la criminalizzazione unilaterale del nemico, giustificando guerre «giuste» in nome dell’umanità. A fronte del declino dello jus publicum Europaeum, il giurista di Plettenberg sperava nell’affermazione di nuove forme politiche che costituissero il proprio ordinamento secondo i lineamenti di un nomos terrestre: soltanto negli ultimi decenni, si è potuto constatare un sistema geopolitico multipolare dettato da rispettive giurisprudenze orientate.

L’Autore rilegge anche gli scritti di Antonio Gramsci riguardo la comprensione dell’egemonia come «quistione religiosa», ritrovando punti in comune con la coeva elaborazione schmittiana. Viene inoltre constatato che «nella prospettiva del sistema, il filosofo diviene funzionario, la religione rivelata riformata crea le premesse spirituali della razionalità dello Stato costituzionale, l’arte perde spazio pubblico interiorizzandosi» (p. 160). Tuttavia, in Europa è stato affidato al partito politico il ruolo guida della mobilitazione delle masse verso uno specifico indirizzo politico ed una «Costituzione materiale», concetto conclusivo di Costantino Mortati. Le ideologie del lavoro furono elevate dai fautori a nuove religioni secolari: lo Stato «totale» fu la risposta novecentesca alla crisi del parlamentarismo liberale ottocentesco.

Preterossi dedica un capitolo alla relazione tra la teologia politica ed il populismo, riscontrando nelle varie cause generatrici del fenomeno politologico, innanzitutto a partire dalla antitesi delle ragioni del mercato contro quelle della democrazia. Anche la governance burocratico-finanziaria, il cui potere non deriva da un mandato elettorale, ha giustificato il suo operato principalmente da ragioni di tipo immanente, spesso approfittando di emergenze. Pertanto, il significato di emergenza andrebbe distinto dall’eccezione, proprio per il carattere amministrativo e provvisorio del primo e per l’essere politico del secondo che intende assumersi la responsabilità di guidare un cambiamento storico. Il populismo ha assunto così una certa sacralità legittimante, dal basso del popolo contro l’alto della tecnocrazia. Ma a discutere della problematica odierna dovrebbero essere la scienza giuridica e la filosofia del diritto, proprio in merito alla costituzionalizzazione de facto dell’emergenza e del ricorso alla prassi della governance tecnocratica, dove il governo politico d’espressione popolare risulta in subordine. Preterossi sottolinea il protagonismo e l’indipendenza che gli ambiti accademici dovrebbero tornare ad recepire, con lo scopo di trovare un equilibrio nelle controversie sociali e ripensare concretamente ad una forma politico-giuridica adatta.

In sintesi, Preterossi ha indicato così tre modelli di teologia: politica, economica ed umanitaria. Sono chiari i propositi per una riscoperta del politico come elemento di concretezza, rispetto alla logica di mercato e all’utopia universale dei diritti: nel testo è chiara la preferenza verso il senso di limite rispetto alla fluidità e alla indeterminatezza. La teologia politica rapportata al diritto raggiunge molte questioni e campi d’analisi multidisciplinari: per questo, risulta utile la lettura di questo saggio, aggiungendosi al dibattito sempre aperto sin dalla cosiddetta Renaissance del pensiero schmittiano, da cui gli studiosi non possono che continuare ad attingere le categorie e le definizioni.

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