Pierpaolo Naso è attualmente dottorando in Scienze Giuridiche e Politiche (XXXVII ciclo) presso l'Università "Guglielmo Marconi" di Roma, dopo aver conseguito presso l'Università di Roma "La Sapienza" la laurea triennale in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, la laurea magistrale in Scienze della Politica ed il Master di secondo livello in Geopolitica e Sicurezza Globale. Dal 2023 è iscritto alla Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea (SISSCO). Ha pubblicato due contributi presso la "Rivista della Cooperazione Giuridica Internazionale" e la "Rivista di Studi Politici", oltre che numerose recensioni presso diverse riviste scientifiche di storia, diritto, geografia, filosofia e scienza politica.

Recensione a: L. Frobenius, Paideuma. Lineamenti di una dottrina della civiltà e dell’anima, trad. e cura di L. Arcella, Mimesis, Milano 2016, pp. 126, € 12,00.

Sullo studio delle civiltà, non si può non far riferimento ai lavori magistrali di Leo Frobenius (1873-1938). L’autore, fra l’altro esploratore in Africa, fu noto per aver trascritto numerose narrazioni fiabesche fino ad allora raccontate oralmente, raccogliendole nel Decameron nero (1910) ed in Atlantis (1921-1928). Riguardo la saggistica, la sua opera principale è stata Storia della civiltà africana (1933). Pertanto egli volle impegnarsi nella promozione di un nuovo metodo scientifico e un nuovo concetto: Paideuma. La prima pubblicazione tedesca del volume così intitolato, Paideuma, risale all’anno 1921, anche se fu ripresa più volte fino all’edizione postuma del 1953.

Vissuto a cavallo tra due secoli, Frobenius conobbe e influenzò gli studi di personalità come Walter Friedrich Otto, Franz Altheim, Károly Kerényi. Ma occorre contestualizzare l’attività dell’etnologo in un periodo che per l’Europa, non solo per la Germania, fu molto prolifico ed innovativo dal punto di vista scientifico, se si considera l’avvento di nuove discipline come la fenomenologia, la sociologia, la geopolitica e la psicologia, durante l’apogeo dello sviluppo tecnologico-industriale, nonché nel pieno affermarsi di avanguardie artistiche e letterarie, e nel dibattito in ambito politico-giuridico sullo Stato. Nonostante vi fosse l’obiettivo di delineare una «comprensione globale» del continente africano, il lavoro di Frobenius fu equivocato e criticato in campo accademico.

Il curatore del volumetto, Luciano Arcella, evidenzia la centralità del pensiero di Friedrich Nietzsche nelle elaborazioni di filosofia della storia per gli studiosi tedeschi di allora. Ciò ha portato Leo Frobenius verso la definizione di una Kulturgeschichte, ossia di una storia della civiltà, esulando ciò da preconcetti illuministici e materialistici, ed integrandovi elementi concettuali come il fato e l’anima. Si trovò per questo in sintonia con Oswald Spengler che a quel tempo proponeva una «morfologia della storia» descritta nel coevo Tramonto dell’Occidente (1918-1922): la ciclicità vitale della Kultur era inevitabilmente destinata a degenerare in Zivilisation. Nell’inquadramento spaziale, le civiltà andavano ritenute come «organismi autonomi» difficilmente omologabili, poiché condizionati dal territorio e dal patrimonio culturale sviluppatosi nel tempo. Tuttavia, ogni «sfera culturale» (Kulturkreis) meritava non soltanto una disamina «orizzontale», bensì anche «verticale» per gradi. L’etnologo si ispirò anche alle esperienze di viaggio di Johann Wolfgang Goethe.

Nelle prime righe, Frobenius ha voluto tributare la sua passione da africanista ai lavori precursori del geografo ed esploratore austriaco Oskar Baumann. Analogamente, menzionava l’etnologo Adolf Bastian ed il geografo Friedrich Ratzel, quest’ultimo più conosciuto tra i fautori della geopolitica. Scopo della ricerca in Frobenius era la globalità: «il “paideuma” dell’essere della civiltà. Sì che tutto quel che segue non si traduce in un “è così”, ma in un “così è comprensibile”» – e nello specifico – «l’analisi parte dal dato vissuto (erlebten) al fine di arrivare alla comprensione (Verständnis)» (p. 36). L’etnologo indicava le chiavi di lettura sia dello «studio dei popoli» (Völkerkunde) sia dello «studio della civiltà» (Kulturkunde). Mentre gli europei fino ad allora sottovalutavano la storia dell’Africa – mera terra di conquista coloniale –, Frobenius invece volle donarle una dignità, in controtendenza rispetto alle concezioni diffuse, considerando la pluralità di civiltà formatasi nel corso dei secoli. Nonostante gli ostracismi di una parte accademica, dal 1904 al 1935, Frobenius partecipò a ben dodici spedizioni nel continente africano, ed ottenne spazi archivistici importanti a Monaco, oggi riuniti nel Frobenius Institut für kulturanthropologische Forschung presso l’Università “Goethe” di Francoforte.

Gli studi paudematici tenevano conto degli aspetti spirituali provenienti dalla «poesia», dalla «terra» vissuta e dal significato profondo del «sapere». Come Spengler, anche Frobenius non mancò di criticare l’Occidente, ossia l’Europa, per aver abbandonato il legame con elementi simbolici che avevano contribuito alla sua grandezza. Leggende, fiabe e mitologie furono tramandate per secoli influenzando i fondamenti della vita quotidiana delle comunità africane: nel raccontare ai più giovani queste storie, un ruolo importante veniva svolto dagli anziani che acquisivano così una rilevanza sociale. I temi trattati riguardavano la famiglia, la caccia, l’agricoltura, l’eroismo o la sepoltura, ove le comunità mantenevano nei confronti della natura una particolare armonia. Che si sia trattato di tribù, di regni o di imperi, Frobenius analizzò scrupolosamente la politica di quelle civiltà antiche e persistenti, risalendo così ad alcune formazioni già scomparse e alle organizzazioni di potere che ebbero modo di affermarsi fino all’arrivo degli europei. Annotò come la gestione della società andava a strutturarsi per caste o per anzianità, pur di sfuggire al rischio di disordine interno.

Similmente agli altri continenti, anche in Africa la guerra ha condizionato la caduta e l’assimilazione di civiltà importanti in favore di quelle dominanti, e così via ciclicamente. Non andava sottovalutato che, nonostante fossero delle  religioni forti, al loro arrivo nel cuore dell’Africa, cristianesimo e islamismo dovettero integrarsi inevitabilmente con le tradizioni cultuali locali, a dimostrazione del significativo attaccamento di queste popolazioni verso l’identità autoctona.

Frobenius volle allontanarsi da analisi meccaniciste e razionaliste – secondo cui la storia andava ritenuta un semplice susseguirsi di causa ed effetto –, facendo invece prevalere uno studio per «intuizioni» che potesse contemplare la particolarità del «soggetto» Kultur sull’«oggetto» umano, non praticando tuttavia una prospettiva meramente empirica. Si potrebbe dichiarare che, con una certa lettura eraclitea e nietzschiana, i caratteri dell’«essere» e del «divenire» di una civiltà venivano ricondotti ad un destino irrazionale. In questo specifico modo di ricerca dell’essenza e della sua totalità, Frobenius e Spengler esplicarono parallelamente una distinta disamina della storia rispetto alle tendenze dominanti.

Con uno sguardo verso la storia del mondo, Frobenius riscontrava un paideuma tra Oriente e Occidente, dove le architetture rappresentavano un distinto «senso dello spazio»:

Le terre d’Oriente vivono in una caverna del mondo. L’Oriente non conosce un di fuori. La sua tenda non è un interno, ma un leggero tramezzo che lo avvolge come un vestito. Al contrario l’Occidentale vive in una casa. Gli corrisponde un senso dell’interno, al partire dal quale poté poi sviluppare un senso dell’esterno (p. 90).

Ciò che Spengler considerò come maturità periodica della civiltà, la Kulturmorphologie di Frobenius definiva quella fase come «monumentale», prima del suo compimento fatale: difatti, l’eterno rapporto armonioso tra cosmo e uomo ha subìto in Occidente una «meccanizzazione» supertemporale contestualizzabile nella vita metropolitana. A riguardo, affermava: «Il paideuma è legato in forma immanente alla vita umana, sì che la morte del senso dello spazio paideumatico ha come conseguenza anche il tramonto dell’uomo stesso» (p. 92).

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