Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Recensione a: R. Esposito, Il fascismo e noi. Un’interpretazione filosofica, Torino, Einaudi, 2025, pp. XX + 316, € 20,00.

«Noi siamo questo, loro sono quello», scriveva Edward Said nel suo Orientalismo, per criticare la netta separazione e la distanza che gli “orientalisti” (gli studiosi occidentali) ponevano con il loro oggetto di ricerca, l’Oriente. Il titolo di Roberto Esposito sembrerebbe a prima vista voler marcare la separazione con il fascismo nel titolo del suo nuovo libro, Il fascismo e noi.

In realtà l’opposizione sembra piuttosto un tentativo di avvicinamento per provare a mettersi nei panni dell’altro, in questo caso un altro particolare, considerato pericoloso e estraneo ma fin troppo vicino a noi. Fino a che punto risulti estraneo è il tentativo del filosofo di spingersi all’interno della “galassia” fascista per comprenderne dal di dentro i suoi misteri, il suo impianto metafisico. Non si tratta di giustificare, avrebbe detto Arendt, stranamente poco utilizzata in questo testo, ma di comprendere l’essenza di un movimento che non è semplicemente politico.

Dirsi antifascisti non significa niente se non si comprende che cosa è veramente il fascismo. Sicuramente il fascismo non è una semplice reazione ma un modo di essere e di agire. Esso ci pervade, è fuori di noi e nello stesso tempo ci attraversa, è soprattutto “dentro di noi”. Non si deve però cadere nell’errore e nell’illusione di “interpretarlo dal di dentro” utilizzando il linguaggio stesso dei fascisti, fingendo di imitarli, come ha banalmente tentato Antonio Scurati. Semmai è proprio il contrario: domandarsi se il nostro atteggiamento è fascista. Si potrebbe dire, e Esposito sfiora il problema utilizzando Foucault e Pasolini, che il fascismo ha una base antropologica. Ma Esposito è più affascinato dalla propria macchina duale, utilizzata sempre nei suoi libri precedenti, in cui si gioca a questo rispecchiamento continuo, una sorta di dispositivo che riproduce e si rincorre all’infinito. Pertanto gli strumenti che utilizza, per comprendere alla radice il fenomeno fascista, non sono di derivazione storico-antropologica (nel senso etnologico e etnografico) ma storico-concettuale. È una storia dell’idea di fascismo. Intendiamoci. Questo non significa che l’operazione non risulti interessante: al contrario. Il problema, almeno per chi scrive, è che non è pienamente riuscita, proprio perché il fascismo (come il nazismo) è un modo di essere, di agire, di pensare che sfugge alle griglie interpretative metafisiche. Supporre per esempio che un libro, pubblicato da uno sconosciuto, il Mein kampf, abbia potuto convincere milioni di persone a diventare nazisti è certamente un’ingenuità. Solo rovesciando la questione si capisce che quel libro non arrivò prima del nazismo, ma il nazismo era già in atto, seppure implicitamente, nel paese. Non fu Hitler che inventò il nazismo, fu la cultura, lo ripeto, cultura intesa in senso antropologico: non la cultura colta, gli intellettuali, i libri, (questi hanno influenzato ben poco) ma il modo di pensare, la weltanschauung di un popolo. Lo stesso dicasi per Mussolini e il fascismo. Per questa ragione non condivido neanche lo sforzo di accostare frequentemente fascismo e nazismo, cercando a tutti costi le somiglianze.

Più o meno ellitticamente Esposito si avvicina al problema antropologico quando, grazie allo studio su Bataille, ci dice che Mussolini e Hitler venivano dal popolo e piacevano alla gente. E in tale contesto si comprende il recupero di certi comportamenti ritualizzati, religiosi, sacri che permettono ai leader di connettersi al loro popolo. Ma tutti i popoli, almeno quelli spiritualmente monoteistici, hanno una visione esclusivista e fanatica di sé stessi, fino a ergersi a popolo eletto e superiore. Inoltre, come si evince anche dall’interpretazione di Bloch, Italia e Germania si somigliavano almeno in questo: che entrambi erano “nazioni” frammentate e divise, soprattutto culturalmente, e quindi fu necessario da parte delle élites di tentare un’omogeneizzazione e omologazione dei propri i paesi, con l’utilizzo anche dei miti come dell’impero romano per gli Italiani e della razza germanica barbara bionda e forte per i Tedeschi. Il razzismo, l’antisemitismo, la difesa della propria terra e della propria cultura erano già sentimenti condivisi non solo in Germania e in Italia ma in tutto l’Occidente. Ma tra i paesi occidentali, Italia e Germania avevano bisogno di rafforzare lo stato-nazione se volevano sopravvivere, cercando e trovando un “posto al sole”.

Prendere in considerazione alcune voci filosofiche fasciste o critiche del fascismo e inserirle nel dispositivo immunitario per farle implodere dal di dentro non funziona più di tanto: non funziona perché ogni dispositivo potrebbe essere applicato anche alla propria filosofia e il fatto che Esposito ne sia consapevole non lo salva dal cadere lui stesso nelle aporie di cui parla; e poi il nascondersi dietro tale dispositivo è un modo di comportarsi cautamente, di fronte, diciamolo, ad un tema “da maneggiare con prudenza”.

Alla fine il libro si presenta come una specie di carrellata di importanti autori che hanno avuto contatti col fascismo (e col nazismo) e si sono espressi su dui esso, come Gentile, Bataille, Heidegger, Schmitt; e altri, che hanno invece provato, nello stesso momento in cui sorgeva, a criticarlo, come Weil, Bloch, Neumann, Marcuse, Freud, Deleuze: tutti ormai ampiamente liberati dalla critica comunista. Che poi tra questi pensatori ci siano alcuni considerati più o meno “maledetti” e abbiano toccato dei punti cruciali sfuggiti all’élite della sinistra è un problema che dovrebbe riguardare la sinistra. Esposito fa bene a porlo. Riuscire a metabolizzare e oltrepassare la dialettica fascismo-antifascismo che ancora pervade il dibattito nostrano, sarebbe un passo comunque decisivo che ci porterebbe ad affrontare con più forza i problemi nuovi che ci attendono oggi nella postmodernità.

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