Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Ricercare la storia intesa come origine o come celebrazione della propria civiltà non ha alcun significato per un giovane studioso, in quanto lui non ha, solitamente, perduto niente. Il giovane è innocente, non ha colpe, non ha memoria, non deve venerare una storia remota a cui debba credere. Lo studente non ha origine, non ha patria, possiede solo passioni e sentimenti volti a vivere il presente. Per ascoltare il mormorio profondo della storia occorrerebbe mettere in tensione sé stessi, pensare la storia in vista del presente. Il giovane pensa giustamente che la storia debba servire per lottare e discutere del qui ed ora. È lontano dall’idea che la storia possa legarsi ad un discorso che sia il luogo della verità.

Prepariamo allora lo studente ad una storia critica. Una storia del presente. L’insegnante dovrebbe alimentare l’inquietudine, l’eterogeneo, l’estraneo, il diverso, il corporeo, l’inattuale; dovrebbe mostrare lo stridore degli avvenimenti, il contrasto di ciò che è stato con quello che è oggi. Tale genealogista dovrebbe mostrare il gioco delle dominazioni, mostrare le tensioni che si sono rese necessarie. Occorre svelare la strategia che anima la storia. Mostriamo le emergenze, le provenienze: «l’emergenza – scrive Foucault ‒ è l’entrata in scena delle forze; è la loro irruzione, il balzo con il quale dalle quinte saltano sul teatro, ciascuna col vigore, la giovinezza che le è propria».

L’adolescente impara a riconoscere questo gioco che lui stesso sente e vive. Lui, per dirla con Gargani, «è fuori della storia». La storia è pura finzione, è teatro. La prima domanda che rivolge all’insegnante è: a che serve la storia? A che serve studiare i babilonesi se non sappiamo neanche quello che succede oggi? Scopo dello storico sarebbe allora di rendere la storia ancora viva, palpitante e attuale. Essa non è lineare, cumulativa, progressiva; la storia è semmai memoria viva che si modifica continuamente nell’incontro tra il presente e il passato: non stabilisce verità ma problematizza l’attualità. La storia critica è interpretazione, impone una lettura del presente, ricordando che ogni punto di vista è relativo e contingente. Lo sguardo rivolto al passato non pensa ingenuamente di recuperare tutto o di trovare prove inconfutabili. La storia è interpretazione ma interpretare è impadronirsi. Con Nietzsche si può dire che non ci sono fatti storici ma solo interpretazioni dei fatti. Lo storico critico sa di essere dentro la storia, è agito dalla storia ma anche agisce, è inserito nel flusso storico e si volge indietro osservando, non da un punto di vista sovrastorico, ma per cogliere il cuore palpitante degli eventi.

L’insegnante deve sforzarsi di far comprendere il sapere storico ma in vista di quello che succede. La storia va interrogata come se fosse un enigma, per capire chi siamo davvero noi, oggi. Occorre saltare dal passato al presente mostrando le similitudini e le ricorrenze. Ma occorrerebbe partire da quello che è successo oggi: per avvicinare gli studenti alla storia bisogna appigliarsi alle cose prossime, “inventare la storia”, perché la storia serve per problematizzare sé stessi, modificando il nostro rapporto con il presente: ogni critica è in primo luogo autocritica. Siamo in quel campo che la filosofia definirebbe ermeneutico. Non cercare il sapere esegetico, il già detto, l’imitazione, la ripetizione nostalgica degli eventi, l’identificazione con l’alterità, ma muoversi in quell’orizzonte dove ogni comprensione, implica una pre-comprensione, un giudizio. Ma ogni giudizio è un pregiudizio.

L’identità è tale se si trasforma, se cambia sulla base dell’incontro-scontro tra passato e presente. Il tempo è discontinuo. È fatto di tagli, di riaggiustamenti, di frammenti, di pieghe, di spostamenti. Così Kafka si immagina lo scontro tra passato e futuro, come due avversari che combattono, entrambi in tensione nel presente. È di questo scontro che dobbiamo parlare ai nostri studenti. Andrebbe allora modificato il punto di vista di Vico secondo il quale si può comprendere la storia perché è stata fatta dagli uomini; quegli uomini, in realtà, sono uomini diversi da noi. Come scrive Arendt, pensare la storia come un processo logico e razionale, e dunque comprensibile, perché fatto da uomini come noi, implica la pretesa dell’universalità e dell’oggettivazione, nega le differenze, le emergenze, le provenienze, le pluralità di storie, la loro eccezionalità. Pensare la storia come progresso, telos, continuum, pensare che vi sia una legge nella storia, immobilizza soprattutto l’agire politico. L’uomo così cessa di pensare, di essere libero, di poter cambiare, di dare risposte.

Questa consapevolezza delle differenze non consola, non esalta il passato; non serve per riconoscersi e ritrovarsi in modo identitario nella cultura in cui si abita. Al contrario, la ricerca del passato relativizza il presente stesso, lo problematizza, lo rende un momento perennemente critico, in continua tensione col proprio tempo. Si intuisce che la storia cambia, ma non c’è la fine (e neanche un fine) della storia: mutando, muta la sua prospettiva: “il sapere (sulla storia) non è fatto per comprendere, scrive ancora Foucault, ma per prendere posizione”. La storia critica riguarda la prossimità dell’uomo: il suo corpo, la sua malattia, il suo territorio, la sua alimentazione, il suo vestiario, le sue pulsioni, la sua sessualità. La storia critica è prospettica, si pone di sbieco e non rifiuta il suo sguardo limitato e miope. Il senso storico-critico dovrebbe andare contro la tradizione, contro la metafisica, contro la storia intesa come memoria. Occorre combattere l’idea di una storia monumentale, quella relativa alla venerazione, e combattere altresì un’idea di storia antiquaria, relativa alla ricerca di identità perdute. Ben sappiamo che la costruzione di un’identità è consolatoria, simbolica, paternalistica, al limite tranquillizzante, ma non può e non deve porsi come assoluta, altrimenti diventa totalitaria e violenta. Ogni forma di sapere è relativa. Ogni conoscenza è prospettica. Se vogliamo davvero costruire un soggetto libero e democratico occorre insegnare la storia critica: la critica mostra che non c’è alcuna verità nella storia se non “il rumore della battaglia”. Tagliando le sue radici con il coltello, scrive Nietzsche, l’uomo è libero di riconoscersi in qualsiasi origine, perché cosa importa a noi della verità, solo la vita importa: «Noi abbiamo bisogno di storia, ma ne abbiamo bisogno per la vita e per l’azione».

Ma chi fra di noi – insegnanti, pedagogisti, studiosi – sarebbe capace in tutta onestà di far comprendere ai propri studenti che non c’è una verità imparziale, obiettiva? che quello che si scrive sui manuali, quello che si dice ora, può essere interpretato, riscritto, soggetto al potere? Chi di noi insegnanti insegna la capacità critica di pensare altrimenti? Vi può essere qualcuno che può pensare diversamente da noi? Chi è capace di mostrare il lato oscuro della storia? Chi è capace di raccontare i moventi che hanno spinto gli uomini ad agire e accendere gli animi e l’entusiasmo dei propri studenti?

La storia non può essere una lunga collezione di eventi accaduti come tanti cadaveri posti sul marmo. Non si può insegnare la storia critica se non rimanendo dubbiosi, sospettosi di quello che il sapere storico ha offerto al potere. Per questo occorre usare la storia contro il proprio tempo, in modo critico, inattuale. La storia è un continuo rimescolamento, un mélange, direbbe Bergson, un’evoluzione creatrice in cui il presente precipita continuamente nel passato, ma anche dove il passato risale come un singulto in modo caotico nel presente, modificando e tracciando linee future, virtuali, che appaiono a priori imprevedibili e libere, e solo a posteriori, quando si sono effettivamente realizzate, diventano necessarie e definitive. Non si può pensare alla storia sulla base delle teorie dello storicismo, come se la storia fosse un rosario o una collana di perle in cui si allineano varie fasi in successione, in eventi lineari e causali. La storia è un immenso movimento di uomini che compone una mente fatta di tanti neuroni che conservano e ricordano alcune cose, altre le rimuovono, altre le dimenticano. Sulla possibilità di agire retrospettivamente sul passato si decide l’avvenire. Nel quadro di Klee, Angelus novus, commentato da Benjamin, l’angelo della storia ha il viso rivolto al passato; e quello che vede è una catastrofe, un cumulo di rovine. Laddove noi vediamo solo una catena regolare di eventi, potrebbe spirare una tempesta che noi chiamiamo progresso. Ma è appunto sulle ragioni di questo fraintendimento tragico che lo storico critico avrebbe il compito di intervenire sulla mente degli studenti. Non si tratta di ricordare o di raccontare la storia vera, si tratta piuttosto di fare i conti con i propri meccanismi di difesa.

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