Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Difficilmente un autore importante come Hans Jonas, è mai caduto in un’aporia insanabile, forse causata da una cultura millenaria nella quale il tema del corpo e delle emozioni viene rivestito da una serie di sovrastrutture culturologiche e tradizionalistiche di impianto neoplatonico, gnostico, cristiano, cartesiano, kantiano[1]. L’intento di Jonas, sicuramente lodevole, è quello di prendere atto che la società industriale e tecnologica, ci sta conducendo verso la catastrofe planetaria: solo una responsabilità e una presa di coscienza di tutto il genere umano potrebbe allentare il rischio che tale catastrofe avvenga. Si comprende allora il gesto disperato del filosofo tedesco di ricorrere alla paura come ultimo “freno” nel tentativo di ammonire gli uomini, come farebbe qualsiasi padre di fronte ad un figlio in pericolo.

In questo scritto dunque non voglio negare il rischio elevato di una catastrofe ambientale, ma vorrei più semplicemente sostenere che il discorso di Jonas è debole proprio perché confonde e non risolve il nesso mente-corpo, conoscenza-emozioni, responsabilità-paura, dovere-piacere.

Il riferimento all’idea di responsabilità (e in parte anche l’utilizzo del termine «euristica») rinvia a certe posizioni filosofiche, lato senso, razionalistiche. Esse ci mettono in guardia dal rischio che la fine del mondo si avvicini, che l’impatto sull’ambiente delle tecnologie e dei mezzi di produzione sia altamente inquinante e pericoloso per l’uomo e per tutta la biosfera. Purtroppo o per fortuna in ogni discussione filosofica che si rispetti vi è una controparte e voci discordanti che trovano motivi, talvolta altrettanto apparentemente validi, per respingere la tesi dell’avversario. A maggior ragione se il dibattito avviene in una arena pubblica e coinvolge migliaia di studiosi, politici, intellettuali.

Non cercherò di dimostrare l’inadeguatezza delle tesi “apocalittiche” di Jonas, dando per scontato che il lettore, a più di cinquanta anni di dibattiti sull’ambientalismo e sull’ecologia, abbia ormai maturato una propria idea. Lo stesso Principio di responsabilità uscì in Germania nel 1979. Personalmente io penso che le “preoccupazioni” di Jonas siano giuste e, anche se non immaginassimo scenari apocalittici, sarebbe sufficiente applicare «il principio di precauzione» per provare a prevenire l’inquinamento ambientale delle acque e delle terre, lo sfruttamento intensivo dei campi, il cibo spazzatura, il problema delle scorie e così via.

Quello che contesto filosoficamente a Jonas, il che può essere visto come poca cosa, un semplice esercizio retorico entro questo scenario apocalittico, è quello di aver provato a tenere insieme dei concetti secondo me incompatibili. Comprendo lo sforzo jonasiano di collegare, con i suoi ragionamenti filosofici, il kantismo con un’espressione ben poco kantiana e ossimorica come «un’euristica della paura»[2]. Ad un kantiano puro non sarebbe mai potuto venire in mente di collegare la «ragione pratica», il dovere categorico, con un’emozione, che in prima battuta attiene alla sfera sensibile. Tuttavia è difficile fondare un’etica dei principi, appunto, un principio di responsabilità, un postulato della ragion pratica, questa sì utopica[3], avendo bisogno poi di ricorrere ad un’emozione così apparentemente “irrazionale” come la paura. Oggi sappiamo che la ragione, l’intelletto, il comprendere i comportamenti giusti da tenere, il linguaggio astratto e cognitivo riguardano essenzialmente la parte del cervello più evoluta: la corteccia cerebrale. Invece la paura è una reazione semiautomatica che investe principalmente l’amigdala e l’ipotalamo, regioni più “antiche” del nostro cervello. Certo, queste emozioni “decidono” spesso per noi anche se vengono filtrate, “controllate” e giustificate razionalmente a posteriori dai lobi superiori i quali gestiscono e indirizzano l’azione originata dall’emozione stessa. Dunque, sembrerebbe insensato confondere, anche se volutamente, piani così diversi nell’affrontare un argomento che richiede un dibattito sui pro e i contro, sugli scenari futuri che si prospettano, sullo sforzo di immaginazione (di cui troppo brevemente ci parla anche Jonas[4]) che occorre, per prevedere quello che accadrà nel futuro e le conseguenze che le nostre azioni oggi potranno mettere in atto domani. Perché allora la scelta del filosofo tedesco di utilizzare un’emozione considerata nella storia del pensiero, e confermata anche dagli studi scientifici più recenti, così lontana da una proposta filosofica opposta rispetto a quella razionalistica?

Prima di provare a rispondere, vorrei aprire una parentesi proprio sullo sforzo di immaginazione che occorre, per permettere di vedere quali possano essere le mosse da eseguire. L’immaginazione non è riducibile e sovrapponibile alla razionalità. Ci sono persone, molto intelligenti, completamente prive di immaginazione e intuizione. Per esempio, un giocatore di scacchi potrebbe esserne privo. L’immaginazione invece serve per vedersi vivere in un mondo futuro e per far questo occorre sentire il proprio corpo in una “situazione” diversa da quella abitudinaria. Proviamo ad immaginarsi di essere dei soldati in una battaglia. Sentite le bombe che vi cadono vicino? I proiettili che vi sibilano intorno? I commilitoni accanto che cadono urlando? La vista del sangue che schizza ovunque? Potete provare quelle stesse emozioni: la rabbia, la paura, la tristezza, lo sconforto? Probabilmente no, forse anche queste potreste immaginarvele, se le avete vagamente già provate, ma non sentirle veramente. Tuttavia un uomo privo di immaginazione, spesso poco empatico, non sarebbe capace neanche di avvertirle: un uomo privo di immaginazione ha una bassa capacità emotiva tale per cui non riesce a sentirle, né vederle negli occhi di un altro. Céline scriveva nel suo romanzo, Viaggio al termine della notte, che i soldati non si aspettano di morire, sperano sempre di cavarsela, perché appunto sono privi di immaginazione, o, forse, più poeticamente, con Ungaretti, si potrebbe dire che proprio in quel momento non sono mai stati tanto attaccati alla vita. Tuttavia, alcuni uomini amano fare la guerra: ci sono i volontari, i mercenari, i professionisti che amano il rischio, sfidano continuamente la morte, forse animati da altre passioni più forti ma non certo dalla paura, o, forse, proprio perché essa scarica nel sangue forti dosi di adrenalina che ad un certo punto possono creare dipendenza.

Queste brevi riflessioni mi portano al secondo problema del pensiero jonasiano che vorrei sollevare: ormai sempre più studi di biologia, di etologia e di neuroscienze stanno chiaramente dimostrando come le emozioni siano fortemente deputate nelle decisioni cognitive da prendere. Apparentemente questi studi darebbero ragione a Jonas nel tentare di collegare un’emozione con la ragione. Infatti il suo tentativo andrebbe anche nella direzione giusta che è quella di superare «l’errore millenario del dualismo»[5] recuperando una filosofia della natura e del corpo. Ammesso infatti che l’emozione della paura sia importante per prendere consapevolezza dei pericoli e dei rischi cui un uomo può andare incontro nelle sue scelte personali e sociali, allora, se non funziona nel caso dei soldati, ci possiamo domandare perché a fortiori dovrebbe funzionare (e di fatto non ha funzionato) nel caso di cittadini che vivono tranquillamente nelle proprie città ma si aspettano in uno scenario futuro che le loro esistenze sarebbero messe in serio pericolo a causa dei disastri ambientali. Se la paura fosse un’emozione così potente e immaginativa non avremmo avuto bisogno di Jonas per ricordarci del pericolo che corriamo nell’inquinare l’ambiente. Se ce lo deve ricordare, ‒ facendo ricorso ad un ragionamento logico, ad un principio razionale come un dovere kantiano in cui dalla paura dovrebbe sortire una euristica e una responsabilità, ‒ è perché gli uomini appunto non si spaventano facilmente e non si sono spaventati. Sì, ma perché non si sono spaventati? Perché, come tutte le emozioni, anche la paura si accende, si attiva solo di fronte ad un nemico certo e visibile. Il nostro cervello, la nostra amigdala, frutto dell’evoluzione naturale, funziona se di fronte a noi abbiamo un pericolo incombente: un serpente, un leone, un terremoto, un uomo che mi sta per accoltellare. La paura non si attiva di fronte ad un pericolo che non percepisco con i miei sensi e me lo figuro lontanamente o, addirittura, potrà giungere tra molti anni. Al contrario, come scrive Remo Bodei, riportando la definizione di Spinoza, «la speranza e la paura sono incontrollabili, irruente, distruttive, contagiose, intrattabili e refrattarie ad ogni intervento diretto della ragione» e non possono essere intese come «attesa di un male futuro» e incerto come invece pensavano Platone, Aristotele o lo stoicismo greco[6]. In questo caso occorrerebbe semmai appunto un po’ di immaginazione: pensare a quello che potrà succedere. In più non spetta direttamente al singolo la decisione di sospendere determinate tecnologie o scelte ambientali. La scelta è dei politici che a loro volta devono convincere gli industriali, i capitalisti ma anche gli operai e i contadini, questi ultimi spinti ad agire, prima ancora che dalla paura, dalla ricerca del cibo per sopravvivere. Come ci insegnano molti studi psicologici, se non dipende direttamente da me scegliere, questo mi deresponsabilizza. La paura di morire di fame poi è certamente più intensa e prioritaria rispetto alla paura di morire di caldo, di incendi o di alluvioni derivate da possibili cambiamenti climatici. Forse Jonas non avrebbe dovuto parlare di paura (Furcht), un’emozione che ha breve durata, ma di Angst (angoscia, inquietudine, preoccupazione). In questo modo si potrebbe più correttamente parlare di un sentimento definibile proprio per la sua lunga durata permettendo di immaginare un mélange con la parte più razionale della mente umana. Ma la paura non è un sentimento. Come si distingue infatti un’emozione, da una passione e dal sentimento? In primo luogo, appunto, dalla durata temporale presente nella nostra psiche. Per fortuna! Perché se la paura fosse un sentimento e convivesse con noi lungamente, tale stato ci condurrebbe a vivere una vita dolorosa, ansiosa, angosciante, disperata portandoci presto a un abbassamento delle difese immunitarie e a una malattia psichica grave come accade a persone che stanno sotto assedio militare per giorni o mesi.  

Anche equiparare e confrontare la paura di morire hobbesiana[7] con la paura ecologica non aiuta a ragionare sull’argomento, perché anche oggi, per esempio, la paura dello straniero o del nemico in guerra è più visibile e avvertibile di una paura immaginaria come quella ambientale. Purtroppo o per fortuna l’animale-uomo si è sviluppato, come dicevamo, da un punto di vista evolutivo, nel rispondere ai pericoli immediatamente visibili. Più la percezione del pericolo è lontana nello spazio e nel tempo, più la reazione sarà blanda. Tutti noi abbiamo paura di morire e sappiamo con certezza che dovremo morire e che siamo animali morenti, ma non ci allarmiamo più di tanto se sappiamo che essa arriverà un giorno ancora non determinato. Inoltre e paradossalmente talvolta ci abituiamo a non provare neanche più la paura, perché ad un certo punto si innesca un «meccanismo di difesa» che ci permette di abituarsi, ma con inconvenienti tali di cui accennavo sopra. Infine la paura riguarda soprattutto l’individuo e non la massa, nel qual caso, a causa del contagio mimetico, condurrebbe alla fuga, al panico e alla dispersione[8].

Un tempo, anticamente, vi era il rispetto della natura, vista come una dea madre da amare, onorare e venerare. Tra i Greci vi era anche l’idea di lasciare un segno per i posteri. Si rispettavano le leggi degli avi e si immaginavano le future generazioni in continuità con le proprie tradizioni. Ma erano concezioni idealistiche, mitologiche, pagane, ancora in armonia con la (propria) natura, che sono state spezzate via dal nichilismo ebraico-cristiano e moderno-capitalistico[9]. Forse, dovremmo rimodulare e reinventare un nuovo paradigma culturale che ci dovrebbe riportare a sentire la natura come una madre che ci protegge e ci sostenta, un’euristica dell’amore o della cura?[10] O forse dovremo ricorrere piuttosto a un’etica della compassione? O sviluppare un sentimento di giustizia, che non riguarderebbe tanto, kantianamente, l’etica del dovere, anche se di un dovere rivolto al futuro, della ragione pratica, ma, piuttosto, riguarderebbe la critica del giudizio riflettente, estetico, che ha a che fare appunto con il sentimento[11] grazie al quale si collega la sensibilità alla ragione. Proprio perché sento di amare un uomo, una donna, un animale, qui e adesso, posso desiderare e sperare che nel futuro generazioni di individui, di uomini, di animali, piante e alberi sopravvivranno a me. In fondo è questo che spera un padre nei confronti di suo figlio e di suo nipote. Purtroppo la coscienza, l’agire sociale, l’etica, la cultura sono condizioni dell’uomo che cambiano lentamente nel tempo. Ne avremo di tempo per ri-educare la prossima generazione a questa etica dell’amore e alla responsabilità verso le successive generazioni?

NOTE

* Queste mie riflessioni sono state stimolate dalla conferenza di Emidio Spinelli, La sfida della responsabilità in Hans Jonas, che ringrazio, tenuta a Firenze il 14 febbraio 2024.

[1] Sul tema, E. Spinelli, Obiettivo Platone. A lezione di Hans Jonas, Ets, Pisa 2019.

[2] H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it. di P. Rinaudo, a cura di P. Portinaro, Einaudi, Torino 1990, p. XXVII.

[3] Ivi, p. XXIX.

[4] Ivi, p. 36.

[5] G. Fornero, Jonas: la responsabilità verso le generazioni future, in N. Abbagnano, Storia della filosofia, Vol. X, La filosofia contemporanea 4, Tea, Milano 1996, p. 114.

[6] R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 72-74. Bodei, più avanti nel libro, polemizza esplicitamente con Jonas proprio per l’uso “negativo” del concetto di paura consigliando di fare a meno di queste «passioni deprimenti». E conclude: «In questo modo tanto ‘l’euristica della paura’, quanto ‘il principio speranza’ perderanno finalmente il loro valore». (p. 101).

[7] M. A. Foddai, Euristica della paura e vincolo dell’incertezza. Riflessioni su Jonas e Hobbes, in «Rivista della Filosofia», LXI, gennaio 2016, pp. 117-135.

[8] E. Canetti, Massa e potere, trad. it. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981.

[9] Sulla ricostruzione genealogica del pensiero moderno, che ha condotto a trattare la ragione non come fine ma come mezzo, si rimanda allo stesso H. Jonas, Organismo e libertà, trad. it. di A. Patrucco Becchi, a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino 1999.

[10] E. Pulcini, La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2009.

[11] Non concordo su questo punto con M. A. Foddai, Jonas, Hobbes e le forme della paura,  in «Diritto@storia», n. 14,  2016, che parla esplicitamente della «paura come sentimento morale»; «dobbiamo imparare ad avere paura»; «potere cognitivo delle emozioni» frasi che alludono appunto al tentativo jonasiano di trasformare emozioni pure in un agire sociale e politico razionale a partire da un’etica aristotelica e kantiana, intenzionale e cognitiva, ripresa soprattutto negli ultimi anni da Martha Nussbaum. Ovviamente non ho qui lo spazio per una critica al cognitivismo. Rimando al mio, Sentire nel tempo. Emozioni, passioni, sentimenti. La compassione in Martha Nussbaum, in «Fronesis», n. 34, 2021, pp. 35-52.

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