Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

Recensione a: A. Savio, Prima Era. Grandi insegnamenti, Prospettiva edizioni, Firenze 2023, pp. 270, € 22; F. Cimatti, La vita dei segni. Il linguaggio e i corpi nella filosofia francese del ˊ900, il Melangolo, Genova 2023, pp. 481, € 28.

Se volessimo fondare un’antropologia al femminile ‒ in cui si mettessero in discussione la superiorità del maschio e i due divieti alla base della civiltà indicati da Levi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela (1947), ossia i divieti dell’incesto e di endogamia ‒, quali forme storiche e antropologiche alternative potremmo ricercare? Questa domanda potrebbe trovare una risposta leggendo i libri di Antonella Savio e di Felice Cimatti, di quest’ultimo, in particolare, l’ampio capitolo intitolato Corpo di donna.

Ricordiamo che Claude Lévi-Strauss fonda l’antropologia strutturale proprio su questi due divieti, i quali sembrano confermare la presenza di strutture universali à la Kant, riprendendo, approfondendo e confermando le tesi dell’antropologo americano Henry Louis Morgan. Quest’ultimo in Systems of consanguinity and affinity of the human family (1871) e in Ancient society (1877) fu il primo ad avere suggerito che la pratica di sposarsi tra consanguinei fosse scomparsa di fronte alla scoperta, da parte degli uomini primitivi, dell’alta incidenza di bambini nati con malformazioni gravi. La tesi di Morgan e Lévi-Strauss rafforzerebbe anche l’ipotesi di Freud presente in Totem e Tabù (1913) per il quale gli uomini avrebbero rinunciato a giacere con la madre (tabù dell’incesto) per non incorrere in litigi, discussioni e guerre tra padre e figli (tabù del parricidio).

Cimatti sembra però polemizzare con l’antropologia freudiana, considerata maschilista perché ridurrebbe la donna a solo oggetto di conquista da parte del maschio. Ora è evidente che la critica al linguistic turn, sul quale il libro di Cimatti invece ragiona nella maggior parte dei capitoli, non dovrebbe vietargli di guardare la realtà anziché permanere nel discorso teoretico, posto che si voglia mantenere una minima aderenza alla natura delle cose invece di crogiolarsi sul presupposto che siamo all’interno del linguaggio e da esso non possiamo sfuggire. Lui stesso infatti dovrebbe proporre un’ipotesi alternativa, femminista, proprio rispetto all’antropologia levistraussiana (fortemente freudiana e dunque essa stessa maschilista,) che considera però fondante e scientificamente rilevante. Insomma, il discorso non può sempre parlare di sé stesso, essere autoreferenziale e soprattutto autoingannarsi, almeno in ambito antropologico, dato che in questo campo “non si fa della filosofia” ma si ricercano dati, anche se difficilmente verificabili, e si finge o, almeno, si pensa di provare a descrivere la realtà e gli avvenimenti storico-antropologici. Da buon nicciano non sarò io che vorrò mettere in dubbio la bontà delle varie interpretazioni linguistiche che si succedono, tuttavia non si può accettare, ancora da un punto di vista logico, che una teoria sia falsa perché la consideriamo cattiva dal punto di vista morale e non collima con i nostri desiderata cosicché a posteriori, non piacendoci, si finisca per negare la natura stessa della (ipotetica) realtà. Interpretare i fatti sulla base di ciò che vorremmo che fosse (stato) è un difetto tipico di coloro che si approcciano alla conoscenza più che con un pregiudizio (d’altronde ogni giudizio è sempre un pregiudizio, ancora Nietzsche), per effetto di ideologie radicate. D’altronde è vero che ci sono i Philosophes ma anche gli Idéologues. In ogni caso, non si può violare la ben nota “legge di Hume” secondo la quale non si potrebbero spiegare i fatti con i valori.

Premesso ciò, se le teorie antropologiche sono state finora maschiliste, possiamo immaginare una teoria dell’origine della società “femminista”? Dato che spesso i vincenti riscrivono la storia, potrebbe essere che la civiltà occidentale abbia riscritto anche la preistoria con gli occhi degli uomini. Così si potrebbe anche pensare che la teoria freudiana sia maschilista perché concepita da un appartenente ad una cultura, quella ebraica, fortemente patriarcale, benché Freud in realtà riprenda, per spiegare il parricidio, le teorie di Darwin[1], la cui cultura anglosassone non era effettivamente meno maschilista. Esse poi erano state influenzate a loro volta dagli studi sul diritto romano di un giurista inglese, Henry Sumner Maine, il quale in Ancient society (1861) aveva postulato esplicitamente il diritto patriarcale, presente, secondo lui, in quasi tutte le culture antiche e primitive.

Comunque, se si ragiona su come sono andate “veramente” le cose ma prendendo seriamente in considerazione la posizione “idealistica” di Cimatti, proviamo a ricostruire uno scenario antropologico possibile e meno patriarcale. Un’ipotesi alternativa al freudismo e allo strutturalismo fu ipotizzata ex ante da John McLennan nel suo Matrimonio primitivo (1865) dove sosteneva che le prime istituzioni prevedevano diversi maschi che condividevano una sola donna (poliandria) dato che le bambine venivano spesso uccise perché le madri, con la prole, rallentavano la caccia e l’inseguimento delle prede. Nel momento critico, in cui vi era eccessiva scarsità di femmine e il gruppo rischiava l’estinzione, si ricorreva al ratto nei confronti di altri clan. Personalmente trovo questa teoria molto suggestiva e diversi antropologici contemporanei la stanno riscoprendo. Ma vi sembra meno maschilista? Non molto. Probabilmente perché erano sempre gli uomini che decidevano sul dar farsi, praticando il femminicidio. Ma, dato che ancora nessuno era a conoscenza dei modi per abortire o non concepire un figlio, forse, prima di uccidere i figli, essi, chissà, si confrontavano con le poche donne presenti nel gruppo considerate “sacre”.

Allora occorre spostarsi più a sud, precisamente a Basilea, per incontrare un personaggio, Johann Jacob Bachofen[2] che nel suo Matriarcato (1861) ipotizza, basandosi su studi archeologici, che molti secoli prima di Cristo, nel Mediterraneo, esistevano molte culture in cui le donne erano, non solo venerate, perché portatrici del mistero della vita, ma anche possedevano dei diritti come il ricevere l’eredità o scegliere il marito. Questo libro appassionò tra gli altri Marx e Engels che pensavano di rilanciare una società più equa e paritaria tra uomini e donne. Peccato che lo stesso Bachofen rintracciava il matriarcato all’origine della civiltà ma poi, successivamente, a Roma, si sarebbe sviluppato, secondo lui, proprio il patriarcato come frutto più maturo e consapevole del progresso umano.

Dato che anche nell’antichità la propaganda, per oscure ragioni, dipendeva dagli uomini (nel senso che i primi scriventi, che ci raccontano di storie primigenie, da Omero a Esiodo, erano soltanto maschi), si potrebbe invece supporre che fossero le donne a decidere, almeno nella famiglia, qualsiasi azione quotidiana. Le femmine erano al capo dei clan e decisero giustamente di occuparsi della cosa più importante per sopravvivere meglio: loro stesse, dato che donavano la vita e che essa andava preservata. Dunque, occorreva preoccuparsi del proprio sostentamento immediato attraverso: la raccolta di bacche, frutta e ortaggi; l’educazione dei figli; l’economia domestica; il mantenimento della tradizione orale. Sarà per questa ragione che le donne hanno sviluppato una forte capacità linguistica e verbale, oltre alla capacità di distinguere meglio del maschio i colori e gli odori, dovendosi occupare appunto della scelta del cibo e della capacità di distinguere ‒ tra i vari fiori, frutti e piante, ‒ quelli commestibili da quelli velenosi.

Per non far credere di stare inventando una preistoria immaginaria, vi dico solo che ancora oggi, in molte tribù africane, la caccia, prerogativa maschile, incide poco più del 20 per cento sul fabbisogno giornaliero di cibo di un clan. Inoltre le madri, occupandosi appunto dei bambini e vedendoli spesso morire, hanno sviluppato una certa empatia e “«attitudine di fronte alla morte dei più piccoli» che «prova… l’attenzione alla loro sepoltura e un atteggiamento ancora più protettivo» (Savio, 69). Dunque vi è la possibilità che le donne soccorressero i feriti e provvedessero alla tumulazione dei morti intervenendo poi con canti o lamenti per accompagnare il defunto nel passaggio all’oltretomba. Basti pensare, come simbolo di tutto questo, al racconto di Antigone di Sofocle. In ogni caso si riscontrano molte forme di parentela alcune delle quali sono matrilineari dove la coabitazione e l’eredità passano di madre in figlia, mentre gli uomini svolgono una funzione soltanto riproduttiva[3].

A lungo andare però anche i maschi, cacciando, si sono specializzati, sviluppando una migliore capacità atletica, una stazza maggiore e un forte cameratismo, permettendo di fidarsi e di organizzarsi meglio, per raggiungere lo scopo che era quello di uccidere, tagliare e dividersi la preda. Proprio perché si scontravano con animali anche di grossa stazza, la selezione naturale che avveniva tra gli uomini era molto più elevata, portando molti di loro a perire nel corso dell’evoluzione. Chi sopravviveva era il più adatto, probabilmente il più rapido, il più forte, il più astuto. Se all’inizio, le femmine, intelligentemente, avevano scelto di mandare a caccia gli uomini, poi ad un certo punto questi, ‒ che rischiavano la vita e portavano comunque proteine animali necessarie alla sopravvivenza, forse mangiandone più delle donne, ‒ hanno iniziato a ribellarsi al loro dominio (la parola donna, ricordiamo, deriva da domina, in latino, colei che è padrona della casa). Contro la loro pazienza e sensibilità, gli uomini avrebbero sviluppato aggressività e risentimento facendo pesare la propria forza fisica. L’armonia dei clan fu quindi guastata dalla loro collera trattando le madri e le sorelle come loro proprietà.

Soprattutto a causa della scarsità dei maschi, i quali, come abbiamo detto, a caccia e in battaglia morivano più facilmente delle mogli, accadde che essi possedessero più donne (poliginia). Le continue guerre tribali tra maschi costrinsero le femmine ad aspettare nel villaggio (così come accade a Penelope). Queste ultime furono costrette, per figliare, di giacere con qualsiasi uomo del clan che tornava sano e salvo dalla guerra, innescando però una profonda litigiosità tra gli uomini stessi che non potevano neanche riconoscere chi fosse la loro prole. In questo modo si spiegherebbe perché la fase della poliandria è durata poco e non si trova quasi più traccia e sopravvivenza in nessuna società attuale. Nonostante questa litigiosità, i clan e le società che svilupparono l’esogamia e il divieto di incesto si riprodussero molto meglio delle altre, proprio per la bassa incidenza di bambini malformati, e succedettero a quelle società ancora endogamiche. Inoltre le società esogamiche dovettero collaborare se volevano scambiarsi le donne e gli uomini di differenti clan e questo aumentò, come ricorda lo stesso Lévi-Strauss, le alleanze, gli scambi, i doni e le amicizie tra gruppi promuovendo, attraverso i matrimoni, la pace e la prosperità[4]. Nelle tribù primitive, spesso acefale (come suggeriscono gli studi di Pierre Clastres), una certa democrazia e consenso tra donne e uomini furono dunque possibili (Savio, 227).

NOTE

[1] S. Berni, Darwin, Freud e l’origine della società. Tra antropologia e diritto, in «Dialegesthai», 2015.

[2] Id., Il diritto matriarcale in J. J. Bachofen, “Materiali per una storia della cultura giuridica”, n. 2 dicembre 2013.

[3] M. Arioti, Introduzione all’antropologia della parentela, Laterza, Bari-Roma 2006.

[4] S. Moravia, Ragione strutturale e universi di senso. Saggio sul pensiero di Lévi-Strauss, Le Lettere, Firenze 2004.

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