Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci (Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).

La filosofia, nella scuola italiana, è ancora connessa ad una visione storicistica e neoidealista. Non a caso il docente di filosofia è quasi sempre anche quello di storia. Si sostiene che un buon filosofo debba essere anche un buon storico. Non mi soffermo sui contenuti di questa affermazione, dato che ognuno è libero di pensarla come vuole. Maliziosamente vorrei far notare perché allora altre materie come matematica, scienze naturali, fisica e così via non vengono insegnate secondo un percorso storiografico? Se gli avvenimenti storici e temporali hanno un senso e si delineano e si dipanano sulla base di una razionalità interna di hegeliana memoria, perché ciò dovrebbe valere per la sola filosofia e non invece per le altre discipline? Perché io devo conoscere che cosa pensava un grande filosofo del passato, la sua bio-bibliografia, e ciò non può accadere, poniamo, per un matematico?

So che cosa risponderebbe un collega scienziato: “siccome la filosofia non ha i canoni di una disciplina scientifica non può produrre un sapere coevo e coerente. Un lavoro filosofico può solo, al limite, ripercorrere la trafila degli eventi”. Io risponderei a tale mio collega che la filosofia contemporanea dibatte su temi assai cruciali e dunque sarebbe opportuno insegnare al giovane ad affrontare i problemi attuali della filosofia, come lui del resto, non insegna la matematica del XV secolo, né spiega gli esperimenti sulle rane di Redi. Inoltre, aggiungo in modo provocatorio (ma non tanto) che per capire veramente la scienza, un giovane forse dovrebbe davvero ripercorrere quelle tappe, quei problemi, quelle domande che gli scienziati del passato hanno dovuto affrontare: insegnare cioè la genealogia della matematica o della fisica potrebbe risultare per un giovane più interessante e intuitivo per fissare nella mente certe idee.

Se insegnare la filosofia contemporanea può risultare vantaggioso sulla base del ragionamento effettuato precedentemente secondo cui l’attualità stimola maggiormente il giovane alla riflessione, spesso i problemi di matematica o di fisica si pongono già in modo troppo astratto perché frutto di una lunga sedimentazione e riflessione dell’umanità. Ripercorrere la trafila del ragionamento, partendo da fatti concreti ed empirici, mostrare la necessità di uno scienziato di risolvere un problema pratico, forse condurrebbe lo studente al domandarsi e all’interrogarsi che è alla base della conoscenza di sé e degli altri. Al contrario si rischia di produrre pochi geni che colgono subito l’astrattezza della riflessione e si formano molte persone cui sfugge ogni capacità di comprendere le più elementari regole del sapere scientifico. In paesi molto più pragmatici del nostro si insegna la matematica attraverso giochi o rompicapo divertenti, come si deve insegnare fisica o chimica soprattutto in laboratorio con esperimenti pratici e visibili. Questo è un buon metodo per avvicinare il giovane alla scienza. Uno dei problemi per cui non si impara la scienza in Italia è invece il formalismo neoidealista. Si riduce il sapere scientifico, da un lato a mero tecnicismo, dall’altro a mero astrattismo: da un lato gli istituti tecnici, dall’altro il liceo scientifico. L’insegnante di matematica e di fisica insegna astrazioni teoriche e concettuali comprese solo da un esiguo numero di studenti. Egli tiene magari una lezione parauniversitaria senza considerare l’effettiva capacità cognitiva dell’alunno che ha di fronte.

Ricapitolando brevemente il mio discorso, io sostengo in generale una maggiore attenzione alle problematiche del presente ma utilizzando strumenti anche del passato nella convinzione appunto che parte del passato rinviene e sostiene il presente. Banalizzando, un fisico può evitare di insegnare Aristotele e Tolomeo in quanto le loro teorie non sono più corroborate nel presente, ma insegnare, per esempio, Galileo e mostrare come le sue teorie siano state assimilate negli schemi concettuali della fisica contemporanea. E tuttavia un confronto con Aristotele risulterebbe il più delle volte necessario perché il senso comune è ancora aristotelico.

Ma in realtà la domanda essenziale è sempre la stessa: che cosa serve alla nostra attuale società? A cosa serve la filosofia? Questa è la domanda del bieco materialista, homo oeconomicus, la domanda che ogni filosofo nella sua vita si sente rivolgere continuamente soprattutto all’inizio dei suoi studi dai propri genitori, poi dai propri amici e infine dagli stessi studenti. Le risposte scontate che ogni studente di filosofia ormai impara, difendendosi dall’attacco dei razionalisti strumentali è: la filosofia non serve a nessuno, non è serva di nessuno, non serve a nessuno, non serve a niente. È apparentemente sterile e improduttiva. Essa è libera, serve soltanto sé stessa. Sarà per questo che ormai riducono le ore di filosofia nei licei? Su questa ambiguità (non casuale) del termine servire, il filosofo gioca la risposta per nulla scontata. La filosofia serve a pensare e quindi non aderisce ad alcun oggetto, ma si identifica solo, in un’ultima analisi, con il soggetto che indaga. Con ciò il filosofo non deve ritirarsi e arroccarsi su posizioni astratte posto in alto nel suo castello teorico. La filosofia è primariamente filosofia di vita, modo di comportarsi. Al contrario è lo scientismo che vuole ridurre il sapere a pura astrazione logico-razionale. Molti dei nostri colleghi neopositivisti classificano la filosofia tra le scienze evitando di insegnare Montaigne, Pascal, Schopenhauer, Nietzsche, Bergson e Camus. Ma non dimentichiamoci che i grandi filosofi del passato non si sono occupati soltanto di logica o geometria.

Che questo attacco alla filosofia esistenziale, alla libertà del pensante, sia un fatto non casuale si evince anche dal tentativo oggi di estromettere tale disciplina dalle aule delle scuole e delle università. Lo Stato prova ad espungere da sé stesso la sua coscienza critica. Per l’uomo tecnologico la filosofia non serve a niente dunque va semplicemente eliminata: se ogni s-oggetto si riferisce ad un oggetto, e da questo è connotato, non si capisce che funzione possa assolvere la filosofia. All’interno della dialettica soggetto-oggetto della ragione strumentale si risolverebbe per l’uomo tecnologico tutta l’azione pragmatica dell’intelligenza umana. Il pensiero è per così dire aderente all’oggetto che indaga.

Dall’altra parte, la ragione teoretica invece critica sì tale atteggiamento ma alla fine deduce che sia un bene per la filosofia stessa. In fondo, si dice, la filosofia è stata sempre pensata fuori dall’accademia. I migliori filosofi hanno lavorato nell’ombra sfuggendo al controllo del potere. Tale uomo teorico propone una visione elitaria e conservatrice della filosofia e di fatto rafforza una visione coercitiva del potere. Non si riconosce allo Stato la possibilità di divenire laico e democratico. Al limite, aggiunge tale homo, la filosofia si può insegnare a certe classi sociali, in certe scuole. Con ciò egli fa il gioco dell’uomo tecnologico perché limita l’azione della filosofia entro un determinato settore della vita pubblica, per pochi leader. Non che non vi siano dei giovani studenti curiosi di conoscere il mondo che li circonda, ma la società vuole formare una classe ristretta di sapienti: si vuole produrre, non il cittadino saggio, etico, consapevole del suo agire, ma lo sperimentatore tecnico, eccellente nel suo campo e già destinato a chiudersi nel suo laboratorio. La scuola seleziona e disciplina, è già classista. Contro questo tipo di scuola specialistica e contemporaneamente economicista dobbiamo proporre una scuola dove si educhino tutti gli uomini a diventare cittadini.

L’uomo problematico non si risolve ad accettare pedissequamente un elogio al potere e persegue così il tentativo di diffondere il sapere a tutti gli strati della popolazione. La ragione non può appartenere costitutivamente, per nascita o condizione, ad una classe privilegiata. Si deve fare in modo che ogni cittadino partecipi alla vita sociale e politica. L’inter-esse è alla base della vita sociale. Occupandomi degli altri mi occupo di me stesso. Noi siamo perché inter-agiamo. La capacità critica dell’individuo passa attraverso la capacità di saper comunicare e capire gli altri e sé stessi. Parlare con sé stessi, sapersi analizzare, conduce l’individuo a migliorare la propria qualità della vita e contribuisce a migliorare quella degli altri. La filosofia dovrebbe domandarsi proprio questo: chi siamo? Come posso vivere bene? Come posso prendermi cura di me e degli altri?

La ragione dell’uomo problematico non si erige sulla base di un sapere certo e autoevidente, né sul timore di un pensiero prometeico, tragico e nichilista. L’uomo problematico si forgia nella convinzione che non si può fare a meno degli altri uomini.

Per finire, ancora un appunto. Da più parti si nota che il sistema liberale e capitalistico si sia prodigato per combattere l’ingerenza dello Stato nella vita del cittadino. Tale visione potrebbe apparire democratica in quanto è alla base di certi diritti civili fondamentali. Tuttavia tale sistema ha purtroppo ottenuto un effetto non privo di importanza: ha cioè finito per estromettere il cittadino dalla vita pubblica. Così, piuttosto che limitare le intrusioni dello Stato nella vita del cittadino, il capitalismo ha sortito l’effetto contrario, ossia l’individuo non si intromette più negli affari dello Stato. La difesa ad oltranza del privato ha finito davvero per privare gli uomini della loro socialità. Anziché considerare lo Stato come il prodotto dell’agire sociale esso è avvertito come corpo estraneo e per questo espulso. Ciò è molto pericoloso, e i filosofi politici, a partire da Aristotele, sanno fin troppo bene dove può condurre questa fine della politica e questa degenerazione democratica. Parallelamente a questa implosione nel/del privato corre la tecnologizzazione, la burocratizzazione e il normativismo della vita quotidiana che contribuisce in una certa misura ad aumentare le difficoltà psicologiche dell’individuo.

Se l’insegnante continuerà a svolgere un ruolo di informatore potremo davvero constatare come nell’era dell’informatica presto la macchina soppianterà l’uomo anche nell’insegnamento: come non vedere ormai la possibilità di costruire una macchina che produce lezioni? Nel momento in cui l’insegnante si propone di informare, è, a priori, superfluo. Questo non potrebbe mai accadere in una società in cui tra studente e insegnante si instaura il gioco dell’interrogazione e della problematizzazione. In realtà la macchina non potrà mai sostituire l’insegnante posto che l’insegnante non svolga un ruolo di mero ripetitore di informazioni che trasmette al discente. In tal caso, davvero, basterebbe, appunto, il manuale e/o una macchina.

Il docente veicola principalmente uno stile di comportamento, un modello da imitare, delle passioni: è spesso un esempio per i propri allievi. Egli instaura dei legami affettivi e su questi veicola i contenuti (è del tutto evidente che la D.A.D. invece esclude i messaggi psico-affettivi). Per questo il comportamento in classe del docente è più importante della lezione stessa: rispettare gli orari, rispettare le opinioni degli studenti (non imporre la propria visione dei fatti ma insegnare ad argomentare la propria opinione) impegnarsi, svolgere il proprio dovere, chiedere il rispetto delle regole e applicarle in modo imparziale (imparziale nel mio gergo significa spiegare il perché di certe regole).

L’effettivo scopo del docente sarebbe in effetti quello di diventare superfluo quando persuaderà lo studente a giocare il gioco dell’interrogazione. Ciò potrà accadere sempre per così dire, a posteriori, dopo che l’insegnante avrà davvero svolto il suo ruolo di formatore sociale. Come argomentava il filosofo di Röcken, un buon maestro si riconosce solo quando pone le basi per essere superato. Il buon insegnante è colui che nel gioco delle domande e delle risposte convincerà lo studente meno convinto e più recalcitrante a comprendere il significato del gioco stesso: l’importanza della conoscenza. Responsabilità della filosofia, appunto, dare la risposta… ma la risposta arriva se ci siamo posti con cura la domanda…

Loading