Giusy Capone insegna Lingua e cultura greca e Lingua e cultura latina dal 1998. Giornalista, è redattrice della Rivista culturale bilingue registrata "Orizzonti culturali italo-romeni"; si occupa delle pagine culturali di diversi portali dell'area Nord di Napoli; collabora con l'Istituto di Mediazione linguistica di Napoli; cura un blog letterario.

Μνῆμα μὲν Ἑλλὰς ἅπασ᾿ Εὐριπίδου· ὀστέα δ᾿ ἴσχει
γῆ Μακεδών· ᾗ γὰρ δέξατο τέρμα βίου.
Πατρὶς δ’ Ἑλλάδος Ἑλλάς, Ἀθῆναι· πλεῖστα δε Μούσαις
τέρψας, ἐκ πολλῶν καὶ τὸν ἔπαινον ἔχει. 

L’Ellade tutta è tomba di Euripide; ma conserva le ossa
la terra macedone, dov’egli raggiunse il termine della vita:
sua patria è l’Ellade dell’Ellade, Atene. Per aver dilettato
molto con la sua poesia, da molti riceve lode.

                                                           Antologia Palatina, 7, 45

I pochissimi elementi biografici di cui si dispone circa Euripide, il più giovane e il più innovatore dei grandi tragediografi ateniesi del V sec. a.C., tramandataci da Satiro, filosofo peripatetico e dalle Vite preposte a taluni codici medievali del XVI secolo, sono significativamente corrotti dalla acrimoniosa tradizione aneddotica comica.

I drammi euripidei, in discordanza con le tragedie eschilee e sofoclee, pur non  concedendo di ripristinare l’immaginario politico dell’autore in una configurazione programmatica e puntuale, tuttavia fanno sì che da alcuni cenni, certamente da leggere attentamente, si comprenda con adeguata trasparenza che l’atteggiamento politico dell’autore si assesta costantemente quale “intermedio”: analogamente distante sia da contegni filo-oligarchici che da affinità democratico-radicali. Da tale prospettiva politica, che appoggia, intrinsecamente, gli ideali della “classe media”, fluisce altresì la posizione del poeta verso i ceti utili alla produttività e gli schiavi.

Euripide accorda spazio ai personaggi che non provengono dall’aristocrazia: non è  uno spazio esteso; per altro, è reputato dovere proprio del teatro tragico il porre sulla scena azioni monumentali, realizzate da eroi o da semidei. Velatamente, siffatta propensione trova conferma condotta fortemente dissenziente di Aristofane, il quale, laddove se ne presenta il pretesto, non si annoia nel rimbrottare Euripide per aver gremito i suoi componimenti teatrali di personaggi scarsamente congrui alla temperie elevata e grave della tragedia: si registra, infatti, la presenza di  donne, popolani, schiavi. Come si può non ritenere una mortificazione dell’origine e della condizione del re dei Misii, Telefo, allorché appare coperto di cenci laceri come uno straccione qualsiasi, piangendo al cospetto di Achille?

Degno di nota è, inoltre, che personaggi di ceto popolare o perfino servile non siano affatto circoscritti ad una irrilevante presenza bensì risultino essenziali al dispiegamento degli avvenimenti e vi sostengano ruoli importanti. Nell’Elettra le condizioni essenziali affinché Oreste ed Elettra si riconoscano sono accortamente preparate dall’attempato pedagogo dei due giovani; nello Ione l’anziano servo di Creusa ricopre una parte sostanziale nell’intreccio. Egli è devoto alla padroncina più che al marito di lei, che le conduce in casa un figlio illegittimo ed esige una pacifica accoglienza, istigandola ad eliminare l’estraneo, avvelenandolo. Ciò accende l’ingranaggio che avvia l’agnizione, prodromo diretto al felice sciglimento della peripezia.

Euripide si disgiunge dalla tradizione anche nell’apprezzamento delle qualità umane e morali degli umili e degli schiavi, adottando questo innovativo metodo d’incastrare nell’azione drammatica figure stimate del tutto accessorie ed ancillari. D’altronde, egli è collocato in una società che avvezza ad incasellare gli esseri umani nelle due antitetiche categorie degli αγαθοί, nobili per nascita, d’elevata intelligenza e di opinioni naturalmente elitarie, e dei κακοί, di bassa origine, di carente sagacia ed eticamente abietti, e ad apprezzare i δοῦλοι, gli schiavi, come esseri infimi: Odisseo afferma in Odissea, XVII, vv. 322-323 che, Zeus, laddove ammette che un uomo diventa schiavo, nonostante sia nobile, egli perde la metà della sua ἀρετή.

Euripide dimostra un atteggiamento parecchio dissonante, non solo concedendo agli schiavi, indipendentemente da sesso ed età, intelligenza e sentimenti perfettamente uguali a quelli dei liberi ma addirittura teorizzando palesemente questa sua idea in plurimi luoghi dei suoi drammi. Il servo di Creusa, testimoniata alla padrona la propria fedeltà, conduce a termine il discorso, affermando che lo schiavo è differente dal libero nel nome ma non in tutto il resto:

Una cosa sola, infatti, arreca vergogna agli schiavi, il loro nome; ma in tutte le altre cose uno schiavo non è affatto peggiore di un libero, se ha un animo [nobile]

così Ione (vv. 854-856).

Il soldato di Menelao che, posto a sentinella della falsa effige di Elena, lo vede improvvisamente sparire nell’aria, mentre rivela il portento al suo signore, auspica di potere essere ritenuto un uomo dalla mente libera, bensì il suo nome non lo designi come tale:

Quanto a me, anche se sono per nascita un servo, Almeno possa essere considerato fra gli schiavi [di nobili sentimenti, non avendo il nome di libero, ma avendone il cuore; infatti, questo è meglio che, essendo uno solo, soffrire di due mali, avere [un animo ignobile.

così Elena (vv. 728-733).

In ambedue gli esempi è indubbio che Euripide prediliga l’umanità, cioè la φύσις, la natura dell’uomo, alla classe sociale, applicando questa sua osservazione proprio agli esponenti di quella classe che era stimata impari per φύσις.

Va da sé che analoghe premesse generino il disorientamento e le critiche del pubblico, avvezzo ad applicare un ben diverso parametro di valutazione di uno schiavo, o, più candidamente, a non porsi il dilemma di un qualsiasi giudizio. La discrepanza di Euripide con la mentalità del suo tempo non si spinge più in avanti di questo termine, giacché, nel definire il legame tra padrone e schiavo, egli aderisce di continuo alla norma abituale di subordinazione e d’obbedienza, che nondimeno  estromette apprezzamento ed tenerezza reciproci.

Orbene, Euripide si leva come il diretto erede di Omero, che crea con estro dolcissimo figure di servi dediti e devoti come Eumeo e Filezio e, fra i personaggi muliebri, Euriclea, prototipo dell’emblema della nutrice diventata una madre per inclinazione sentimentale, per abnegazione, per complicità con coloro che ha nutrito fin dalla più tenera età. Il modo con cui Euripide esprime il rapporto fra Greci e barbari non è in antinomia con quanto proposto tuttavia è delineato con una preminente molteplicità di tonalità, a seconda dei personaggi e delle circostanze.

La poesia euripidea è contrassegnata da un nazionalismo meno accentuato e durevole di quello di Eschilo e di Sofocle, la preminenza cerebrale, interiore, civica e religiosa dell’uomo greco emergere pressoché sempre inoppugnabile. Così, nell’Elena, il re egizio Teoclimeno è rappresentato come un uomo egotista, dispotico, all’oscuro delle più imprescindibili leggi dell’ospitalità; nell’Ifigenia in Tauride il giudizio avverso è esteso ad un popolo, quello dei Tauri, nella sua interezza; popolo, appunto, di cui si rimarcano le consuetudini efferate e disumane, fra cui cagiona particolare abominazione e biasimo la pratica del sacrificio umano: Toante, il re, sembra pure non molto accorto, tanto da cascare agevolmente nel tranello architettato da Ifigenia.

In questa prospettiva, probabilmente, deve essere spiegato anche un famoso passo dell’Ifigenia in Aulide, nel quale la figlia di Agamennone, offrendosi di propria volontà alla morte che fino a qualche istante prima l’ha riempita di panico, motiva il suo tramutato comportamento, dicendo di aver capito che ai Greci tocca legittimamente il comando sui barbari e non viceversa, perché i barbari sono schiavi e i Greci liberi (Ifigenia in Aulide, vv. 1400-1401).

Un pari atteggiamento, che potrebbe sembrare in contrasto con la propensione nitidamente dimostrata da Euripide per i “barbari” Troiani nell’Ecuba, nell’Andromaca e nelle Troiane, sgorga probabilmente anche dalle mutate condizioni politiche di Atene, di fronte a cui non è ammessa indifferenza. Le Troiane, difatti, sono rappresentate nel 416 a.C. e già nell’inverno del 413-412 a.C. si guarda ad un’intesa fra il persiano Tissaferne e gli Spartani, sfociata nell’alleanza del 412 a.C., ai danni di Atene (Tucidide, Historiae, VIII, 5 e 18), e sicuramente il pubblico, dal quale Euripide era pur sempre, perlomeno in parte, condizionato, non è più disposto a sentir parlare di comuni lacci di umanità fra Greci e “barbari”.

Loading