Stefano Berni (1960) è docente di Filosofia e scienze umane nei licei. È stato professore a contratto presso la cattedra di Filosofia del diritto dell’Università di Siena, assegnista e dottore di ricerca. È tra i fondatori e nel comitato scientifico della rivista “Officine filosofiche” dell’Università di Bologna e Presidente della Società Filosofica Italiana di Prato. Le sue ultime pubblicazioni sono: Potere e capitalismo. Filosofie critiche del politico (Pisa 2018); Etiche del sé. Foucault e i Greci(Firenze 2021); L'alchimia del potere. La filosofia politica di Hannah Arendt (con Antonio Camerano; Milano 2022).
Quanto più i popoli si conoscono, tanto più sono restii a considerarsi eguali, tanto più indietreggiano inorriditi di fronte all’ideale di umanità (H. Arendt)
È un fatto che nella storia dell’uomo si siano sviluppate migliaia di culture (o comunità) diverse per organizzazione, religione, storia, tecnologie, modi di pensare, di vestirsi, di mangiare, di abitare. È un fatto altresì che nel corso del tempo e della storia queste culture siano venute in contatto, quasi sempre, urtandosi e scontrandosi, e poi, più o meno lentamente, mescolandosi, ibridandosi sullo stesso territorio. Come atomi che si aggregano dopo milioni di anni formando minerali e sostanze nuove, così le culture, meticciandosi, sovrapponendosi su uno stesso territorio, hanno provato a coesistere e a amalgamarsi. È un altro fatto che le identità culturali sono molto lente a cambiare e a adattarsi a nuovi ospiti, nuovi amici, alleati o nemici.
Pertanto, se guardiamo la storia nel suo insieme, l’impressione può essere che le nuove comunità siano il frutto lentissimo di un mescolamento di culture e che quindi la prima conclusione possa essere quella di considerare la cultura come un dato storico contingente, accidentale qualcosa che muta continuamente, e che noi stessi, la nostra identità non sia che il prodotto casuale, un esperimento della storia, un frutto spontaneo e naturale del processo storico. La conclusione che ne traiamo è che l’identità non si dà, non esista o non sia importante e necessaria, perché appunto non è che un mero precipitato storico di eventi casuali; così, essere nati in Europa o in America o in Africa non cambia più di tanto la nostra concezione intellettualistica dell’identità. È una conclusione apparentemente relativistica: tutte le identità si equivalgono, le culture sono abiti che indossiamo, che possiamo cambiare, modificare, ma poi, se ci spogliamo, ecco che emerge l’indifferentismo universalista: “sotto il vestito” siamo tutti uguali: rimane e permane la nuda vita.
Questa idea di uguaglianza natural-culturale sarebbe corroborata, secondo alcuni, da studi scientifici che dimostrerebbero l’uguaglianza genetica tra popoli (tesi che potremmo grosso modo accettare ma che permette di concludere arbitrariamente l’uguaglianza politica e sociale, violando palesemente la legge di Hume tra fatti e valori) fino a supporre che la forma migliore per tutti non possa essere che la democrazia, i diritti umani universali e la cultura una sola.
Tuttavia questo ragionamento teorico, che conduce al cosmopolitismo e che parte da una concezione ottimistica dell’uomo e da una interpretazione idilliaca della storia, non vede che i fatti storici che conosciamo (basterebbe vedere quello che succede oggi sotto i nostri occhi) sono invece il prodotto di tensioni, lotte, guerre: tra individui, villaggi, città, regioni, stati, religioni e economie tutte tese alla sopraffazione dell’altro. Ora questo fatto, questo dato di realtà, può essere certamente spiegato in molti modi: si può pensare che gli uomini siano naturalmente malvagi e aggressivi; oppure che abbiano paura degli altri uomini; o che siano troppo radicati alle proprie identità culturali che non vogliono cambiare. Si potrebbe anche supporre che la convivenza tra culture diverse sia proprio inficiata da certe ideologie identitarie, religiose, politiche, economiche tali che non permettano la civile convivenza tra popoli. Ma una volta superate queste barriere, ammesso e non concesso che si vogliano realmente superarle, si arriverebbe ad una reale amicizia tra popoli fino al punto di convivere civilmente sullo stesso territorio solo perché ci consideriamo uguali da un punto di vista genetico? Una volta superati i pregiudizi (la cultura non sarebbe per alcuni che un pregiudizio) si presume di arrivare facilmente alla convivenza. Insomma, sarebbero proprio i pregiudizi che non permetterebbero la vita in comune. Infatti sarebbero proprio le persone più colte, “illuminate” dalla ragione, che kantianamente, raggiungendo l’autonomia, sarebbero più disposti ad accettare l’altro.
Ma i cosiddetti “pregiudizi” in realtà dipendono da un sistema culturale, che non permette di spogliarsi rapidamente del nostro modo di vedere, di quello che gli antropologi chiamano atteggiamento culturale. Non è dall’oggi al domani che si modificano le nostre azioni e le percezioni degli attori sociali. Quello che mette in crisi la propria identità è l’atteggiamento e il comportamento dell’altro che non corrisponde al nostro: il modo di agire, di compiere certe azioni, di guardare, di parlare, di gesticolare, di arrabbiarsi, di pregare, di credere è molto differente tra le varie culture, e questa diversità, per chi la vive tutti i giorni, è profondamente problematica, non solo perché mette in crisi le proprie certezze ma anche perché si prova un estraniamento, uno spaesamento che gli antropologi chiamano cultural shock. È evidente che questa crisi identitaria non può essere provata da coloro che vivono solitari nelle proprie ville o negli appartamenti newyorkesi tra persone di classe agiata che parlano la stessa lingua e hanno interessi comuni ma non incontrano mai l’altro. Anche miei amici comboniani africani, che parlano perfettamente l’italiano e il francese, che hanno studiato teologia cattolica a Roma, sono certamente più vicini a noi italiani culturalmente (nel doppio senso del termine) di alcuni loro connazionali. Ma sono eccezioni. La maggior parte di coloro che emigrano in Italia non hanno studiato a Roma.
I popoli apprendono la propria identità all’interno di un sistema culturale che gli ha fornito strumenti e modi di vedere tipici di quella particolare cultura o subcultura, e non sviluppano un sentimento di critica verso sé stessi e/o della propria cultura (che forse è più un atteggiamento tipicamente occidentale?). E poi perché dovrebbero farlo? A che gli servirebbe? Qualcuno crede che si potrebbe farlo? Come abbiamo imparato a bere e parlare dai nostri genitori, così abbiamo imparato a come vestirsi, stare a tavola, cosa mangiare, credere e pensare. Quasi nessuno si spoglierebbe del proprio abito culturale e, anche se lo volesse, sarebbe quasi impossibile.
Anche se oggi appare più facile conoscere, attraverso i mass media, come vivono altre comunità, la maggior parte delle persone non accetterebbe di vivere in un luogo diverso dal proprio se non per motivi assolutamente contingenti. Certamente il sistema sociale occidentale si è imposto anche come desiderata per altre culture, ma non per il modo di vivere, ma perché consente di poter vivere meglio economicamente. La maggior parte di coloro che si trasferisce in Occidente non vuole e non può adeguarsi al nostro sistema culturale. Un semplice dato sociologico può chiarire la questione: l’ottanta per cento dei matrimoni misti finisce col divorzio. E non parlo di matrimoni tra culture lontanissime, ma anche quelle che appartengono allo stesso Occidente, che come è possibile capire, è esso stesso costellato da differenti tipi di culture. Per non parlare poi della difficoltà di rispettare le norme in un paese straniero.
Il mio discorso basato su studi antropologici ma anche su semplici dati sociologici, conduce in realtà ad una concezione di per sé pacifista e tollerante, al contrario di chi, partendo invece dalla presunta convinzione che vi siano diritti universali e culture assimilabili e facilmente pacificabili, dall’alto della sua ideologia umanitaria e umanistica, vorrebbe imporre la propria convinzione (occidentale). Invece, la relatività non pensa che tutte le culture debbano o vogliano assimilarsi o che ci si debba modificare per accettare l’altro o che la propria cultura vada abbandonata per prenderne una nuova come si fa con un vestito; la relatività culturale sa che è difficile mettersi in gioco e che non ci si può spogliare della propria cultura anche quando se ne prova a prendere le distanze: tale tipo di relatività (si badi, non il relativismo, per il quale io dovrei accettare ogni cultura diversa dalla mia) avverte semplicemente che esistono tantissime culture nel mondo e che spesso queste divergono, talvolta sono incommensurabili o quantomeno poco permeabili l’una con l’altra.
In base a questa riflessione antiantirelativistica noi ci opponiamo a entrambi le altre due visioni del mondo occidentale che sono le facce della stessa medaglia del suprematismo bianco: quella di derivazione spenceriana secondo la quale i più forti vincono, l’Occidente ha vinto, dunque, deve dominare il mondo e imporre la sua cultura a tutti; e quella universalistica, di derivazione cristiano-kantiano-marxista: gli uomini sono tutti dotati di una ragione naturale, pertanto se ne conclude che siamo tutti uguali, siamo tutti fratelli e compagni, perciò potremmo convivere pacificamente senza particolari problemi con le altre culture (relativismo) le quali si adatteranno facilmente alla nostra cultura considerata inclusiva, tollerante e giusta o, peggio, noi ci dovremo adattare alla loro, credendo che ognuno possa facilmente svestirsi della propria cultura come se fossimo il Barone di Münchhausen, il quale, per uscire dalle sabbie mobili, si tirò su dal proprio codino.