Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: D. Watkins, Infamia e biografia. Per una genealogia delle forme di vita, Neri Pozza, Vicenza 2023, pp. 131, € 17,00.

Il genere biografico si colloca all’incrocio fra storiografia, letteratura e filosofia. Dalle Vite parallele di Plutarco alle Vite immaginarie di Marcel Schwob, in un percorso che poi è proseguito fino ad Ermanno Cavazzoni e a Pierre Michon fra gli altri, David Watkins ha ricostruito, in questo agile, ma denso volumetto edito da Neri Pozza, l’evoluzione della biografia come fatto estetico e come “arnese” nelle mani dell’etica. Il risultato di questo lungo tragitto è una conclusione apparentemente contraddittoria: «l’individuo è l’impossibilità della biografia» (p. 129).

In altri termini: la modernità ha costruito l’individuo (e si è costruita attorno ad esso) come fulcro del pensiero morale e politico; d’altra parte, lo stesso individuo, nella sua unicità, nella sua stessa irripetibilità, ha smarrito la possibilità di essere descritto e “riassunto” in una immagine definita, in una vocazione, in un carattere. La modernità, pensiamo in particolare a Montaigne e poi a Rousseau, ha abbandonato il ricorso alle biografie intese come “vite esemplari”, come costruzioni da cui desumere un modello di vita da imitare.

Al contrario, nel mondo classico, come anche poi in quello cristiano, le biografie erano sempre dedicate a uomini superiori, condottieri e cesari, dotati di qualche virtù eroica. Alla base delle vite illustri c’era sempre il presupposto della perfetta visibilità del personaggio esemplare: lo svolgimento degli avvenimenti non serviva che per mostrare quanto le premesse (un daimon, un certo carattere appunto) si fosse manifestato nel corso di una certa, gloriosa esistenza. L’uomo illustre era agito da una forza esteriore, più ancora che essere attore. Egli doveva in sostanza mettere in scena una forza ultra-individuale.

Nel caso delle vite dei santi si assistette solo apparentemente a una “democratizzazione” delle biografie: i santi erano sì uomini votati all’umiltà, ma pur sempre esseri eccezionali, fuori misura; le agiografie dovevano spingere al pentimento e alla correzione:

Nel passaggio dalla biografia imperiale all’agiografia, nel momento in cui la figura esemplare comincia a parlare come un padre che istruisce i propri figli, l’elemento che determina l’adozione del nuovo criterio stilistico non è più il contenuto, quanto piuttosto l’efficacia, la facilità con cui uno stile riesce a insinuarsi nelle coscienze di un pubblico sempre più vasto, per instillarvi poi i principi del comportamento cristiano (p. 66).

Prima della modernità, era inconcepibile che un uomo qualsiasi, un anonimo potesse essere oggetto di una biografia. Con la modernità questa retorica esemplaristica è stata man mano demolita. Si sono imposti lo scetticismo, la molteplicità, una sostanziale uguaglianza sul valore delle esistenze, ma soprattutto una radicale indifferenza: è la lezione di Montaigne e del “suo” Socrate, simbolo dell’uomo tout court: «un esemplarismo che faccia a meno della stabilità e della notorietà dei paradigmi, un esempio senza modello: potremmo chiamare così la scoperta che Montaigne consegue affermando l’identità della gloria e dell’infamia» (p. 87, corsivo nel testo).

Ed eccoci all’altro tema del libro di Watkins: l’infamia. Obbligato, in questo caso, il rimando all’opera di Foucault e alla doppiezza che il concetto di infamia porta con sé:

L’infamia si dice in due sensi: infame è il reietto, il colpevole, l’individuo che una comunità maledice, marchia, esclude; ma infame è anche colui che non ha racconto, la vita sottratta alla visibilità e alla udibilità della storia, l’uomo senza volto e senza voce, il segreto. Da una parte, l’infamia implica il riconoscimento (l’individuo infame è letteralmente segnato, la punizione che lo colpisce prevede che una colpa sia ascrivibile al suo nome), ma dall’altra essa rimanda alla semantica dell’indicibile e dell’irriconoscibile, confina con quelle parole – infanzia, afasia – il cui senso si definisce in uno scarto rispetto al dire, in una privazione della facoltà di parola (p. 97, corsivo nel testo).

La letteratura degli ultimi secoli, come è noto, è stata un cammino verso l’infimo, verso ciò che è minimo e oscuro. In questo senso, siamo entrati, ormai secoli fa, nell’epoca del “quasi niente”, dell’insignificante che si fa anti-modello: al contempo, nella vita di ognuno, anche del più piccolo, abbiamo imparato a riconoscere lo stesso vuoto, lo stesso desiderio senza oggetto, che vale per tutti gli uomini e che condanna ognuno alla solitudine e all’invisibilità di ciò che lo rende umano.

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