Francesco Paolella (1978) ha studiato filosofia a Bologna e a Parma. Si occupa di storia della psichiatria. Fa parte del Comitato tecnico-scientifico del Centro di storia della psichiatria di Reggio Emilia.È membro di Clionet, Associazione di ricerca storica e promozione culturale. È redattore della "Rivista Sperimentale di Freniatria" e scrive per TYSM.

Recensione a: G. Turnaturi, Impostori. Storie di inganni e di autoinganni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2025, pp. 172, €  14,00.

Perché è interessante occuparsi degli impostori, di spie e infiltrati, di false identità, di persone dalla vita doppia o tripla? Anzitutto perché dalle loro esperienze, di cui la storia e soprattutto la letteratura sono così ricche, possiamo ricavare elementi molto utili per conoscere meglio le relazioni umane, per approfondire i meccanismi per cui un gruppo sociale decide di accettare un nuovo membro o, viceversa, per espellerlo come un corpo estraneo o nemico.

Nella nostra vita quotidiana, segnata da una sfiducia sempre più radicale verso il prossimo e verso la verità che esso porta con sé, il ricorso al “googlare”, ad interrogare i vari motori di ricerca per avere conferma a una notizia o a una storia è, in fin dei conti, una semplice illusione: possiamo sapere tutto ma, in pratica, sappiamo sempre meno del mondo e degli uomini. Ecco che proprio le storie degli impostori, alcune delle quali, pur realmente accadute, sono davvero incredibili, mostrano come le esistenze degli altri restino per noi un tesoro inaccessibile: le memorie inventate, le identità doppie, la necessità di imitare le proprie vittime per confondersi con loro, fanno degli impostori altrettanti attori davanti a un pubblico che, una volta subito l’incantesimo, con grande difficoltà riesce poi ad aprire gli occhi. È molto opportuno in questo caso l’uso dell’immagine del teatro da parte dell’autrice di questo saggio, la sociologa bolognese Gabriella Turnaturi: così come nel teatro, affinché la recita possa funzionare, è necessaria una specie di patto fra attori e pubblico, allo stesso modo anche gli impostori, i falsari, per essere creduti, devono assolutamente riuscire a mimetizzarsi, a diventare il più possibile simili a coloro che vogliono convincere. Per questa ragione, gli impostori hanno bisogno di grandi doti di empatia, per comprendere le proprie vittime e “rubarne”, per così dire, l’anima, i desideri, la mentalità. E una volta cadute nella trappola, nessuna “prova” riuscirà a convincerle del contrario.

Il caso forse più famoso, almeno per la storia italiana, è quello dello smemorato di Collegno, in cui un signor X riuscì a farsi credere il signor Y, disperso durante la prima guerra mondiale, da parte della moglie di quest’ultimo. Come è stato possibile, nonostante tutte le prove emerse nel corso degli anni per dimostrare la realtà delle cose, cioè che lo “smemorato” non era in realtà il professor Canella, disperso in guerra? Anche in quel caso, più che i fatti a contare erano le emozioni di una quasi-vedova che vedeva nel ritorno di uno sconosciuto, internato in un manicomio perché senza memoria, la possibilità di recuperare quella normalità che la guerra le aveva tolto.

In questo senso, quella donna era allo stesso tempo vittima e complice del falso marito redivivo. A complicare ancora di più il caso, che accese una lunga diatriba che divise l’Italia per anni, il fatto che quelle due identità in lotta (Bruneri vs Canella), così diverse fra di loro (un falsario ignorante vs un professore universitario) divenne l’oggetto di uno scontro fra visioni diverse della verità (contano di più i fatti o i sentimenti?):

L’opinione pubblica divisa in questo caso fra Canelliani e Bruneriani rispecchiava infatti, rinvigorendole entrambe, le due correnti culturali e politiche prevalenti in quegli anni: lo spiritualismo e lo scientismo positivista. Mentre per la prima il fondamento di un’identità non risiede negli aspetti fisici o somatici, per il positivismo ciò che contava erano sempre i fatti, le evidenze (p. 77).

D’altra parte le guerre, o meglio ancora i dopoguerra, sono sempre stati i periodi in cui con più facilità poteva capitare che tornassero a casa reduci più o meno smemorati, desiderosi di ritrovare madri e mogli che li credevano ormai morti. Da Ulisse a Martin Guerre – su cui ha scritto mirabilmente anni fa Natalie Zemon Davis – tante storie dimostrano quanto le persone (magari una intera comunità) che desideravano il ritorno di qualcuno, fossero facilmente disposte a credere tutto, anche nonostante lampanti differenze fisiche (la corporatura, il colore degli occhi, persino le impronte digitali), pur di riabbracciarlo.

Anche il secondo dopoguerra, con la necessità di rielaborare il passato e di fare i conti con colpe e sensi di colpa, favorì inevitabilmente la creazione di identità fittizie, l’imporsi di false vittime bisognose di essere ascoltate e, in un certo senso, idolatrate: è il caso, reale, de L’impostore raccontato, fra gli altri, da Javier Cercas: Enric Marco, per una serie di coincidenze e per un contesto assolutamente favorevole, riuscì a creare una storia tutta inventata di persecuzioni franchiste e deportazione nella Germania nazista, divenendo addirittura il portavoce degli ex-deportati spagnoli. Marco è stato indubbiamente abile a «capire l’enorme potere del passato e [a] come poterlo usare, soprattutto in una paese come la Spagna franchista» (p. 119).

In questo senso, gli impostori riescono a farsi credere proprio dagli altri se si dimostrano “uomini comuni”, se non appaiono casi eccezionali, ma membri naturali di un gruppo che li attende. In questo senso, il racconto di Jorge Luis Borges, L’impostore inverosimile Tom Castro (contenuto in Storia naturale dell’infamia) è la rappresentazione vertiginosa di questa incredibile credulità. In quel caso, è soltanto l’emergenza degli interessi, il richiamo del denaro da parte di persone concorrenti nella possibilità di ereditare, a smontare l’abilissimo gioco di specchi esso in campo da Tom Castro.

L’impostore – e pensiamo soltanto a tutta la schiera di agenti doppi o tripli, agli infiltrati, protagonisti di tanti romanzi (ma anche delle cronache poliziesche) – crea un altro da sé, lo coltiva, e la sua vita dimostra come la recita non possa mai davvero dirsi conclusa: come insegnava Erving Goffman, giustamente ripreso qui da Turnaturi, la vita, anche minima, quotidiana, è una vera rappresentazione, e prevede l’uso calcolato di maschere e necessita di una credulità di base in chi osserva e ascolta. L’impostura a volte riesce davvero a impressionarci per le doti di equilibrismo che dimostra, per la capacità di osservare gli altri e portare avanti con vertiginosa coerenza una vita falsa, una maschera che non sarà mai del tutto possibile abbandonare. Per imporsi come impostori occorre davvero una notevole capacità di mimesi e una altrettanto forte adesione al nuovo sé. La figura dell’impostore, dunque, non può che continuare a interrogarci sul modo in cui crediamo agli altri e su ciò a cui finiamo per credere, mossi più dall’emotività che dalla razionalità.

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