Luca Demontis (1988) è responsabile della formazione presso il Collegio universitario San Carlo di Modena. È membro del Consiglio direttivo del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo e del Board di EucA (European university college Association). Laureato in filosofia a Siena, ha conseguito specializzazione e dottorato presso la Scuola Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo. Relatore in numerose conferenze internazionali, ha trascorso periodi di ricerca presso il Wolfson College di Oxford e la Universidad Autónoma di Madrid. È redattore de "Il Pensiero Storico" e ha pubblicato articoli su "El Mundo", "Il Mulino web" e "La Gazzetta di Modena".

Non c’è bisogno di essere sardisti o indipendentisti per provare imbarazzo e sconcerto di fronte allo scenario delle prossime elezioni regionali sarde. Piacerebbe scrivere che è una pessima figura per tutta una classe dirigente locale, se non fosse che quest’ultima semplicemente non risulta pervenuta all’appuntamento. Tra improvvisazione dilettantesca, passività supina ai diktat nazionali, tentativi di scissione dell’atomo elettorale, moltiplicazioni di liste, oscuri avvisi di garanzia e chi più ne ha più ne metta, raramente si sono visti tanti personaggi in cerca d’autore agitarsi in modo così sconclusionato e irragionevole.

Cento teste, cento cappelli, recita un antico adagio isolano ad indicare una certa atavica tendenza al disaccordo: in questo caso, tutti sembrano aver rinunciato all’ambizione di indossare anche solo un cappello di serietà, responsabilità e autorevolezza – altro che cento!

Non è piaggeria verso “l’elettore che ha sempre ragione” affermare che i cittadini sardi non meritano questo spettacolo, e che la rabbia e il disincanto così diffusi verso la politica locale sono pienamente giustificati.

A differenza che altrove, infatti, qui nessuno ha mostrato nemmeno l’ipocrisia retorica di fingere che gli interessi dei sardi fossero tenuti in considerazione. Il realismo politico romano più truce, quello della spartizione famelica di candidature e poltrone, è stato giocato sfrontatamente alla luce del sole. I panni sporchi sono stati esposti sulla pubblica piazza, a ferire lo sguardo di un popolo notoriamente legato a radicati valori di orgoglio, fierezza, autonomia e riservatezza.

Niente è andato per il verso giusto. A partire dallo stato di salute dell’economia isolana nell’ultimo quinquennio, in quello che è stato probabilmente il peggior mandato della storia regionale per mancanza di visione politica e per insipienza amministrativa.

Il pregevole rapporto Crenos delle due università isolane sull’economia sarda, giunto quest’anno alla trentesima edizione, è in questo senso una lettura insieme agghiacciante ed edificante. Citiamo un solo estratto di ottimismo dei soliti gufi accademici guastafeste:

in estrema sintesi, cosa emerge per la Sardegna da questo Rapporto? Il solito bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto? Le solite luci e ombre? Il solito quadro in chiaro-scuro? Non sembra così. Duecento pagine di analisi dettagliata e rigorosa mostrano, purtroppo, che il bicchiere è quasi vuoto e che le ombre incombono. Ci dobbiamo quindi arrendere a rimanere tra i fanalini di coda dell’Europa, a “sopravvivere” in condizioni di ritardo di sviluppo e sempre più dipendenti dall’assistenza di un settore pubblico inefficiente?

Lettura agghiacciante, dicevamo, perché documenta lo stato comatoso di gran parte delle attività produttive, con la parziale eccezione del turismo costiero stagionale, a fronte del desolante buco nero economico, demografico e sociale intorno a cui gravita ormai per tutto il resto dell’anno la “ciambella sarda”; ma anche potenzialmente edificante, perché avrebbe potuto e dovuto richiamare le classi dirigenti regionali ad un grande patto di unità e responsabilità per provare a uscire dallo sfacelo. Ma figurarsi.

Invece, tutti i partiti si sono svegliati da un lungo sonno nuragico per accorgersi all’ultimo momento delle elezioni incombenti. Oddio, si è fatto tardi, e adesso chi candidiamo? Nessun problema: decideranno le segreterie nazionali, con una serie bipartisan di “accordi del pecorino” (materie prime e manodopera sarde, denominazione e profitti politici tutti romani).

Una volta accantonata la fatica della scelta – e magari dell’organizzazione delle primarie, proprio da parte di chi ne aveva fatto una bandiera identitaria –, ai notabili locali non è rimasto che accomodarsi sotto il tavolo per raccogliere le briciole, con in più la sublime vanità provinciale di millantare, nella piazza del paese, rapporti fraterni con la Presidenza del Consiglio, oppure pregressi ruoli chiave nei gangli dello sviluppo economico nazionale.

Infinite pagine sono state scritte sulla sofferta identità sarda, sui complicatissimi rapporti con le istituzioni nazionali fin dall’Unità d’Italia, sulle potenzialità di una terra effettivamente “eccezionale” dal punto di vista storico, geografico e antropologico.

Anche negli anni più drammatici delle colossali lotte del “mondo grande e terribile” che ebbe ad affrontare, Antonio Gramsci – evocato ovunque di questi tempi, tranne dove serve – non smise mai di provare stupore filosofico, turbamento esistenziale e curiosità analitica di fronte alla pur così apparentemente circoscritta “questione sarda”.

Tanto dovrebbe bastare a ricordarci che la questione è seria, tale da meritare un sussulto di dignità e onore da parte di tutti gli attori in campo – nella speranza che tanti di quei giovani sardi che osservano oggi dalle tribune, in quanto emarginati dai pigri dinosauri al potere oppure emigrati per cause di forza maggiore, sentano l’urgenza gramsciana di istruirsi, perché ci sarà bisogno di tutta la loro intelligenza; di agitarsi, perché ci sarà bisogno di tutto il loro entusiasmo; di organizzarsi, perché ci sarà bisogno di tutta la loro forza per scalzare, avendo come grimaldelli uno sguardo aperto al mondo e le competenze del futuro, quel sistema feudale che oggi li opprime.

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