Luca Demontis (1988) è responsabile della formazione presso il Collegio universitario San Carlo di Modena. È membro del Consiglio direttivo del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo e del Board di EucA (European university college Association). Laureato in filosofia a Siena, ha conseguito specializzazione e dottorato presso la Scuola Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo. Relatore in numerose conferenze internazionali, ha trascorso periodi di ricerca presso il Wolfson College di Oxford e la Universidad Autónoma di Madrid. È redattore de "Il Pensiero Storico" e ha pubblicato articoli su "El Mundo", "Il Mulino web" e "La Gazzetta di Modena".

Il 2024 è l’anno delle elezioni. Quattro miliardi di persone, mai così tante nella storia, si recheranno alle urne. È un buon segnale dello stato della democrazia del mondo. Meglio, dell’idea di democrazia: in tanti Paesi (Russia, Bielorussia, Venezuela, Pakistan…) le elezioni saranno orientate dalla propaganda, manovrate dai governi o semplicemente farlocche.

Eppure, il solo fatto che vi si svolgano dice ancora qualcosa sul fascino esercitato dall’ideale democratico, anche dove il suo pieno esercizio è tutt’altro che garantito. Come ricordava Norberto Bobbio, per essere compiuta la democrazia necessita dell’indissolubile matrimonio con il liberalismo: un connubio sul quale anche tanti Paesi occidentali hanno oggi molto da lavorare. Soprattutto in Europa sembriamo immersi, almeno dallo shock della Brexit nel 2016, in una lunga “crisi del settantesimo anno”, a decorrere dalla fine della Seconda guerra mondiale.

L’attenzione globale sarà inevitabilmente calamitata dalle elezioni presidenziali di novembre negli Stati Uniti. Con l’interminabile liturgia delle primarie, gli improbabili tempi morti di successione, le cerimonie imperiali per l’insediamento del Commander-in-Chief, si ripete ogni quattro anni il paradosso del paese tecnologicamente più evoluto al mondo che da due secoli si basa sul calendario agricolo per chiamare i suoi cittadini alle urne di martedì. Bizzarrie di uno Stato che, soprattutto in politica, resta tenacemente ostile al riformismo dall’alto e preferisce invece adagiarsi sulle tradizioni, gli usi consolidati, il decentramento, il common sense delle comunità locali.

Le elezioni di quest’anno saranno particolarmente importanti per il resto del mondo e particolarmente deprimenti per gli americani. Il grande circo delle primarie, momento spettacolare per eccellenza della politica americana, sarà stavolta un contenitore vuoto, dato che i giochi sono già chiusi da tempo. I due maschi bianchi ottuagenari (o quasi) che si sfideranno lo faranno in virtù del sequestro che ciascuno dei due ha operato del proprio partito: Joe Biden in qualità di inaggirabile Presidente uscente, Donald Trump in quanto “picchiatore” dei rivali interni e profeta delle masse di scontenti, in una società sempre più polarizzata e rancorosa.

Lo spirito di rinuncia con cui i due partiti si sono lasciati espropriare la dice lunga sullo stato di salute della classe politica americana. I democratici sono decisamente lontani dallo slancio kennediano della “luna come nuova frontiera”, e tra i repubblicani non c’è traccia degli animal spirits dell’età di Reagan (che pure non era un giovanotto quando fu eletto). È evidente che oggi i “giovani e forti”, laureati nelle migliori università della Ivy League, puntano a ben altre soddisfazioni economiche nelle grandi multinazionali, piuttosto che ad aspettare un posto al sole in una carriera politica mai così screditata.

Il paradosso infatti è che, a fronte della sclerotizzazione del sistema politico, in questa fase gli indicatori economici sono eccellenti, le retribuzioni crescono a ritmi stellari rispetto al Vecchio Continente, l’inflazione è tornata sotto controllo senza troppi scossoni, la disoccupazione è ai minimi storici. The economy, stupid, is doing well. Resta aperta la questione di quanto ciò dipenda dalle scelte dell’amministrazione Biden e quanto, invece, dal dinamismo di una società civile che, nonostante tutto, resta giovane, attiva, plurale, innovativa e produttiva come poche altre.

Allora che succede nel più grande impero del mondo? Perché così tanti arrabbiati in giro, pronti a votare l’uomo che ha ispirato la marcia su Washington del 6 gennaio 2021, sul quale gravano capi d’accusa sconcertanti e che oggi spande solo sogni di vendetta personale e truci appelli razzisti, isolazionisti e semi-dittatoriali?

Vale la pena richiamare un altro adagio liberale, secondo il quale le idee influenzano la società almeno quanto lo fanno le strutture economiche, se non di più. E di idee tossiche, oggi, la società americana è piena.

C’è il terrore dell’immigrato, che capovolge il mito novecentesco della società aperta per eccellenza; la polarizzazione politica, alimentata da un sistema dell’informazione in crisi nera, sempre più radicalizzato su entrambi i fronti per fidelizzare gli estremisti; la questione razziale, eterna ferita sanguinante dei figli e dei pronipoti della Guerra di secessione; le tante solitudini di una società profondamente diseguale, fondata sul mito della ricerca della felicità individuale –  un’anomia che tanti attribuiscono al neoliberalismo degli ultimi decenni, ma del quale già Tocqueville aveva intuito i rischi nell’Ottocento; il rancore dell’America profonda verso le città moralmente corrotte delle due coste; lo speculare disprezzo degli intellettuali verso i penultimi della società, troppo rozzi ed esteticamente sgradevoli per meritare ascolto e attenzione; la potenza di fuoco della lobby delle armi, inesauribile bacino di sfogo di tanti squilibrati; l’ignoranza diffusa rispetto a tutto ciò che succede nel resto del mondo, inteso dai più come appendice irrilevante dell’impero, suggestiva al limite come destinazione turistica; la lotta contro l’aborto impugnata dai governatori conservatori come una clava propagandistica contro la libertà delle donne; il fanatismo ideologico dei giovani progressisti nelle migliori scuole e università del Paese, impazienti di cancellare la storia e abbracciare con zelo puritano qualunque causa antiamericana e antioccidentale. E infine, come basso continuo, il terrore di essere avviati sul viale del tramonto, condannati a un inesorabile declino, in virtù del confronto insostenibile con la potenza e la gloria del Novecento.

Eccoli qui, gli ingredienti esplosivi del Melting pot americano del ventunesimo secolo. Come ricorda Dario Fabbri nell’ultimo bel volume sulla Geopolitica umana, i grandi imperi come quello statunitense non si nutrono dei propri successi economici ma di sogni di gloria, grandezza, supremazia. E oggi l’American Dream sembra diventato a tanti americani – inclusi coloro che economicamente fioriscono – un incubo sconnesso e frammentato, un Inception senza via d’uscita.

Davanti a questo scenario, di fronte ai due candidati, la grande maggioranza ha oggi una sola certezza: comunque vadano le elezioni, nessun colpo di reni arriverà nel prossimo quadriennio. Fanno eccezione le frange più radicali dei sostenitori trumpiani, numericamente ridotti ma molto rumorosi in quanto amplificati dai media di entrambi i fronti, convinti religiosamente che The Donald Will Make America Great Again.

L’adesione – o l’avversione – al credo trumpiano “MAGA” è l’unica fede politica di questa stagione. La letargica campagna elettorale di Biden ha già mostrato di voler giocare tutte le sue carte sulla demonizzazione dell’impresentabile avversario, delle sue pendenze giudiziarie e delle sue legioni di esaltati. Da bravi pionieri, in Italia abbiamo già visto come va a finire con queste premesse.

La grande fede che anima invece le frange più movimentiste del Partito Democratico, cioè l’ideologia Woke, è politicamente inutilizzabile per un Presidente in carica come Biden, che non può intestarsi battaglie troppo radicali. Può solleticarne le sensibilità a fini elettorali ma non può farne un cavallo di battaglia, anche perché si tratta di materiale estremamente infiammabile.

Fin dallo sbarco dei puritani inglesi dalla Mayflower nel 1620, le comunità americane sono periodicamente attraversate a ondate dall’esigenza di estirpare il male, ripulire le coscienze, stanare streghe e corrotti, imporre pubbliche ammissioni di colpevolezza, cancellare il peso delle responsabilità passate. È un filo rosso che, nella coscienza americana, si dipana dalla Lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne al Sexygate di Bill Clinton, dal proibizionismo antialcolico al maccartismo anticomunista.

L’ideologia Woke ne è l’ultima manifestazione. Sotto questa insegna rientrano tanti fenomeni diversi, ma chiaramente accomunati dall’intento fideistico di raddrizzare la società e riaccendere, costi quel che costi, la fiaccola della virtù. Una generazione di giovani americani, convinti della propria assoluta integrità morale da modelli educativi che ne esaltano lo sconfinato narcisismo, è partita lancia in resta contro ogni appello allo scomodo principio di realtà per correggere qualunque ingiustizia.

Come Don Chisciotte, si aspettano di trovare tra le infinite pieghe del loro mondo familiare, affettivo e sociale la stessa nettezza adamantina dei libri di cui si sono nutriti, senza contraddittorio, nei campus di Harvard, di Stanford e nelle aziende più danarose della Silicon Valley, che vi attingono a piene mani per spalmare una patina moralistica sugli imbarazzanti profitti di questi decenni.

È un movimento di élite che si presta perfettamente ad attirare le furie dei sostenitori MAGA trumpiani, ma anche i timori e le diffidenze della maggioranza silenziosa dei moderati, pronti a replicare che: «non si può più dire nulla; i progressisti si occupano solo dei pronomi; non ci sono più le principesse Disney di una volta; gli intellettuali indeboliscono il Paese promuovendo qualunque causa antipatriottica; la difesa dei più fragili è rimpiazzata dalla lotta a chi fa più rumore (e lobbismo) tra i sindacati delle minoranze, ciascuno contro l’altro armato».

Difficile immaginare un mantello rosso più sgargiante da sventolare davanti ai tori arrabbiati delle infinite periferie americane, che hanno trovato in Trump il mattatore ideale. I suoi comizi sono ormai interminabili e sconnessi flussi di coscienza che, dietro l’apparente mancanza di ordine logico, risultano estremamente efficaci nell’additare i nemici comuni, plasmare le parole chiave della propaganda e infiammare, con l’abilità del rabdomante, il risentimento profondo del popolo MAGA.

La sua rabbia è il suo messaggio, nel quale identificarsi visceralmente. E i suoi ostentati successi personali del passato, a cui segue l’attuale persecuzione giudiziaria, sono la prova che, se le cose vanno male, non è per mia responsabilità ma per colpa dei palazzi di Washington, contro i quali The Donald è l’unico alfiere.

I principali quotidiani americani pubblicano ogni giorno almeno un editoriale apocalittico per ribadire che la vittoria di Trump provocherà la fine della democrazia in America, quindi la fine della libertà nel mondo, quindi la fine del mondo. L’ipnosi da Armageddon imminente non è il miglior viatico per una campagna elettorale e vale la pena augurarsi che, nei molti mesi che ancora mancano al 5 novembre, i democratici troveranno argomenti più briosi. La strada è lunga e il futuro è aperto.

Ciò che è certo è che le campane dell’impero faranno, quest’anno, molto rumore: non dobbiamo lasciarcene stordire per forza, ma sarà il caso di ricordarci che qualche rintocco, in periferia, suonerà anche per noi.

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