Luca Demontis (1988) è responsabile della formazione presso il Collegio universitario San Carlo di Modena. È membro del Consiglio direttivo del Festivalfilosofia di Modena, Carpi e Sassuolo e del Board di EucA (European university college Association). Laureato in filosofia a Siena, ha conseguito specializzazione e dottorato presso la Scuola Alti Studi della Fondazione Collegio San Carlo. Relatore in numerose conferenze internazionali, ha trascorso periodi di ricerca presso il Wolfson College di Oxford e la Universidad Autónoma di Madrid. È redattore de "Il Pensiero Storico" e ha pubblicato articoli su "El Mundo", "Il Mulino web" e "La Gazzetta di Modena".

Decine di giornalisti, politici e intellettuali fanno in questi giorni i conti con la scomparsa di Berlusconi e soprattutto con se stessi – con il loro ruolo negli anni berlusconiani, con gli intrecci di relazioni in cui si sono mossi, con le passioni, gli interessi, le pavidità che li hanno guidati. Non è tanto la vicenda di Berlusconi a raccontare l’autobiografia di una nazione, quanto ciò che ne è stato detto e scritto da una generazione che ne è stata protagonista, da una parte o dall’altra della barricata.

Ma che cosa resta dell’età berlusconiana per chi non ha attraversato quella parabola storica? Che cosa rimane di quella esperienza, una volta conclusa la biografia del suo mattatore? Tanto si è scritto sulle sue promesse mancate, sul “contratto con gli italiani” mai onorato. Il fallimento della “rivoluzione liberale” è un dato di fatto già consegnato alla storia, così come il prodigioso dispendio di capitale politico, conquistato con indubbia abilità, ma convogliato in costante favore dei propri interessi, piuttosto che di un’azione riformista volta al beneficio comune.

Ma è perfino più interessante affrontare un’altra grande questione che ha permeato la formazione di chi, in quegli anni, si affacciava al mondo della cittadinanza e della politica: tra i dogmi di fede c’era la convinzione che, dopo Berlusconi, l’Italia avrebbe ritrovato la via dello sviluppo economico; che una volta archiviato il conflitto di interessi, avremmo potuto riscoprire una dimensione di libera concorrenza, di giustizia sociale, di equa eguaglianza delle opportunità; che una volta cacciata dai templi istituzionali la “corte di nani e ballerine”, avremmo potuto ricostituire tutti insieme un’etica condivisa della responsabilità.

Come è stato possibile che, dieci anni dopo la sua caduta, di tutto questo non vi sia traccia?

Stagnazione della produttività e dei salari, esplosione della povertà e delle disparità, crollo di qualità dell’istruzione pubblica, mancanza di senso istituzionale, clima politico e sociale deteriorato: non c’è un solo indicatore che evidenzi un accenno di progresso rispetto all’età berlusconiana. I più critici osserveranno che è comunque responsabilità del berlusconismo, il quale ha provocato una degenerazione antropologica tale da rendere impossibile gettare le basi per una rinascita, avendo eroso le fondamenta della convivenza, della legalità, della fiducia. È una visione miracolistica fin troppo generosa rispetto alle capacità berlusconiane: perfino dopo il – ben più drammatico – crollo dei totalitarismi, il nostro e altri paesi europei hanno trovato le energie per una riscossa civile e morale.

Qualcun altro osserverà invece che Berlusconi è stato interprete, amministratore e acceleratore di un declino italiano legato a ragioni ben più ampie della sua pur strabordante personalità. Questo è certamente più plausibile, ma resta la domanda di fondo: che cosa resta della promessa di un miracolo post-berlusconiano?

Se è vero che il berlusconismo ha suscitato rilevanti effetti allucinatori, oggi che il suo protagonista è scomparso restano ancora da comprendere appieno le distorsioni indotte dai suoi avversari. È opportuno riflettere soprattutto su quella che potremmo definire la “pedagogia dell’antiberlusconismo”. Una generazione di intellettuali ha attribuito a Berlusconi alcune caratteristiche che sono state identificate come essenzialmente e intrinsecamente sue: il “sole in tasca” dell’ottimismo, lo spirito di iniziativa, la spregiudicatezza, la volontà di potenza, l’urgenza di avere e di apparire, il maschilismo, gli esuberanti appetiti sessuali. Il passo successivo, da parte della pedagogia antiberlusconiana, è stato quello di far coincidere tali caratteristiche con il personaggio, facendo di quest’ultimo l’unità di misura e il benchmark di tutti questi tratti messi insieme. Si è creato, cioè, un amalgama inscindibile nel quale le indubbie capacità imprenditoriali del personaggio si sono saldate con gli altrettanto indiscutibili vizi politici e personali, attribuendo a tale impasto una valenza profondamente negativa, contestabile e detestabile.

Che cosa ha voluto dire, in un Paese già irrimediabilmente cinico e sospettoso come il nostro? L’esito naturale è stato la trasformazione del cittadino-spettatore berlusconiano nel cittadino-giudice contemporaneo, che emette costantemente le proprie sentenze inappellabili in qualsivoglia contesto analogico e digitale. Ogni progetto, ogni ambizione, ogni storia di successo è condannata alla radice, ricondotta a una matrice “berlusconiana” di per sé deprecabile. Ogni iniziativa ben riuscita è frutto di un complotto, di una ruberia, di una truffa ai danni del povero cittadino inerme. L’eredità più rilevante dell’età berlusconiana è, in breve, quell’esondazione di rancore sociale che ci sommerge quotidianamente da ogni schermo. Chi ne sottovaluta la portata non ha semplicemente dedicato sufficiente attenzione alle bacheche social, ai dibattiti televisivi, alle discussioni infuocate che si sviluppano intorno al nuovo Olimpo degli influencer digitali.

L’elemento più significativo di tale eredità è che questa è disseminata ugualmente tra le varie parti politiche: l’incontinenza verbale dei sovranisti, l’incompetenza programmatica degli agitatori di piazza, l’inappetenza esangue dei progressisti, sono tutti ugualmente pervasi da questo spirito oppositivo, contestatario, giudicante, risentito e livoroso. Venuta meno l’urgenza di studiare la realtà per comprenderla, di ricondurne gli elementi irrazionali all’interno di un quadro di senso, di costruire mappe accurate per guidare l’azione, di educare i cittadini a una versione migliore di se stessi, la società italiana restituisce l’immagine di un blob di insoddisfazione adolescenziale da cavalcare a fini elettorali. L’ostinata schermatura del “sole in tasca” berlusconiano, del suo ottimismo ostinato quanto artificiale, è probabilmente l’eredità più duratura della sua stagione politica, equamente diffusa tra eredi e rivali.

È un singolare portato dell’età berlusconiana: tra i compiti degli storici, ci sarà quello di capire in che modo la sua “storia italiana” come “autobiografia della nazione” si sia rovesciata nell’esatto contrario, lasciando le macerie di un paese incattivito, incapace di immaginare e progettare, radicalmente sfiduciato rispetto al prossimo e al futuro. Non sarà facile dare una risposta, anche perché i discorsi degli intellettuali su Berlusconi – e, specularmente, le velleità intellettuali di Berlusconi – hanno sempre dato l’idea di una reciproca incomunicabilità di fondo: nell’azione e nell’improvvisazione berlusconiana c’è sempre stata un’eccedenza di impulsività, di esuberanza, di animal spirits, che ha determinato uno scarto rispetto a ogni tentativo di razionalizzazione. Nasce da qui la famosa “incapacità di capire Berlusconi”, di “vederlo arrivare” (si direbbe oggi), perché una tradizione politica cresciuta con il culto dell’egemonia culturale nei circoli accademici ed editoriali non ha coltivato gli strumenti pre-razionali utili a decifrare questo tipo di inafferrabilità pratica. Ancora dopo trent’anni, l’impressione è che la sinistra continui a inciampare precisamente su questa lezione, che è stata invece assimilata dalla destra e dagli agitatori di piazza.

Non è un caso che una delle condanne inappellabili rivolte a Berlusconi, ovvero quella incentrata sull’antifascismo, sia sempre andata clamorosamente fuori bersaglio: il modello berlusconiano è sempre stato “totalmente altro” rispetto allo Stato etico, all’organicismo fascista, alla disciplina totalitaria. Il suo modello di leadership anarco-paternalista è in antitesi rispetto a qualunque modo di intendere la società come una totalità. D’altro canto, non si può neanche affermare che Berlusconi abbia tradotto in italiano il credo liberista thatcheriano per cui «non esiste la società ma solo gli individui», perché la sua concezione sociale è sempre stata imperniata su un istintivo e profondo spirito familista, cameratesco, nepotistico – che non è necessariamente favoreggiamento di associazione a delinquere ma, piuttosto, un certo modo consociativo e ammiccante di intendere i rapporti sociali, destinato certamente a sopravvivergli.

Con tutto questo dobbiamo fare i conti: il pluridecennale fraintendimento berlusconiano è stato probabilmente legato all’inadeguatezza delle categorie utilizzate da una generazione di politici e intellettuali formatisi negli anni della contestazione studentesca, della radicalizzazione ideologica, degli opposti estremismi. Ora che la sua strabordante biografia è passata dalla cronaca alla storia, una nuova generazione di intellettuali dovrà sforzarsi di uscire dal suo incantesimo, lasciando che le passioni del presente si sedimentino su una vicenda unica, cercando di capire ciò che ci servirà affinché rimanga irripetibile.

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