Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo (Le origini del federalismo: il Covenant, 1996; Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano, 1999). Ha inoltre pubblicato Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica (2015); Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo (2017), Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero (2021); Un nuovo romanticismo per il nuovo secolo (2024) . Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero Palingenesi di Roma antica (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a: Serve meno Europa? Domande radicali sull’Unione Europea, a cura di S. d’Andrea e prefazione di A. Carrino, Rogas Edizioni, Roma 2025, pp. 271, € 22,70

«Ce lo chiede l’Europa!». Ripetuto di continuo negli ultimi trent’anni, questo mantra ha giustificato l’adozione di innumerevoli scelte legislative, economiche, fiscali che hanno inciso sulla vita dei cittadini senza però consentire a quegli stessi cittadini di far sentire adeguatamente la propria voce. Ma cos’è davvero questa “Europa”? Più precisamente: cos’è l’Unione Europea? Un soggetto giuridico autonomo e altro rispetto agli Stati membri? Uno Stato federale in gestazione? O una organizzazione internazionale come possono essere l’ONU e la WTO? E soprattutto: possiamo davvero considerare utile, essenziale e irreversibile questa UE? A tali e ad altre radicali domande cercano di rispondere gli otto autorevoli autori (economisti, giuristi e filosofi del diritto) del volume in commento.

È bene chiarire che si tratta di voci autorevoli ma minoritarie nelle rispettive sfere di competenza. Il fil rouge che lega i vari contributi è una ostilità di fondo al progetto e alla realtà dell’integrazione europea così come venuta a formarsi quanto meno dal Trattato di Maastricht in poi. Ora su posizioni di euroscetticismo moderato, ora su più esplicito e radicale antieuropeismo gli Autori offrono una originale lettura interpretativa dell’Unione Europea. E proprio perché voci minoritarie (ma sempre meno) ed estranee al filo-europeismo un po’ piatto e conformista così in voga (ma sempre meno) in Italia più che altrove, forniscono un prezioso contributo al dibattito sui fondamenti  e gli scopi dell’UE, dati troppo a lungo come acquisiti. Si consiglia la lettura di questo saggio anche agli euro-entusiasti e ai federalisti europei perché gli Autori, con serrate argomentazioni e richiamo di fatti e documenti, introducono e sollecitano il lettore più prevenuto a un dibattito di qualità, sempre arricchente. Data la peculiarità di questa rubrica ci concentriamo sui due contributi di taglio precipuamente giuridico: quello di Stefano D’Andrea sulla natura giuridica dell’UE; e quello di Sergio Foà sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia europea.

L’“Europa” può chiederci qualcosa? No, risponde D’Andrea, perché l’Unione Europea paradossalmente non esiste. Non esiste come soggetto giuridico autonomo e altro. Essa esiste solo come oggetto di intesa interstatuale. La tesi sostenuta da D’Andrea, in buona compagnia con una parte non trascurabile di costituzionalisti, è semplice (e, si sa: la verità è semplice): l’UE è una organizzazione internazionale. Non uno Stato federale, neppure a livello embrionale e neppure – come invece sostiene la parte maggioritaria della dottrina costituzionalistica – una organizzazione internazionale sui generis, soggetto dai contorni vaghi e fantasiosi. Non si tratta di oziosa accademia o di questione meramente nominalistica. Se l’UE è davvero e soltanto una organizzazione internazionale, allora non solo non è corretto discorrere – come si fa abitualmente – di una UE che chiede o impone qualcosa agli Stati (perché sono gli Stati stessi, organizzati in consesso europeo, a chiedere o imporre a sé medesimi qualcosa), ma diventa anche più semplice per gli Stati e i cittadini porsi nei confronti di questo strumento interstatuale. Se i più accesi tra gli europeisti venerano l’UE quasi fosse una divinità (un «feticismo moderno», p. 71), soggetto dotato di personalità, interessi propri, finalità etico-politiche e destino storico ideologicamente orientato, gli euroscettici considerano invece l’Unione un oggetto, uno strumento che gli Stati sovrani d’accordo tra loro hanno deciso di forgiare e utilizzare per il conseguimento di ben determinati obiettivi. E nulla di più. Ma se l’UE, è oggetto e “utensile”, allora è più che lecito domandarsi se quest’utensile – da Maastricht a oggi – si sia rivelato davvero  vantaggioso per gli Stati e i cittadini. Dal 1992 a oggi ha dato risposte positive in tema di crescita economica, occupazione, lotta alle diseguaglianze, diffusione di ricchezza, etc? Secondo D’Andrea il bilancio è negativo. Ma non rileva tanto la questione sulla negatività/positività di un bilancio ormai ultratrentennale; importa invece constatare come siano pochissimi gli studi dedicati a un’analisi spassionata dei risultati conseguiti. Manca un vero dibattito sul tema. E manca perché a livello di opinione pubblica, classi politiche e  anche tra gli studiosi si dà per scontato che l’UE costituisca un soggetto a sé stante, possieda una propria sostanza ontologica, una intrinseca irreversibilità e un segno altrettanto intrinsecamente positivo e di progresso. Per cui da questa angolazione non ha senso porsi domande sulla utilità/inutilità dell’UE per gli Stati e i cittadini. Così come non avrebbe senso porsi analoghe domande per i cittadini italiani, francesi etc. nei confronti dell’Italia, Francia etc. L’Italia esiste a prescindere dalle utilità che ne possano trarre i cittadini perché l’Italia si pone non come strumento ma come Patria e comunità di destino. Non si è italiani per convenienza ma per appartenenza. Ma può dirsi la stessa cosa dell’UE? Evidentemente no perché la UE non è né Stato né Nazione ma soltanto una organizzazione interstatuale poggiante su basi di pragmatica convenienza. Ma se questa convenienza viene meno, se l’organizzazione cessa di costituire fattore di utilità, allora potrebbe ben essere gettata via quale ferro vecchio, strumento obsoleto. D’altronde questo è sempre stato l’atteggiamento britannico nei confronti dell’UE.

Le conclusioni cui perviene D’Andrea, come si vede, sono piuttosto forti e per l’“europeista medio” inaccettabili e al limite della provocazione. Però conclusioni argomentate e persuasive, soprattutto in alcune dense pagine (pp. 78-86) ispirate alla teoria realista secondo la quale «gli Stati sono gli unici soggetti delle relazioni internazionali; le organizzazioni internazionali sono strumenti degli Stati» (p. 76), e dove si dimostra che l’UE è priva di ogni requisito per assurgere a Stato: non ha un territorio («l’UE è una organizzazione che gli  Stati si son dati per creare spazi normativi identici o omogenei», p. 79); non ha sovranità (non esiste alcun organo dell’UE strutturato per esercitare i poteri sovrani, in primis il potere di imporre tributi e il potere di chiamata alle armi); non ha popolo (la cittadinanza europea è mera propaganda; essa «non è un’appartenenza perché non implica doveri fondamentali né conferisce significativi diritti di partecipazione politica», p. 84). Si dirà: però ha la moneta. Ma neppur questo è vero, primo perché il batter moneta non è elemento essenziale della sovranità e inoltre la politica monetaria è di competenza del sistema delle banche centrali diretto dalla BCE e non dalla Commissione.

Quando si discorre di deficit democratico dell’UE, si dovrebbe più correttamente indicare una sottrazione di competenze dagli organi democratici nazionali (le camere elettive) ai governi, i quali riuniti nel Consiglio europeo decidono secondo modalità intergovernative. Qui, in questo svuotamento degli organi democratici, sta il vero dramma dell’Europa di Maastricht (e non a caso un altro contributo del saggio, a firma di Omar Chessa, è dedicato a una fine analisi della “post-democrazia” e del ruolo che i meccanismi comunitari svolgono nel consolidamento del deficit di democrazia).

Il contributo di Sergio Foà, dedicato all’analisi del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea, non va letto soltanto con gli occhi del giurista perché ci conduce a conclusioni dirompenti dal punto di vista politico e di civiltà del diritto. Infatti già dal titolo Foà pone il quesito diretto e ineludibile : l’istituto del rinvio pregiudiziale è strumento di collaborazione o di sottomissione dei giudici nazionali alla Corte europea? La risposta è chiara e argomentata: sottomissione.

La Corte di Giustizia Europea sin dalle origini ha manifestato una tendenza aggressivamente espansiva e dilatatrice della sua funzione di interpretazione del diritto comunitario in rapporto ai diritti degli Stati membri. Organo autoreferenziale, unico depositario dell’interpretazione autentica dei Trattati e della produzione legislativa e para-legislativa degli Enti comunitari, essa nel corso degli anni ha integrato, trasformato, eroso e orientato i diritti nazionali (e quindi anche le norme di diritto positivo) ponendosi al di fuori di ogni passaggio di dibattito e confronto politico. Non importa cosa i Parlamenti dei singoli Stati, in pubblici dibattiti e nel quadro della dialettica tra maggioranza e minoranza (il sale della democrazia rappresentativa), deliberino come leggi. Importa invece come e quando quelle leggi passino il vaglio dell’ermeneutica dei giudici della Corte europea. Sta a costoro, interpreti autentici (e ultimi) dei trattati e dei “princìpi giuridici generali” dell’Unione Europea, stabilire se le leggi nazionali siano o no conformi a tali Trattati e a tali princìpi generali. E la loro interpretazione resta vincolante. È vero: la Corte non interviene d’ufficio ma va coinvolta nella singola fattispecie dal giudice nazionale tramite, appunto, l’istituto del rinvio pregiudiziale. Ma Foà molto opportunamente evidenzia quanto pervasivo sia l’obbligo per i giudici nazionali di ultima istanza di rimettere alla Corte europea i casi di dubbia interpretazione sull’applicazione delle fonti del diritto comunitario alla legislazione interna. I giudici di prima istanza non sono formalmente gravati da tale obbligo ma la stessa Corte ha stabilito in via interpretativa che costituisce fattispecie di responsabilità civile del magistrato la manifesta violazione del diritto comunitario. Cosicché il magistrato ordinario, per evitare rischi di responsabilità e conseguenze disciplinari, è indotto a rimettere alla Corte europea ogni questione interpretativa che potrebbe far sorgere dubbi, anche lievi, sulla corretta applicazione dei princìpi giuridici comunitari al caso concreto disciplinato dalla legge nazionale. Insomma: sempre più frequentemente  il giudice “professionalmente diligente” è indotto a spogliarsi dell’esercizio della funzione giurisdizionale per rimetterla ai suoi colleghi europei.

Ma da qualche anno assistiamo a un salto di qualità, cioè alla tendenziale sottomissione persino delle Corti Costituzionali nazionali (là dove esistano) alla Corte europea. I giudici europei ammettono (e sollecitano) il rinvio pregiudiziale pur se la norma specifica attinente al caso concreto sia già stata esaminata dalla Corte Costituzionale e risolta con una pronuncia di legittimità costituzionale, anche alla luce del diritto comunitario. In altri termini il giudice ordinario rimette alla Corte europea la questione (già risolta dalla Corte Costituzionale)  della conformità di una norma al diritto comunitario e alla Costituzione statale. La possibile conseguenza è chiara: la Corte Europea potrà decidere in senso difforme dalla Corte Costituzionale, per esempio dichiarando illegittima una norma accertata invece come costituzionalmente conforme dalla Corte Costituzionale interna. Il custode della legalità costituzionale sta abdicando dal suo ruolo. Lo si vede anche nella recentissima sentenza della Corte di Giustizia Europea del 26 settembre 2024 (causa C- 792/22), che dà il via libera ai giudici nazionali di «disapplicare le sentenze della propria Corte Costituzionale allorquando ritengano che le stesse violino i diritti originati da una fonte sovranazionale» (nella fattispecie: i Trattati europei) (p. 153).

E infine, un altro vulnus sottolineato da Foà: la certezza del diritto rimessa in discussione. La Corte di Giustizia Europea è giunta persino a erodere il principio di intangibilità della cosa giudicata laddove ammette che in sede di esecuzione di una sentenza passata in giudicato possa sollevarsi il rinvio pregiudiziale in caso di dubbi interpretativi di compatibilità col diritto comunitario. La questione è rimessa ai giudici europei i quali, quindi, non si ritengono vincolati dall’autorità della cosa giudicata.

C’è da chiedersi sino a che punto potrà spingersi la Corte Europea nella costruzione di una “legalità comunitaria” al di fuori di ogni sede di discussione pubblica e politica e al di sopra della legalità nazionale e delle corti nazionali. E c’è da chiedersi, altresì, se si abbia consapevolezza che sempre più la Corte europea stia surrettiziamente esercitando funzioni costituenti impositive di un nuovo ordine giudiziario. Con pessimistico realismo Foà vede in queste funzioni giurisprudenziali costituenti «un grimaldello nella mani della CGE per imporre agli Stati membri una politica giudiziaria sovranazionale» (p. 142).

Il tutto, si può aggiungere, al di fuori di ogni circuito di controllo democratico e di dibattito consapevole e informato di opinione pubblica.

Loading