Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
C. Altini, Le maschere del progresso. Ascesa e caduta di un’idea moderna

Marietti, Bologna 2018, pp. 120, € 10.

10.5281/zenodo.3541078

Ha ancora senso oggi una riflessione sul progresso, cioè sulla concezione «legata a una immagine del sapere inteso come processo lineare, cumulativo, continuo, irreversibile e illimitato», attraverso cui realizzare il perfezionamento dell’uomo e della società? Se lo chiede Carlo Altini all’esordio del saggio dedicato alle Maschere del progresso. L’Autore, noto per i suoi studi su Leo Strauss, risponde di sì, anzi afferma che è doveroso, perché le “maschere” che oggi si spacciano per trasformazioni emancipatrici rischiano di relegare l’umanità nella sudditanza a un eterno presente a-finalistico, a una «pretesa datità del reale» (p. 18).

Il punto di partenza da cui muove l’Autore è la dissoluzione dell’idea moderna di progresso nel corso del Novecento e la sua sostituzione con i progressi settoriali, di ambito tecnico-scientifico e produttivistico. Le catastrofi del XX secolo hanno annichilito la fiducia nel progresso morale, sociale e di libertà ma nel secondo dopoguerra l’incredibile accumulo di conoscenze tecnico-scientifiche insieme con la diffusione del benessere materiale e la fittissima ramificazione delle relazioni commerciali giustificano, all’opposto, la fiducia nei progressi settoriali. Senonché (e qui si annida l’insidia) questi “progressi” in realtà tali non sono, ma soltanto maschere: “innovazioni”, fattori di “crescita”. Questi lemmi hanno soppiantato nel linguaggio corrente il più ingombrante (perché valorialmente caratterizzato) “progresso”. “Innovazione” e “crescita” si presentano a-valoriali, con spiccata accentuazione del dato quantitativo estrinseco, cosicché oggi l’innovazione nelle tecniche, nelle scienze, nella società non tocca il dato etico né l’esigenza della trasformazione emancipatrice razionalmente orientata (tutti aspetti invece essenziali nel concetto moderno di progresso). L’innovazione, in sé neutra, viene piegata in funzione degli interessi di chi la introduce o dirige nella struttura dei rapporti di produzione, di manipolazione del consenso e di assoggettamento. Essa spesso conduce alla perpetuazione o all’aggravamento dei vistosi squilibri sociali ed economici dell’odierna globalizzazione, nonché al consolidamento delle rendite di potere delle oligarchie che da tale processo traggono benefici. Innovazione non è sinonimo di progresso. Urge quindi smascherare questo falso progresso e recuperare quello vero con i suoi contenuti valoriali per porlo quale orientamento delle settoriali innovazioni verso un mondo illimitatamente perfettibile di giustizia e libertà. Il saggio non è un esercizio di erudizione ma una critica progressista alle «ideologie del presente» (p. 14).

La porzione più estesa del volume (pp. 19-100) è dedicata alla storia dell’idea di progresso. E poiché l’Autore pone al centro la concezione moderna di progresso, è chiaro che le epoche precedenti non conobbero quella idea. E allora come è possibile tracciare la storia del progresso in tempi che mai furono rischiarati dai Lumi? Si rischia di leggere il passato come età che, al più, abbozzò qualche anticipazione del progresso moderno. È dubbio il metodo di giudicare epoche remote alla luce di categorie valoriali più recenti. Non che manchino studi di solido impianto dedicati al “progresso” nell’antichità (si pensi a The Ancient Concept of Progress di Eric R. Dodds, citato dall’Autore), che però non riducono l’idea a deviazione o anticipazione rispetto al modello moderno ma la studiano per se stesse. Altri autori, consapevoli che l’idea è schiettamente moderna, tralasciano i secoli anteriori. È il caso di Massimo L. Salvadori il cui saggio L’idea di progresso (2006) parte con una definizione settecentesca del progresso e ne segue le trasformazioni nei secoli XIX e XX. D’altronde Carlo Altini, studioso accorto, avverte il rischio, tant’è che il sottotitolo (Ascesa e caduta di un’idea moderna) implicitamente invita a considerare le pagine del saggio dedicata alle età premoderne solo uno schizzo del deficit di queste epoche rispetto a un’idea loro estranea.

Ai Greci e ai Romani manca «una idea normativa di progresso», una idea della storia come processo globale di «mutamento verso il meglio» (p. 20). Le due concezioni antiche della storia e del tempo si rivelano incompatibili con il progresso di accezione illuministica. L’idea che lo svolgimento storico non sia altro che un itinerario di decadenza da una originaria condizione di felicità possiede un contenuto intrinsecamente regressivo se valutata col metro illuministico e può apparire la negazione recisa dell’itinerario progressivo dal bene al meglio. Eppure essa, a ben osservarla (e come, però, l’Autore non evidenzia), rispetto al progresso risulta differente nella direzione ma non nella dinamica: l’itinerario che conduce l’uomo dal bene al male e dal male al peggio è pur sempre rettilineo: un contro-progresso. E infatti l’idea viene ripresa da de Maistre nelle Serate di San Pietroburgo per combattere più efficacemente il mito illuminista del progresso. L’altra idea è l’eterno ritorno, il ciclo cosmico degli stoici e, traslata sul piano storico-politico, «la dottrina del corso e ricorso delle costituzioni» (p. 23), la polibiana ἀνακύκλωσις. L’eterno ritorno (collegato alla concezione pessimistica di una natura umana sempre uguale a se stessa: un nesso che l’Autore tralascia) non impedisce agli antichi di elaborare «immagini parziali e settoriali del progresso» (p. 19), legate ai miglioramenti tecnici che sfidano la natura (si pensi all’uomo prometeico), ma nella cultura greca il progresso tecnico è spesso legato alla degenerazione morale e sociale.

Dell’età cristiano-medievale l’Autore apprezza essenzialmente la concezione lineare del tempo. Il cristianesimo, nel solco del giudaismo, «crea alcune condizioni basilari che caratterizzano l’idea moderna di progresso» (p. 30). La prima condizione, appunto, è la negazione del tempo ciclico; la seconda è l’affermazione del valore morale dell’uomo. Alla natura umana decaduta è data la possibilità di risollevarsi e progredire verso un perfezionamento morale che culminerà nell’altra vita. Il tempo storico del cristianesimo si orienta a un fine e si svolge linearmente, ma il progresso mondano è tenuto in conto solo se funzionale al piano escatologico. Inoltre il tempo cristiano conosce la cesura dell’incarnazione di Cristo: c’è possibilità di progresso, ma soltanto in accordo con l’autorità della Chiesa, unica legittima custode e interprete del messaggio salvifico (p. 34).

Il Rinascimento recupera dall’antichità la dimensione prometeica dell’uomo il cui sapere si fa ora attivo motore di trasformazione. Ma in omaggio ai modelli classici esso riesuma la concezione ciclica della storia. Nei Discorsi sulla prima decade di Tito Livio Machiavelli ripete da Polibio l’ἀνακύκλωσις modificandone però, come sottolinea l’Autore, senso e portata perché le incessanti variazioni da una forma di governo all’altra avvengono non deterministicamente ma «a caso»: un caso che diventa opportunità di incisive e volontaristiche trasformazioni (p. 38). E tuttavia la storia procede senza orientamento né scopo. Essa nel realistico pessimismo di Guicciardini è abissus multa (p. 44).

Solo col Seicento si assiste all’alba dell’idea moderna di progresso. Il punto di partenza del nuovo progresso sta nell’emancipazione dal passato: Francis Bacon «dichiara per la prima volta, in modo esplicito, che l’antichità non è più un modello di autorità e di saggezza» (p. 47). I progressi settoriali si accumulano, si perfezionano e formano il progresso al singolare, il cui soggetto attivo è la conoscenza e il soggetto passivo il mondo: con la conoscenza l’uomo prometeico trasforma e assoggetta la natura. La ragione si emancipa dalla tradizione e, in Hobbes, dalla natura ferina. La civiltà per Hobbes si oppone alla natura ed è frutto della volontà umana di migliorare la propria condizione esistenziale e sociale.

Il vero secolo del progresso è il Settecento: ora “progresso”, “perfezionamento” non statico ma potenzialmente illimitato del genere umano e “ragione” si sovrappongono sino a coincidere in una coerente ideologia. Le pagine dedicate al progresso illuminista (pp. 57-70) segnano il culmine del disegno storico tratteggiato da Altini e, così ci pare, lasciano trasparire l’affinità elettiva tra l’Autore e questa concezione del progresso. E se è l’opera del marchese Condorcet «a segnare l’apoteosi dell’ideologia del progresso» (p. 63), spetta tuttavia a Immanuel Kant l’onore della citazione più estesa (pp. 69-70). Meglio di altri, Kant ha saputo cogliere nell’itinerario di progresso «una dinamica intersoggettiva di tipo conflittuale» (p. 68): gli uomini, perseguendo i propri egoistici interessi e a difendendosi dagli egoismi avversi, affinano le proprie capacità razionali e i propri talenti contribuendo così al progresso generale della società.

L’Ottocento è definito anch’esso «secolo del progresso»: il progresso della borghesia industriale e dei commerci, del sapere scientifico e delle sue applicazioni tecniche. La dimensione quantitativa dei progressi introduce nuovi stili di vita e atteggiamenti mentali che hanno diretta ricaduta sulle aspirazioni politiche di settori sempre più estesi della società. L’orientamento progressista della cultura si traduce nell’elaborazione di sistemi filosofici coerenti, tra i quali l’Autore dà il giusto risalto alla filosofia della storia hegeliana. Hegel legge tutta la storia come l’eterno e progressivo dispiegamento del Geist, dove ogni epoca segna un avanzamento e le età “decadenti” contengono i germi di quelle nuove. Il positivismo di Comte elabora anch’esso una filosofia della storia di orientamento progressista, ma con una accentuata identificazione tra progresso, tecnica e industria. Va ormai affermandosi la “religione” del progresso, i cui fedeli non sono soltanto gli hegeliani e i positivisti ma anche i socialisti e Proudhon, secondo il quale il Progrès è il perpetuo cambiamento verso il meglio (p. 79). Efficace nella sintesi delle filosofie progressiste ottocentesche, l’Autore non sottolinea però la metamorfosi radicale del concetto di progresso nel XIX secolo rispetto al precedente: per gli illuministi il progresso è precario, dipende dall’uso individuale della ragione e il suo lume potrebbe spegnersi in ogni momento. Di qui la necessità di uno sforzo continuo degli uomini affinché la raison progredisca. Ma hegelismo e positivismo scoprono una legge immanente del progresso che lo rende inevitabile, pianificabile scientificamente e irreversibile. L’oggettivazione “scientifica” del progresso lo sottrae alla libertà e alla responsabilità degli individui. È dunque acuta la differenza – su cui l’Autore sorvola – tra l’ideologia liberale del progresso e quelle socialiste e positiviste fondate su pretese leggi scientifiche.

Le innovazioni tecniche e industriali della seconda metà del XIX secolo mostrano presto un altro volto, più arcigno. Ci si accorge che i meccanismi della produzione industriale e il livellamento seriale dei beni di consumo riducono gli uomini a ingranaggi e, con la massificazione dei comportamenti e delle mentalità, annientano lo spirito. Contro la tirannide delle leggi “scientifiche” del progresso si recuperano dalla cultura greca le tre idee dell’eterno ritorno, della tragicità della vita e del nesso tra innovazioni tecniche e degradazione sociale. Nietzsche è il corifèo delle prime due, Tönnies (e altri autori) della terza. Ma tutto il clima esistenziale, culturale e politico d’inizio Novecento pone in discussione l’idea del progresso finalistico e della perfettibilità umana per contrapporvi, con differenti sensibilità, il pessimismo, l’irrazionalismo, il vitalismo. Secondo Spengler (significativamente citato dall’Autore) l’Occidente, saturo di beni materiali e conquiste tecnico-scientifiche, ha smarrito l’anima che fu della Kultur e si trascina esanime ed esausto verso l’inevitabile tramonto. Max Weber, disilluso ma sobrio, delimita il progresso al solo ambito delle procedure scientifiche: il progresso «cessa di  designare la direzione della storia dell’umanità» (p. 93), e intanto totalitarismi e tecnocrazia dissolvono gli ultimi brandelli dell’idea.

La nota di chiusura dell’Autore non è però di segno pessimistico perché, come abbiamo visto all’inizio, il recupero del concetto moderno di progresso con la sua «sostanza emancipatoria, democratica, libertaria e utopica» (p. 114) è oggi nelle possibilità degli uomini: un antidoto alle innovazioni tecnocratiche a-valoriali e alla perpetuazione del presente, e al contempo una «apertura di possibilità e di cambiamento non solo tecnico-scientifico ma anche etico-politico» (p. 18).

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