Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Il Disegno di Legge n. 615 (c.d. “ddl Calderoli”, dal nome dell’odierno Ministro per gli Affari Regionali e le Autonomie) occupa oggi il centro del dibattito politico in materia di architettura costituzionale del nostro ordinamento, insieme al progetto di riforma del premierato. In realtà il ddl Calderoli, approvato in prima lettura al Senato il 23 gennaio 2024  e calendarizzato alla Camera per il prossimo aprile, è una norma di attuazione: essa stabilisce il procedimento per arrivare alla attribuzione, alle Regioni richiedenti, delle ventitré materie elencate dall’art. 117 della Costituzione[1]. Tutto il Titolo V della Costituzione (a partire dal fondamentale art. 116)[2] fu riformato, come è noto, nel lontano 2001 ma da allora non è mai stato attuato. Il protagonismo di alcune regioni (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna) e la sensibilità politica dell’attuale governo (e dello stesso ministro Calderoli) hanno restituito centralità alla tematica del regionalismo differenziato. Una tematica, però, fortemente divisiva. Solo quando la riforma sarà entrata a pieno regime (e i tempi non saranno affatto brevi) si potrà retrospettivamente esprimere una serena valutazione.

Chi scrive – sia premesso per onestà intellettuale – condivide i princìpi ispiratori della riforma, pur ravvedendo nel testo una certa macchinosità e pesantezza, probabile e inevitabile frutto di compromessi parlamentari anche interni alle forze politiche di governo. Scopo di questo breve articolo è una veloce analisi delle due principali obiezioni che solitamente si muovono alla riforma e una loro contro-obiezione sulla base dello stesso testo legislativo e su altre considerazioni fattuali. Inoltre, poiché da più parti si presenta l’autonomia differenziata come il coronamento della storica battaglia politica della Lega per il federalismo, si vedrà brevemente quanto in realtà questa riforma si inserisca nel regionalismo di sussidiarietà, molto lontano dal modello di federalismo elaborato e propugnato, ai tempi, dal “padre nobile” della  Lega Nord, ossia il politologo e senatore Gianfranco Miglio. 

***

Chi contesta in linea di principio l’autonomia differenziata muove essenzialmente due ordini di obiezioni (le altre obiezioni, più circostanziate e tecniche, sono già state in parte recepite nel passaggio del testo al Senato).

Con la prima obiezione di principio si sostiene che il regionalismo differenziato costituirebbe un vulnus al principio fondamentale dell’unitarietà non solo della finanza pubblica ma dell’intera compagine statale. Infatti, per come è strutturato il Disegno di legge Calderoli, sarebbero teoricamente possibili ben sedici Commissioni paritetiche (quante sono le Regioni a statuto ordinario) le quali nelle trattative con il governo, potrebbero condurre a esiti di autonomia molto differenziati, con una ricaduta negativa sul sistema complessivo di ripartizione delle risorse e, non ultimo, sulla stessa coesione nazionale. Ma il disegno di legge ha previsto dei correttivi, non solo a livello di declamazione di princìpi (l’art. 1 richiama il rispetto dell’unità nazionale e i princìpi di solidarietà di cui agli artt. 2 e 5 della Costituzione;) ma anche di “attivismo” centralista (art. 7: «lo Stato, qualora ricorrano motivate ragioni a tutela della coesione e della solidarietà sociale, conseguenti alla mancata osservanza  […] dell’obbligo di garantire i Livelli Essenziali di Prestazione, dispone la cessazione integrale o parziale dell’intesa»). L’art. 7 attribuisce dunque allo Stato (rectius: al governo) degli spazi di manovra molto estesi e potenzialmente idonei ad annichilire ogni velleità di autonomismo che si spingesse oltre una certa soglia. Ma anche l’art. 9 del disegno di legge prevede paletti stringenti all’autonomia («Per le singole Regioni che non siano parte delle intese è garantita l’invarianza finanziaria […] Le intese non possono pregiudicare l’entità e la proporzionalità delle risorse destinate a ciascuna delle altre Regioni […] È comunque garantita la perequazione per i territori con minore capacità fiscale per abitante»).

Insomma, le accuse al ddl Calderoli di incrinare l’unità nazionale sembrano un processo alle intenzioni più che una critica argomentata del testo legislativo. L’art. 116 della Costituzione esisteva già da prima della normativa di attuazione (dal sapore spiccatamente procedurale): se si muovono obiezioni di principio al disegno di legge, altrettanto bisognerebbe fare con la norma di rango costituzionale, che di queste procedure di attuazione costituisce il presupposto logico, giuridico e politico.

L’altra obiezione di principio attiene alla mancata previsione di un generale fondo perequativo; sussiste il timore che le diseguaglianze tra aree ricche e aree povere del Paese si accentuino; sussiste in definitiva il timore che il regionalismo differenziato, pur previsto dalla costituzione, conosca una attuazione contraria al principio di uguaglianza, anch’esso di rango costituzionale. Il disegno di legge però prevede una complessa procedura prima che si addivenga alla effettiva attribuzione di funzioni alle singole regioni richiedenti e, soprattutto, prevede la previa fissazione dei Livelli Essenziali di Prestazione (LEP), il cui calcolo, nelle intenzioni del legislatore, sarà accurato. È poi vero che la riforma non contempla l’istituzione di un fondo di perequazione, ma qui dobbiamo interrogare la storia e l’attualità dell’Italia repubblicana. Una forma di perequazione esiste già ed è attiva da oltre settant’anni e si chiama residuo fiscale: un drenaggio costante di gettito fiscale da alcune regioni ordinarie (Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Toscana) a vantaggio dello Stato centrale. Ogni anno, secondo le stime più accurate, la Lombardia versa al fisco cinquantaquattro miliardi di euro in più rispetto a quanto riceve dallo Stato centrale sotto forma di servizi, infrastrutture, etc. Altro “fondo di perequazione” che ha segnato la nostra storia finanziaria per decenni si chiamava “Cassa per il Mezzogiorno”. Istituita con le migliori intenzioni nel 1950 essa rimase attiva sino al 1984: enorme drenaggio di risorse senza risultati apprezzabili[3]. Attualmente sono invece attivi in Italia i fondi di sviluppo e coesione europei, quasi tutti destinati al Mezzogiorno; così come dal piano di perequazione infrastrutturale per il Sud è previsto per il prossimo decennio un flusso di circa cinque miliardi di euro. E gli esempi potrebbero continuare. Quel che invece si intende perseguire con l’autonomia differenziata è una gestione diretta sul territorio – per certe materie –  di una frazione (non tutto) del gettito dei tributi erariali maturati grazie al lavoro dei ceti produttivi di quel dato territorio, senza passare per il governo centrale. Come si vede, si tratta non di due tecniche ma proprio di due differenti visioni di principio dell’impiego della finanza pubblica in relazione al territorio.

***

L’autonomia differenziata, così come concepita dal titolo V della Costituzione e dal ddl Calderoli, presuppone la vigenza del principio di sussidiarietà. Questo principio, esplicitamente richiamato nei trattati europei e in Costituzione (art. 118)[4], può notoriamente vantare una lunga storia ma si presta a equivoci e fraintendimenti. Esso infatti varia significativamente a seconda delle accezioni: verticale o orizzontale. La sussidiarietà verticale riconosce una articolazione molteplice di livelli di governo su un dato territorio e stabilisce che il livello più alto intervenga solo dove e quando il livello inferiore non possieda le competenze, i mezzi, la capacità e più in generale la forza per governare efficacemente. E così, avremo una ripartizione di competenze, nel caso italiano, tra Comuni, Province, Regioni e Stato centrale. La sussidiarietà verticale, un principio cardine di ispirazione cristiana che contrassegna la storia dell’Europa moderna, ha comportato una valorizzazione degli organismi di governo di prossimità, cioè delle strutture di articolazione del potere pubblico e amministrativo più vicine alle specificità del territorio e alle esigenze immediate dei cittadini, ma pur sempre col tacito riconoscimento della supremazia del livello di governo superiore.

Se dunque  la sussidiarietà verticale si muove all’interno della gerarchia delle istituzioni pubblicistiche, la sussidiarietà orizzontale, anch’essa di matrice cattolica e più volte ribadita nelle Encicliche (dalla Rerum Novarum del 1891 alla Centesimus Annus del 1991), trova il suo senso specifico in opposizione alle strutture di potere pubblico (in primis lo Stato) e alle loro pretese di egemonia. Essa esprime una opzione preferenziale per i gruppi sociali spontanei e organizzati, per i privati cittadini, per i liberi imprenditori, per tutti coloro cioè che dimostrano di poter assolvere autonomamente a funzioni sociali (anche di rilevante interesse come la scuola, l’associazionismo sportivo, l’associazionismo religioso, la sanità, il mondo del no profit etc) meglio di quanto sia capace lo Stato con la sua burocrazia. Solidarismo cattolico e antistatalismo liberale trovano storicamente un terreno comune nella difesa e promozione della sussidiarietà orizzontale.

Tornando all’autonomia differenziata, è chiaro quanto essa sia ascrivibile alla sussidiarietà verticale e cioè quanto essa – concettualmente – non sia altro che una modalità di decentramento più o meno spinto di funzioni e competenze. Gianfranco Miglio, da scienziato della politica, non l’avrebbe apprezzata, così come egli mai apprezzò la sussidiarietà verticale («chi ha il potere di sussidiarsi nei confronti di un livello di governo inferiore è titolare a tutti gli effetti delle competenze: la sussidiarietà non ha nulla di federale»[5]). Ma il Gianfranco Miglio studioso e propugnatore del realismo politico probabilmente avrebbe finito per appoggiare questo tentativo di autonomia. Un compromesso al ribasso, per quanti ancora oggi auspicano un’Italia federale, ma l’unico concretamente perseguibile, dato l’attuale contesto politico. Un compromesso che, se gestito bene, potrebbe davvero assicurare un recupero di efficienza e di responsabilità delle classi politiche regionali e al contempo riavvicinare i cittadini alla res publica e pungolarli in una vigile attività di controllo su come le risorse e il gettito fiscale debbano tradursi in opere e servizi per il territorio di prossimità. Un primo passo verso l’efficace autogoverno locale, autentico sale della democrazia vissuta e partecipata.

NOTE

[1] Tra queste materie ricordiamo: tutela e sicurezza del lavoro; tutela della salute; istruzione; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto; valorizzazione dei beni culturali e ambientali; etc.

[2] Al terzo comma l’art. 116 stabilisce: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».

[3] Una storia complessiva sine ira et studio della Cassa per il Mezzogiorno, la sua gestione politica, la sua burocrazia, i suoi risultati e le sue ricadute sulla società meridionale è ancora tutta da scrivere.

[4] «Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base di princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza». 

[5] G. Miglio – A. Barbera, Federalismo e secessione. Un dialogo, Editoriale Libero, Milano 2008, p. 99.

Loading