Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

«Lo Stato liberale, secolarizzato, vive di presupposti che esso di per sé non può garantire». Incisiva come un epigramma, questa notissima affermazione è argomentata dal suo autore, Ernst-Wolfgang Böckenförde (1930-2019), in un magistrale e ormai classico intervento del 1967[1]. Böckenförde, giurista di formazione cattolica, accademico, già membro della Corte Costituzionale federale, è stato anche un apprezzato consigliere del Cardinal Ratzinger e poi del Pontefice Benedetto XVI. Il confronto pubblico del 2004 tra Ratzinger e Jürgen Habermas sui fondamenti dello Stato liberale e, negli anni seguenti, i dibattiti e le schermaglie intellettuali sulle radici cristiane da richiamare o no nell’auspicata Costituzione europea debbono moltissimo alle tesi di Böckenförde.

In questa sede affrontiamo tuttavia altri profili del percorso giuridico e intellettuale di Böckenförde, meno noti forse ma di significativo spessore e, soprattutto, spendibili nell’interpretazione del mondo presente: ci riferiamo all’insistenza del Nostro sull’autonomia della politica nel mondo della secolarizzazione liberaldemocratica, in un confronto continuo con Carl Schmitt. L’occasione ci è offerta dalla raccolta di alcuni fondamentali saggi di Böckenförde tradotti per i tipi di Laterza a cura di Geminello Preterossi[2] .

Attento interprete del pensiero di Carl Schmitt, Böckenförde  partecipa attivamente e con originali contributi alla Renaissance del grande giurista di Plettenberg. Uno di tali contributi risale al 1988 e compare nel volume citato, e già dal titolo (Il concetto di «politico» come chiave per intendere l’opera giuspubblicistica di C.S.) si evince la sostanza ermeneutica proposta. Nello Stato schmittiano, scrive Böckenförde, si manifesta l’unità politica di un popolo ma al contempo la costituzione, nello Stato di diritto, è largamente “non-politica”. Quali concetti veicolano queste a prima vista enigmatiche espressioni nella complessa cattedrale giuspubblicistica di Schmitt? Quando il popolo si fa unità politica nello Stato, ciò significa che il concetto di politico (Begriff des Politischen), il cui presupposto è l’aggregazione e contrapposizione dei gruppi lungo la linea amico-nemico, è presente anche dentro la compagine giuridico-costituzionale dello Stato. Questa compagine abbraccia, include e disciplina il Begriff politico e i suoi impliciti e sempre latenti conflitti. La politica interna nel quadro della sovranità statale resta appunto “politica” nel senso che la contrapposizione amico-nemico non scompare ma, proprio perché disciplinata nell’unità relativamente omogenea di un popolo, non perviene all’estrema intensità del conflitto armato, ossia alla guerra civile. Lo si vede bene quando, come fa Böckenförde, si legge il concetto di sovranità col filtro del Begriff des Politischen. Il soggetto titolare di sovranità, nel momento in cui assume una decisione sullo stato d’eccezione supera i conflitti e le tensioni interne (tensioni sempre implicite e talvolta esplicite) e imprime una direzione alla vita activa dello Stato. In altri termini la sovranità, sul piano interno, presuppone i conflitti intrinseci del “politico” e ne attua il superamento. Sul piano esterno, ossia in relazione alle sovranità straniere,  la contrapposizione è in re ipsa; ma quando, tornando sul piano interno, si pongono limiti alla pienezza della sovranità statuale, quando le si impedisce di operare con efficacia o la si annacqua nelle procedure democratiche o amministrative in senso lato (si pensi alla democrazia kelseniana), in realtà non si fa altro che trasferire da un titolare a un altro il potere sovrano, che in sé è indistruttibile così come ineludibile resta la decisione sovrana sullo stato di eccezione.

Eppure viviamo oggi in Stati di diritto che si reggono su costituzioni liberaldemocratiche e che riconoscono spazi immensi al “non-politico”. Il punto su cui Böckenförde senz’altro dissente da Schmitt e ne prende le distanze attiene al momento genetico della costituzione. Böckenförde, giurista cristiano democratico, ammette che una costituzione politica nel farsi giuridica possa trovare origine anche in un patto esplicito o implicito tra i cittadini, attori protagonisti di una realtà sociale intrìsa sì di “politico” (cioè di contrapposizioni tra amici e nemici) ma relativamente omogenea e dunque tale da attenuare e addomesticare quelle contrapposizioni. Schmitt invece non concepisce la natura pattizia di una costituzione, se non sul lato esterno quale accordo tra unità politiche differenti e già sovrane (per esempio il patto inter-statuale nelle costituzioni federali elvetica e statunitense). Ma verso l’interno la costituzione si pone quale decisione suprema sulle caratteristiche e sul funzionamento dell’unità politica di un popolo. Essa, a maggior ragione quando viene cristallizzata in un testo normativo, è il frutto di una deliberazione del titolare ultimo del potere sovrano. Contraente, secondo questa prospettiva tipicamente schmittiana, può dirsi solo chi già possiede la sostanza di soggetto sovrano. Ma dentro lo Stato, unità politica di popolo, non esistono  (o non dovrebbero esistere) soggetti sovrani plurali.

Chiarita questa differenza concettuale tra Schmitt e il suo interprete, resta da chiedersi perché la costituzione di uno Stato di diritto si caratterizzi, secondo Schmitt, per la sua natura non-politica. Con le garanzie costituzionali dello Stato di diritto si designano essenzialmente le procedure di bilanciamento e di freno del potere, da un lato, e il sistema dei diritti e delle libertà individuali e sociali della sfera privata, dall’altro. Orbene, tutto ciò che conduce nella direzione opposta al “politico” (ossia tutto ciò che si oppone alla contrapposizione peraltro ineliminabile di amico/nemico o che ne attenua il grado di intensità) rientra per Schmitt nella porzione non-politica della costituzione: procedure e neutralizzazioni per opposti bilanciamenti del momento decisionale; i diritti individualistici di libertà pre-statuali, compresa la libertà economica e d’iniziativa, etc. Insomma, il core business dello Stato costituzionale liberale non rientrerebbe, secondo questa concezione, nel concetto di “politico” e, per conseguenza, resterebbe estraneo alla sfera pubblica e allo stesso diritto costituzionale politico (quest’ultimo da intendersi quale «diritto che determina particolarmente l’unità politica nella sua capacità di agire», p. 127).

Idee acute ma controverse e problematiche, quelle di Schmitt sottoposte a raffinata critica da parte di Böckenförde. E tuttavia idee attualissime, grazie alle quali è possibile gettare una luce cruda e impietosa sulle dinamiche del potere esterne (almeno formalmente) ai centri politici decisionali ufficiali. Böckenförde valorizza la proposta interpretativa schmittiana sulla teorica “non –politicità” di ampi segmenti dell’odierno Stato di diritto e, seppur implicitamente, la utilizza per offrire una lettura critica del processo di integrazione europea che ha condotto a Maastricht e alla lunga stagione del dopo Maastricht nella quale ancora viviamo. Schmitt aveva visto nella sfera costituzionale non-politica, ossia nella sfera delle libertà e degli interessi privati, una minaccia di dissoluzione della sfera politica. Le libertà private, soprattutto quelle dei grandi gruppi organizzati e delle consorterie dei comparti tecnici e degli apparati produttivi, potrebbero ridurre la politica a «strumento di autoespansione sociale e privata», e condurre alla frammentazione anarchica o, più plausibilmente, all’emersione di potestates indirette (potentati economici, lobbies, etc). Tali potestates a loro volta, approfittando dei notevoli spazi di manovra offerti dalle neutrali e non-politiche garanzie costituzionali dello Stato di diritto, potrebbero occupare surrettiziamente lo spazio politico e condizionare, orientare o anche esautorare (nella sostanza più che nella forma) il titolare della sovranità.

Ed è ciò che, almeno in parte, è avvenuto nel corso del pluridecennale processo di integrazione europea e che si è accentuato nell’Unione Europea di Maastricht. A questa cruciale problematica Böckenförde dedica due densi saggi contenuti nel volume (Dove sta andando l’Europa?; Il futuro dell’autonomia politica, pp. 171-226). I contributi risalgono al 1997-98 ma si mantengono freschi e attualissimi perché i limiti e i rischi di involuzioni tecnocratiche e l’attacco apparentemente “non-politico” all’autonomia della politica, dall’autore magistralmente delineati e commentati, si perpetuano sino ad oggi.

Dopo il fallimento della CED (1954) la storia dell’integrazione europea sino al trattato del 1992 è coincisa con la graduale sottrazione delle quattro fondamentali libertà di mercato alle competenze degli Stati democratici nazionali, sino a pervenire a una scissione tra economia “pura” e economie sociali. L’economia “pura”, autoregolamentatasi al di fuori del quadro politico delle sovranità statali e quindi sovrana di se stessa, ha ricevuto nuovi impulsi negli anni Novanta. Col trasferimento della sovranità monetaria dagli Stati alla BCE si è ulteriormente allargata la frattura tra il momento propriamente politico (il meccanismo decisionale democratico) e la sfera delle libertà economiche e delle scelte di politica monetaria. La BCE, organo tecnocratico sottratto al controllo e all’investitura politici[3], persegue una politica di mantenimento dei prezzi e di controllo dell’inflazione;  il sostegno alla politica economica generale dell’UE e dei singoli Stati componenti resta una mera eventualità, e comunque sempre subordinata al soddisfacimento del primario obiettivo. Dunque un organo tecnico, “non-politico”, concepito sul terreno della non-politica libertà di mercato e a essa funzionale, che però già nel 1997 (e a maggior ragione oggi) si poneva quale soggetto informalmente ma sostanzialmente titolare della sovranità (o di porzioni qualificanti della stessa). Si rammenti la lezione di Schmitt: dissolvimento della sfera pubblica a opera di comparti produttivi (o, come qui, tecnocratici) teoricamente esterni ed estranei alla linea concettuale del “politico”; e l’altra lezione: indistruttibilità della sovranità, che nel caso dell’UE è migrata dalle tradizionali sedi politiche statali a enti burocratici di nuovo conio e dalle opache logiche di potere.

Ma anche l’altro spazio non-politico par excellence, quello dei diritti individualistici pre-statuali, si è dilatato sempre più, con diritti individuali omnipervasivi e autocentrati. L’individualizzazione, che Böckenförde associa alla globalizzazione e di cui l’europeizzazione costituisce una specificazione regionale, ha frantumato dall’interno le comunità di appartenenza e ha assoggettato a corrosiva critica i consueti fattori di omogeneità (costumi, tradizioni, mentalità, fedi religiose, radicamenti territoriali etc) delle comunità statali. L’estremo individualismo dei diritti umani sta smantellando «la forza unificante» della società mentre il processo di globalizzazione getta i cittadini in un anonimo mercato mondiale.

Riaffermare il “politico” sul “non-politico” significa per Böckenförde non già negare i diritti autocentrati sugli individui ma riconoscere proprio agli individui titolari di quei diritti anche il diritto ulteriore di far parte di una comunità specifica, peculiare, storica: un diritto alla Patria, dove il primato della sfera politica venga serenamente riconosciuto  e si sappia chiaramente dove risiede la sovranità e chi ne siano i soggetti titolari. Poiché auspicava e per certi versi teorizzava (sulla scorta del Begriff des Politischen schmittiano) una controtendenza nel processo di globalizzazione e una lotta per il ristabilimento del primato della politica (si era nel 1997), Böckenförde parve a molti un pensatore prigioniero del passato. Giudichi il lettore se quest’ultimo quarto di secolo abbia confermato o smentito le analisi e i timori dell’illustre giuspubblicista tedesco.  

NOTE

[1] Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation, tradotto in numerose lingue (in italiano: La nascita dello Stato come processo di secolarizzazione).

[2] Ernst-Wolfgang Böckenförde,  Diritto e secolarizzazione. Dallo Stato moderno all’Europa unita, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2010.

[3] La «catena di legittimazione» politica della BCE e degli altri organi comunitari «è troppo mediata, rimane troppo astratta» per poter soddisfare i requisiti minimi della procedura democratica (cfr. p. 193).

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