Avvocato

Avvocato e dottore in Scienze storiche. Ha al suo attivo pubblicazioni sul federalismo ("Le origini del federalismo: il Covenant”, 1996; "Il sacro contratto. Studio sulle origini del federalismo nordamericano", 1999). Ha inoltre pubblicato "Sovranità. Teologia e sacro alle origini di una categoria politica" (2015); "Il regime alimentare dei monaci nell'alto medio evo” (2017), “Paura e Rivoluzione francese nell’opera di Guglielmo Ferrero” (2021). Inoltre ha curato la riedizione del volume di Guglielmo Ferrero "Palingenesi di Roma antica” (2019). E' autore di articoli e relatore in convegni di studio.

Recensione a
A. Weale, Il mito della volontà popolare 
Luiss University Press, Roma 2020, pp. 122, €14,50.

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«Lo scopo principale per cui ho scritto questo libro è di convincere il lettore che la volontà del popolo è un mito», «la volontà del popolo non esiste» (p. 20). Così esordisce l’Autore, Albert Weale, politologo già professore all’University College of London. Il breve saggio pubblicato nel 2018, e oggi edito in traduzione italiana, non presenta contenuti di originalità e d’altronde non accampa pretese di rigoroso approccio scientifico. Assume invece, a volte volutamente e altre no, stili e toni da pamphlet e prende essenzialmente di mira l’esito (infausto, secondo l’Autore) del referendum sulla Brexit del 2016 e sulle conseguenze della scelta dell’elettorato (o del “popolo”) britannico nel biennio successivo. Il “nemico” di cui Weale desidera smascherare miti e storture ideologiche è naturalmente il populismo contemporaneo nato del mondo della globalizzazione e che, proprio con la vittoria nel referendum sulla Brexit, ha conseguito una clamorosa vittoria. Mito fondante del populismo, secondo Weale, è l’appello diretto al “popolo”, a un popolo che negli odierni movimenti populisti assume una connotazione omnipervasiva e dai contorni quasi mistici: il “popolo” quale realtà vivente con e oltre i singoli individui che lo compongono. A ben vedere il concetto e la prassi di popolo, misticamente e organicamente inteso, non nasce affatto con i populismi ma vanta una storia plurisecolare e illustri padri nella filosofia politica occidentale.

Senza poterci in questa sede addentrare in eccessivi dettagli e senza risalire troppo addietro nel tempo, il concetto di popolo che Weale attribuisce ai populisti d’oggi e considera una mistificazione della complessità del reale si ritrova già formato nelle sue linee essenziali in Jules Michelet, lo storiografo romantico e democratico della Rivoluzione francese. Il suo celebre Peuple (apparso nel 1846) scolpisce con plastica maestrìa (ma con mediocre rigore concettuale) il popolo comunitario, vivo, pulsante e senziente, consapevole di se stesso e che con slancio rivoluzionario, senza intermediazioni, ribalta le strutture sociali e di potere che per secoli lo avevano asservito. Questo popolo vivente, romanticamente inteso, attraversa l’età liberale (fiancheggiandone talune esperienze politiche) e si impone talvolta – almeno a livello teorico-formale – nei regimi plebiscitari (Napoleone III) e irrompe con straripante energia nel XX secolo, quando con la “ribellione delle masse” esso si salda alle ideologie e ai regimi totalitari, scandendo ben presto al ruolo di passivo strumento di questi.

La diffidenza dell’Autore per il potere di massa si mantiene saldamente entro la cornice della democrazia parlamentare nei cui confronti Weale nutre una fiducia sincera, seppure espressa con sobrietà e realismo. Se il popolo (quale soggetto unitario) non esiste perché esistono gli innumerevoli cittadini nelle loro irriducibili preferenze e opzioni individuali, allora la democrazia non potrà che declinarsi come governo della coesistenza delle plurime volontà e sovranità compatibili: l’enfasi viene posta non sul momento ideologico (finzione della sovranità popolare una e indivisibile), ma su quello tecnico-procedurale della formazione e gestione dei processi decisionali. L’interposizione dei meccanismi procedurali (parlamentari, costituzionali, amministrativi e giudiziari) tra il “popolo” (inteso quale sommatoria di individui-monadi) e il momento deliberativo e decisionale assume una centralità essenziale nelle democrazie “senza illusioni” e senza miti (cfr. il cap. 7).

Il fugace riferimento che l’Autore riserva alle critiche elitiste della democrazia (viene citato Schumpeter, ma è implicito il richiamo alle tesi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto) non ci pare soddisfacente. La letteratura elitista, peggiorativamente etichettata “di destra” o conservatrice, sarebbe troppo pessimista circa il funzionamento della democrazia parlamentare. Condivisibili per quanto attiene alla diffidenza nei confronti del popolo-massa, le tesi dell’elitismo (ma sarebbe meglio definirlo: realismo politico) risulterebbero invece fallaci nel loro antiparlamentarismo. Le premesse da cui muove Weale («non si realizza nulla di buono affermando che tutti i problemi possono essere risolti appellandosi alla volontà del popolo», scrive a pag. 100) possono anche condividersi, ma a nostro avviso non può dirsi altrettanto per le conclusioni cui egli perviene, ossia la fiducia nelle procedure legali e costituzionali dell’iter legislativo e deliberativo vigenti nelle democrazie rappresentative. L’approccio dell’Autore suona troppo formalistico: esso dà per scontato che il cittadino-monade (che mai si annulla in quel monstrum ideologico e fittizio che è il “popolo”) possa adeguatamente formarsi opinioni politiche e demandare alle procedure di formazione delle leggi e delle maggioranze assembleari la realizzazione concreta di tali opinioni (beninteso, insieme con opinioni affini espresse da altri milioni di cittadini-monadi).

Quel che forse l’Autore non pone adeguatamente in risalto (e che invece resta merito della letteratura dell’elitismo, e in particolare di Mosca e Pareto, avere ben lumeggiato, e che è stato ripreso oggi in chiave di polemica politica proprio dai partiti populisti) è la denuncia di un’altra demistificazione: se la volontà popolare è un mito, lo è anche la neutralità dei meccanismi procedurali di mediazione tra cittadini e scelte politiche. Tra la platea immensa dei cittadini-monadi e il funzionamento della macchina parlamentare, deliberativa e amministrativa si interpone un ben preciso ceto: quella “classe politica”, quei quadri politico-burocratico-amministrativi (e finanziari) così magistralmente descritti già nel 1896 dall’autore degli Elementi di scienza politica e che rappresentano una costante nella storia delle società politicamente organizzate, comprese le società organizzate in senso democratico. La classe politica (da intendersi in senso lato) fa parte a sé, si contrappone alla platea dei cittadini-monadi e modella o piega in funzione dei propri interessi e progetti i meccanismi procedurali delle democrazie rappresentative. Weale avverte l’impellente esigenza di preservare il funzionamento della “macchina” democratica dallo straripamento degli impulsi elementari e semplificatori di un “popolo” abilmente orchestrato dai demagoghi, ma non si avvede che proprio quella macchina è diventata troppo spesso lo strumento di conservazione del potere di ben determinate classi politiche (le oligarchie e le élites contro cui tuonano i populisti).  Sotto questa angolazione il referendum sula Brexit è esemplare: non un popolo mistico o ideologico, ma una pluralità di individui, risultata numericamente più numerosa rispetto alla pluralità degli individui favorevoli al remain, ha espresso un indirizzo di fondo della politica britannica. Ma buona parte del ceto politico (e anche giudiziario) che controlla i meccanismi procedurali della democrazia rappresentativa, anziché individuare le forme e le modalità giuridiche più consone a tradurre in realtà l’indirizzo politico indicato dal referendum, ha cercato di frustrarlo, dilazionarlo, diluirlo il più possibile. Un caso da manuale di scollamento tra le forme procedurali democratiche (appannaggio dell’élite al potere) e la sostanza politica democratica (appannaggio del popolo-mito o del popolo-sommatoria-di individui).

Corollario della critica al mito della volontà popolare è la definizione della sovranità proposta dall’Autore: non potere del popolo bensì «facoltà di determinare le scelte sul contenuto e sugli effetti di un insieme di leggi» (p. 69) I cittadini, pare di comprendere, non sono pieni titolari dei diritti connessi all’esercizio della sovranità; essi semmai si limitano «a partecipare ai processi politici attraverso i quali si emanano leggi e vengono prese decisioni politiche» (p. 70), col che non si chiarisce dove o presso chi risieda la sovranità politica. La definizione proposta da Weale lascerebbe intuire che la «facoltà» di decidere contenuti ed effetti delle leggi appartenga in ultima istanza a un corpo politico non necessariamente emanazione del corpo elettorale o da questo vincolato. Il che, esclusa l’opzione oligarchica o di classe politica (non gradita all’Autore), porta ad identificare il depositario della sovranità con la macchina stessa del funzionamento democratico, con l’ordinarietà della procedura. Conclusione prettamente kelseniana. Ma chi deciderà allora, schmittianamente, sullo stato d’eccezione?

La parte più interessante – e condivisibile – del saggio ci pare il capitolo IV (La maggioranza approva?), non particolarmente originale ma utile a chiarire quanto varia, composita e empiricamente problematica sia la nozione di “maggioranza” applicata alle società democratiche: pagine scritte con uno stile piano e discorsivo e che ci ricordano, contro i miti plebiscitari di ogni colore politico, quanto sia pericolosa l’illusione di «giungere a una singola volontà a partire da un gruppo di persone eterogeneo» (p. 65).

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