Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II di Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jaspers e Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.

The evil doesn’t exist di Hamaguchi inizia con un lentissimo movimento di macchina. Lo sguardo della mdp sale in alto, seguendo i rami spogli del bosco. Questo groviglio fittissimo serba da subito l’impronta di una significazione ulteriore, da spazio fisico si trasfonde, negli occhi di chi guarda, in spazio interiore. La ramificazione della natura, pur stagliandosi a debita distanza, sembra quasi il prolungamento di una ramificazione interiore, di un groviglio da sciogliere. La distanza è già prossimità, tradimento di ogni presunta oggettivazione asettica del reale. I nervi della natura si intrecciano ai nervi dell’uomo, del suo sguardo. Fin dall’incipit il carattere prosastico delle opere precedenti è sostituito da una perentorietà poetica che rimembra la stessa concisa incisività delle Haiku della tradizione giapponese. Un’analogia questa non del tutto peregrina, dal momento che l’immaginario estetico delle haiku è la natura, il significato originario scolpito nel Kanji di shizen 自然. La Natura non solo è piena di dèi, come predica la tradizione shintoista che costituisce lo sfondo spirituale primigenio del Giappone, ma essa è più originaria dei Kami stessi, di ogni potenza creatrice. Essa non è né questo né quel Kami, ma la spontaneità generativa che sorge dal proprio seno nutrendo ogni ente in maniera del tutto distaccata, affrancandosi da ogni potere di oggettivazione. La mdp di Hamaguchi, dunque, non è solo lo sguardo dell’uomo su shizen, ma è shizen che guarda attraverso la singolarità dello sguardo estetico. Anche quando scivola sulla figura di Takumi, il protagonista, che si staglia nel bianco di un paesaggio totalmente incontaminato dal candore invernale, non sembra essere lo sguardo di un narratore esterno alla vicenda, ma lo sguardo della natura che diviene trasparente a se stessa. Questo sguardo sub specie aeternitatis è una sintesi vivente tra singolarità e universalità, fra partecipazione e distacco. È la sistole-diastole di ogni esperienza, non solo dell’esperienza estetica. È questo sostrato trascendentale del vedere che si dirige Hamaguchi, a questa chòra di matrice platonica, origine attualizzantesi di ogni fenomeno. Hana, la figlia di Takumi, la cui afasia è indice di quel silenzio originario a monte di ogni sguardo, si presenta come l’incarnazione di una creatura che vive totalmente in simbiosi con l’originarietà della natura, col suo fluire innocente. Il suo nome è, in questa prospettiva, un nome rivelativo, un nome che reca in sé l’intreccio di singolare e universale. Hana, nella lingua-pensiero giapponese, come è noto, indica i fiori, la fragilità della loro infondata bellezza. Una fragilità, dunque, che non è contrassegno psicologico, ma proprietà ontologica di un essere insidiato perpetuamente dai graffi del niente.

La vicenda centrale della narrazione è una sorta di mcguffin diffuso. L’incontro/scontro tra gli abitanti di Mizubiki, paesino poco distante da Tokyo, e l’agenzia dello Showbusiness che vuole costruire una struttura di glamping (crasi tra glamour e camping), sposta la narrazione sul conflitto tra la natura e la tecnica, fra la comunità che vive assecondando i ritmi naturali e la piovra tecno-capitalistica che di quei ritmi rappresenta la distruzione. Allora il male evocato dal titolo sembrerebbe riproporsi all’insegna del dualismo fra l’innocenza della natura e la potenza luciferina della tecnica. In questo senso, il male si identifica con l’antropocene, con l’uomo che ha reificato la natura, deformandola e conformandola alle proprie esigenze. Ma il male di cui è artefice la tecnicizzazione umana della natura è possibile solo se non è avvertito come tale: il male è sentito come male solo da chi lo subisce, dagli abitanti di Mizubiki. Il capitalismo non vede il proprio male, la subordinazione della natura al fine del profitto economico.

Eppure, come dicevamo, questo tratto sociopolitico è solo lo strato più epidermico di una pellicola che, col suo ritmo compassato, si dirige verso altri territori concettuali. Quando Takahasi, uno degli agenti del progetto, tenta di stringere amicizia con Takumi, partecipando alla sua vita nei boschi, cimentandosi goffamente con il taglio della legna, ci muoviamo ancora in questo strato. Ciò che il regista tenta di indicarci è che ognuno agisce a partire da una lente ideologica. Questa lente decade quando ci incontriamo al di là delle nostre differenze, quando decadono i ruoli che ci oppongono, che ci mettono l’uno contro l’altro.

Ma il film procede inesorabile verso il suo climax, verso il suo capovolgimento decisivo, attraverso un uso del sonoro di matrice godardiana. Un sonoro che agisce, come suggerisce Giuseppe Gangi, proprio come la parola che taglia dell’haiku, la parola continua e discontinua, capace di cucirsi alle precedenti solo scucendo, tagliando. La musica che interrompe il suono abissale della natura è il segno di un male che non appartiene soltanto alla vertigine della libertà umana.

Lo sparo, la ricerca affannosa di Hana, ci scaraventano nel gorgo dell’assurdo. Quando, con Takumi, incrociamo il suo sguardo, in fin di vita, è come se vedessimo lo sguardo stesso della natura, la sua innocenza macchiata dal sangue, da un sangue di cui l’uomo non è creatore ma co-creatore. Hana, il cui sguardo sovente scavalca la quarta parete e ci scruta, è il simbolo della sacralità e della fragilità del bene in un mondo drammaticamente segnato dal mysterium iniquitatis. Come lo sguardo di Kozue Tamura in Eureka è uno sguardo destinato all’immortalità cinematografica. Col suo eloquente silenzio ci interroga, ci interpella. La sua purezza apre uno squarcio sull’abisso del male.

Il contro-plongeé, speculare a quello iniziale, non è un vezzo estetico, il tentativo di riprodurre una spirale narrativa. È la forma-sostanza di un’opera assoluta. Il respiro affannoso di Takumi, il sonoro che ritorna col suo fragore, i nervi degli alberi che si intrecciano nella notte, formano un groviglio inestricabile, indicano lo iato, incolmabile, fra il basso della condizione umana e l’alto impenetrabile della natura. Il respiro affannoso di Takumi, ormai fuori campo, nell’irrappresentabile del dolore, ci riportano al senso autentico del titolo. Il male non esiste né per chi crede nella divinità della natura né per chi crede nella sua assurda reificazione. Il male è fare finta che non esista, non allargare lo sguardo sulla sua ontologicità, sulla sua radicalità. Questa radice del male, come il respiro di Takumi, è inoggettivabile, indicibile. In questo senso non esiste, ma insiste, resta dentro, nei nervi degli alberi che guardano dall’alto la nostra sventura, che guardano la propria sventura nella nostra.

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