Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.

La filosofia di Arthur Schopenhauer non vuole essere soltanto una riflessione sulle condizioni di possibilità della conoscenza fenomenica, pur inserendosi chiaramente all’interno dell’impostazione trascendentale aperta da Kant, ma pretende di essere, in accordo con lo spirito autentico del filosofare di ogni tempo, una filosofia che trova il suo naturale approdo nell’acquisto di una rinnovata saggezza, di uno stile di vita nuovo, nella quale possa rilucere l’unità profonda di teoria e prassi.

Nell’ultimo libro che compone la sua opera capitale, Il mondo come volontà e rappresentazione, il filosofo di Danzica tratteggia i lineamenti di un sapere soterico, il quale, ricalcando le linee fondamentali della mistica occidentale e orientale, si propone di liberare il singolo dal fardello del dolore che grava sull’intera esistenza. Tale liberazione può avvenire solo se si trascende la voluntas, la sua sete inestinguibile che produce quell’attaccamento al proprio io che i mistici tedeschi chiamano Eigenschaft, appropriatività: la volontà del soggetto di ricondurre tutto a sé.

Il compito dell’uomo verace, del filosofo, è quello di rivolgere lo sguardo su se stessi e di riconoscere, in questa torsione riflessiva, di essere solo una manifestazione particolare della voluntas. La conoscenza che spetta all’uomo non concerne l’essenza del mondo. La voluntas non è l’assoluto, l’essenza separata dal fenomeno, ma l’essenza della vita in rapporto al fenomeno, allo sguardo dell’uomo. In quanto fenomeno della voluntas l’uomo è totalmente avvinto dal duro giogo della necessità. Siffatta durezza s’incarna nella perpetua emergenza del desiderio e nella insoddisfazione che necessariamente s’intreccia ad esso. In accordo con Leopardi, il filosofo tedesco crede che il desiderio sia infinito e che ogni oggetto verso il quale tende non possa mai placarlo. Ogni desiderio soddisfatto, come la tesa di Indra, l’animale mitologico che lo simbolizza, viene sostituito da un altro, generando una spirale infinita di privazione e frustrazione.

Si può dire che il destino dell’uomo, dell’uomo che aderisce interamente al suo desiderio – alla sua volontà di piacere, per dirla con Freud –, è quello di rimanere prigioniero della sua angusta individualità, del suo insopprimibile egoismo, sempre in preda al disperante bisogno di soddisfare solo le proprie pulsioni, entrando, se lo ritiene necessario, in conflitto con gli altri, anch’essi animati dal bisogno di soddisfare il proprio conatus. Il soggetto, illusoriamente, crede, assecondando così il principium individuationis – velo di Māyā – di essere il centro del mondo. Quantunque sia oggettivamente «un niente nell’immensità», egli si erge come microcosmo che si contrappone frontalmente al macrocosmo. È questo antagonismo fra la parte e il Tutto, fra il fenomeno – l’io, la volontà particolare – e la vita in sé, la base sulla quale poggia il nostro egoismo. L’io, inconsapevole di essere un’oggettivazione particolare della volontà di vivere che permea tutti i fenomeni, e dunque ogni individuo, vede gli altri come sue semplici rappresentazioni, come figure proiettate dallo schermo della propria soggettività, illudendosi di essere egli stesso la volontà in sé, la rappresentazione in sé.

Il sentimento illusorio di essere il punto d’Archimede del mondo è il luogo di germinazione della paura della morte e del correlato desiderio di immortalità. Infatti, è per l’uomo ripieno di volontà che la morte rappresenta la fine del mondo intero. Egli è incapace di guardare il fenomeno del mondo, per dirla con Spinoza, sub specie aeternitatis. Incapace di constatare che «la terra si volge dalla luce alle tenebre; l’individuo muore; ma il sole della vita brilla di luce meridiana» (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung).

Il desiderio dell’immortalità, nell’ottica di Schopenhauer e dei grandi mistici ai quali il filosofo si riferisce, nasce nel cuore dell’uomo che è attaccato alla sua volontà particolare. Per l’uomo redento, elevatosi all’Universale, la vita del Tutto gli è più cara della vita della vita particolare. L’accettazione della propria costitutiva finitezza è il risultato di un trascendimento del proprio egoismo: è esso, infatti, a proiettare oltre la vita tutti i desideri che nel presente non vengono

soddisfatti. L’egoismo che alberga nell’animo umano – questo è un punto nevralgico della riflessione schopenhaueriana – può essere vinto soltanto dalla conoscenza affrancatasi dal volere. Questo particolare tipo di conoscenza è l’unione di conoscenza intuitiva – la cognizione senza mediazione della verità filosofica – e conoscenza astratta – la traduzione concettuale di ciò che si è esperito immediatamente sul piano intuitivo. Questa conoscenza è, come suggerisce il verbo francese, connaître, nascere insieme alla cosa conosciuta, una radicale conversione dello sguardo che disvela il mondo, e i fenomeni in esso contenuti, sotto una luce altra da quella consueta. Attraverso questo rivolgimento della conoscenza è possibile penetrare il principium individuationis e rompere la barriera che separa l’io e gli altri. L’io che perviene a questa conoscenza solleva il velo di Māyā, il quale non solo separa dalla verità del mondo, ma dall’intima verità dell’Altro. Squarciare il velo dell’illusione ontologica significa aprirsi alla dimensione più profonda di sé, all’amore puro (caritas). Esso non è una passione passiva, ma una passione attiva, intenzionale, un orientamento di tutta l’anima.

L’amore è la prova sperimentale della presenza della grazia, di una zona liminale del nostro esserci affrancata dal giogo dell’istintualità. L’atto preminente dello spirito è «essenzialmente pietà», mitleiden: patire l’altro dentro di sé, patire quel patire invisibile in cui consiste la sua anima. L’amore compassionevole, dunque, non si limita ad essere la partecipazione emotiva alla sofferenza altrui. Questa è la dimensione puramente passiva del patire: l’amore come pura paticità è adialettico. L’amore vero, invece, è sempre un patire che si converte in agire, nel tentativo perpetuo di lenire, concretamente, con ogni mezzo, il sangue che sgorga dalla ferita di Altri. Questo moto dell’anima che innalza il sentire fino al sacrificio dell’io, alla totale soppressione di ogni movente utilitaristico, è l’amore. Senza vuoto di sé, senza decentramento ontologico, l’amore resta un egoismo sublimato.

Se Kant aveva posto a fondamento dell’agire morale l’imperativo categorico, un principio puramente razionale, Schopenhauer ribadisce, invece, che la riflessione non produce né la virtù, né può ispirare le grandi opere d’arte. In particolare, ciò che promuove l’agire etico non è mai la figurazione interiore di una legge, ma sempre la percezione emotiva della sofferenza dell’altro. Non un principio etico ciò che muove l’agire, ma la sofferenza incarnata dell’altro è la fonte concreta di ogni principio morale, di ogni massima. A partire dalla percezione emotiva di una sofferenza singolare, si può, con l’ausilio dell’immaginazione, provare a mettersi nei panni dell’altro, cercare di strenuamente di liberarli dalla morsa del dolore. L’amore, in questa prospettiva, non è liberare l’altro dal dolore dell’assurdo – ogni liberazione dal dolore è assolutamente singolare –, ma aiutare l’altro a liberarsi, a trovare gli strumenti conoscitivi e pratici per trascendere la soggettività assoluta del proprio dolore. Il vero amore è mostrare un varco nell’apparente insensatezza dell’esistere.

La percezione emotiva della sofferenza altrui non ha nulla di meramente psicologistico. Potremmo dire che, per Schopenhauer, la percezione emotiva della sofferenza dell’altro possiede uno spessore metafisico e mistico. Metafisico, perché soltanto attraverso la viva percezione del dolore di chi amiamo è possibile sentire, con l’interezza del proprio essere, il comune destino di dolore al quale sono sottoposti tutti gli esseri viventi. Mistico, perché l’amore compassionevole costituisce già, seppur parzialmente, un trascendimento dell’Eigenschaft, della volontà che mira all’appropriazione indebita di sé, del mondo e degli altri. L’amore non solo sente, ma vede l’illiceità di chi tenta, invano, di commisurare l’essere al suo desiderio.

L’uomo virtuoso, penetrando la radice del fenomeno, scopre che ogni ente è un tendere inevitabile verso il niente, una ferita innominabile non redimibile dalla buona volontà umana. Di fronte alla sofferenza metafisica di cui ogni sofferenza particolare è concrezione, l’amore compassionevole perviene al suo scacco fatale. L’incapacità di eliminare la fonte ultima da cui zampilla la sofferenza, per quanti sforzi si profondano nel trasformare le condizioni del mondo, fa sorgere quel sentimento di ripugnanza nei confronti della volontà che costituisce il prodromo emotivo del distacco. L’amore, pur costituendo un significativo decentramento della soggettività, è ancora una tacita affermazione della volontà di vivere.

Per Schopenhauer soltanto la negazione della volontà, il distacco – noluntas– elimina la sofferenza, perché ne sopprime la radice. In accordo con uno dei suoi maestri, Meister Eckhart, afferma che l’unico atto veramente libero e liberatore è l’atto col quale ci si distacca interamente dal dominio egoico del volere. Il distacco, eckhartianamente, è l’autentico valore che genera tutti gli altri valori. Anche l’amore è subordinato al distacco perché l’amore è amore in virtù della forza purificatrice del la sua azione purificatrice. L’amore è, indubbiamente, un atto di spoliazione di sé, ma resta, in ultimo, un altro legame, in quanto lega l’io non più a se stesso, ma all’altro, verso il quale dirigeattese, speranze e desideri che l’egoista, all’opposto, rivolge solo a sé.

La libertà, bandita dal piano fenomenico, irrompe nel fenomenico stesso, nella negazione dell’auto-affermazione della volontà. Il distacco radicale, la rinunzia di evangelica memoria, affranca dal determinismo che coinvolge non solo il nostro corpo, biologicamente determinato, ma ciò che si suole chiamare anima: pensieri, volizioni, desideri etc.. La libertà è la rivolta del fenomeno contro l’essenza del fenomeno stesso: la volontà. La libertà del volere non è la libertà di volere questo o quello, ma è libertà dal volere. Per questo, Schopenhauer, con grande pertinenza storico-filosofica, la definisce, richiamandosi ai mistici, grazia. La volontà elevatasi alla conoscenza della propria natura riceve da essa un quietivo in grado di liberarla dal dominio dei motivi, dei desideri, e di condurla, così, al di là del fenomenico, il quale è la rete fittissima di desideri, motivi, pensieri, rappresentazioni soggettive. Solo la conoscenza, non la credenza meramente esteriore in una potenza altra dall’umano, può auto-sopprimere la brama di vivere. Questa conoscenza, indipendente dall’arbitrio, giunge dall’esterno, per effetto, appunto, di una grazia. Ma la grazia giunge soltanto se vi è una cooperazione da parte dell’uomo, il quale deve imparare a penetrare, con la forza dell’intelletto, il principium individuationis. Il distacco non è sostanza, un’essenza soggettiva, ma un atto, un esercizio continuo, un imparare, ogni giorno, a fare il vuoto in e di sé stessi. Soltanto così è possibile, per noi esseri limitati e finiti, accedere al regno della libertà. Infatti, «La necessità è il regno della natura, la libertà è il regno della grazia» (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung). Un secolo più tardi, Simone Weil, filosofa e mistica francese, con un aforisma folgorante il medesimo concetto: «tutti i movimenti naturali dell’anima sono retti da leggi analoghe a quelle della pesantezza materiale. Solo la grazia fa eccezione» (S. Weil, La pesanteur et la grâce).

Ora, la negazione del volere, degli impulsi e dei desideri, sembrerebbe costituire un annichilimento totale della propria individualità, della propria persona. Lo stesso Schopenhauer non esita a definire l’ascesi «un trapasso nel vuoto nulla», la scomparsa della rappresentazione e dunque del mondo. Stando così le cose, sembrerebbe che il filosofo si situi nell’orizzonte del nichilismo. Ma, a ben vedere, ricalibrando i suoi passi sul sentiero tracciato dal domenicano Eckhart, egli non pensa che il distacco conduca giocoforza all’estinzione della singolarità nel niente assoluto. Il superamento della rappresentazione, con la conseguente scomparsa del mondo e della scissione tra soggetto e oggetto, non decreta la fine della conoscenza, ma lo scioglimento dell’assolutizzazione della prospettiva fenomenica, di quella prospettiva che non vede la propria prospetticità.

Se di nichilismo si può parlare in Schopenhauer, si tratta certamente di un nichilismo religioso, di un ateismo mistico. Il filosofo, infatti, crede di aver espresso filosoficamente il nucleo fondamentale del cristianesimo, depurandolo di tutti gli orpelli mitici e dogmatici. Tutte le religioni, nella sua ottica, pur esprimendosi attraverso miti e dottrine filosofiche differenti, concordano nel ritenere il distacco, la noluntas, il perno spirituale attorno al quale ruota il cammino che mena alla salvezza. A corroborare il carattere antinichilistico della filosofia di Schopenhauer ci sovvengono in aiuto gli ultimi due paragrafi de Il mondo come volontà e rappresentazione: il paragrafo sessantanove e settantuno, rispettivamente dedicati al suicidio e al nulla.

Il suicidio è la più radicale controparte della negazione della volontà. Anzi, a rigore, osserva il filosofo, è l’ultima energica affermazione della brama di vivere. Il suicida, infatti, non nega la volontà, la vita in sé, ma solo la sua oggettivazione particolare: la sua vita, nelle condizioni in cui questa gli si presenta. Il suicida si scaglia contro il suo corpo perché tragica manifestazione di un desiderio di auto-affermazione respinto. Nei lineamenti del proprio volto il suicida scorge l’impossibilità di essere felice, il niente che brucia ogni possibilità di incarnare il senso. Egli sceglie il nulla della morte, paradossalmente, non perché non vuole più, ma perché non può non-volere, non può, ossia, prendere congedo dall’idea di un io annientato, ferito dal peso della vita. Il suicidio è l’ultima possibilità che gli resta per affermare sé stesso, per dire io.

Per Schopenhauer il suicidio è un evento decisivo, rivelativo. Esso, da un lato, rivela la costitutiva metafisicità dell’umano, il quale è disposto a rivolgersi contro l’istinto di auto-conservazione, dimostrando di preferire il nulla – nichilisticamente inteso – alla vita destituita del senso; dall’altro lato, dimostra che chi decide di levare la mano su di sé non è in grado di ascoltare l’appello che il dolore, silente maestro, gli rivolge. Il dolore, infatti, non invita l’individuo a rinunciare al fenomeno della vita, ma al distacco, il quale si consegue nella vita ed è la conditio sine qua non affinché la vita sia veramente vita. Il dolore, nella prospettiva mistica di Schopenhauer, di questo mistico senza Dio, come lo definisce Giuseppe Faggin, rappresenta uno strumento per abbandonare la propria volontà personale e accedere a quello stato di pace e di quiete che caratterizza il santo o il mistico.

Nell’ultimo paragrafo il filosofo delinea suggestivamente i tratti di una meontologia soterica. La domanda implicita che percorre il paragrafo è la seguente: come pensare il nulla? Come contravvenire adeguatamente, sulla scia platonica, l’interdetto parmenideo? Il nulla al quale si perviene dopo aver rinunciato alla propria volontà personale è un «vuoto nulla», un nihil negativum?

Per il filosofo il nulla è sempre relativo, non sussiste senza l’ente del quale è negazione. Anche la contraddizione logica rappresenta un nulla relativo e non negativo. Esso indica l’ambito del non- pensabile, il quale è tale sempre in relazione al pensabile. Il carattere relazionale del nulla, il fatto che esso sia sempre correlato dell’ente, determina che nulla ed ente possano essere intercambiabili.

Infatti, un uomo attaccato alla propria volontà personale vedrà la condizione del mistico come un passaggio nel vuoto e inane nulla, mentre il mistico giudicherà qualitativamente nulla il mondo al quale l’uomo ripieno di volontà è legato indissolubilmente. Egli, il mistico, riterrà nulla, assiologicamente irrilevante, quel mondo frutto dell’egoismo, traboccante di sofferenza, tragico prodotto di quel desiderio che non può mai acquietarsi nelle maglie del relativo e del finito.

Dunque, in conclusione, si può dire che l’esperienza del nulla dipende dalla nostra condizione spirituale. Per questo Schopenhauer richiama il detto di Empedocle, per il quale «il simile conosce il simile». Per l’uomo schiavo dell’Eigenschaft non ci può essere spazio che per il nulla del nientismo dilagante, per il nihil negativum; per il mistico, che ha imparato a farsi povero, che si è svuotato di sé, si dischiude la possibilità di esperire quella che Welte, con estrema profondità, definisce Das Licht des Nichts. Questo nulla, come mostrato da Karl Jaspers in pagine di grande spessore teoretico, non è il nulla cui si riferisce il nichilismo, ma l’essere autentico. Il nulla che il mistico incontra, dopo aver abbandonato se stesso, è l’essere nella sua purezza: l’essere come nulla dell’ente, come non-ente. L’abisso nel quale naufraga ogni concetto, ogni determinazione finita.

In questo senso si può dire che per Schopenhauer il vero filosofo è colui che conosco la stratificazione semantico-esistenziale del termine nulla: il nihil negativum, il nulla assoluto attribuito erroneamente alla condizione del santo che ha estinto la brama; il nulla qualitativo, attribuito dal mistico al mondo di chi è subordinato alla volontà di vivere; il nihil privativum, accostabile, per certi versi, al nulla della teologia negativa, al nulla divino e ineffabile di Eckhart, in cui l’anima trova perviene al proprio impenetrabile mistero.

Il nulla per Schopenhauer è, per usare la nota definizione di Alberto Caracciolo, Nulla religioso: l’esperienza di un’infinita pienezza al di là di ogni formulabile concetto, la quiete sovrumana che il poeta di Recanati, spesso accostato al filosofo tedesco, ha saputo cantare con grazia ineguagliata. L’incontro con il Nulla religioso rivela la contingenza del mondo, la sua vanità, la sua mancanza di valore, ma, soprattutto, ci redime da esso, dalla sofferenza della sofferenza, dalla brama che sembra non conoscere argine alcuno. Il Nulla nientifica tutto, anche la propria nientificazione:

Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla (A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung).

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