Marco Palladino (1993) è laureato in filosofia, presso l’Università Federico II DI Napoli, con una tesi dal titolo Trascendenza e malum mundi. Karl Jasperse Alberto Caracciolo. I suoi interessi di studio si rivolgono principalmente al rapporto tra filosofia e religione e tra filosofia e cinema. Di particolare interesse per la sua ricerca il dialogo con l’Oriente, come testimonia il saggio scritto per la rivista «Studi jaspersiani» sul rapporto tra Dōgen e Jaspers.

L’importanza di Pareyson all’interno del panorama filosofico contemporaneo è immensa. Come scrive Francesco Tomatis nella sua monografia dedicata al filosofo torinese, l’itinerario del pensiero pareysoniano può essere posto accanto a quello di giganti come Wittgenstein e Heidegger.

La ricerca filosofica di Pareyson inizia negli anni Quaranta con la sua prima opera dedicata alla filosofia dell’esistenza e, in particolare, alla figura di Karl Jaspers. Ed è proprio dal confronto con Jaspers, Heidegger e Marcel, considerati come gli autentici filosofi dell’esistenza, che Pareyson svilupperà il suo esistenzialismo declinandolo in chiave personalistica ed ontologica. L’esistenza – sulla scorta di Kierkegaard, padre dell’esistenzialismo e autentica alternativa all’hegelismo – viene concepita da Pareyson come coincidenza paradossale di autorelazione ed eterorelazione: la mia esistenza non è monadica sostanza racchiusa nel proprio claustrale solipsismo, ma vivente rapporto con sé e, al tempo stesso, con altro da sé. L’esistenza non è individuo, separato e auto-sussistente, ma persona: insostituibile singolarità che afferma se stessa nella relazione. La persona non è un a- priori logico, un soggetto epistemologico, ma costitutiva apertura all’altro e alla trascendenza dell’essere. La persona è rapporto ontologico: il luogo in cui riluce l’originario legame che avvince l’uomo al mistero infinito e inesauribile dell’essere.

La persona è una prospettiva vivente sulla verità dell’essere, la cui inesauribilità non si darebbe senza la sua affermazione da parte della persona stessa. Non si può affermare di essere persona senza affermando, al contempo, la trascendenza dell’essere; e non si può affermare l’essere senza affermarsi in quanto persona, prospettiva sull’eccedenza dell’essere. L’originarietà del rapporto ontologico è «essenzialmente interpretativo» e «interpretare significa trascendere», poiché ogni interpretazione è distacco,   negazione che vuole la verità. La verità può annunciarsi soltanto all’interno della molteplicità delle prospettive personali, ma non si risolve in nessuna di esse: ogni modo, ogni prospettiva personale è manifestazione dell’unicità e della trascendenza della verità, la quale in ogni prospettiva si rivela e, al contempo, si nasconde, kenoticamente si ritrae, annunciandosi come inoggettivabile irrelatività. Da qui discende anche l’afflato etico della proposta pareysoniana, la quale saldando insieme esistenzialismo personalistico ed ermeneutica, afferma che la verità si dona soltanto nella mutua fecondazione delle differenti prospettive personali. L’essere si schiude solo all’interno della comunicazione delle singole verità esistenziali. Ogni singola verità esistenziale non rappresenta una limitata visione dell’essere, ma uno dei modi attraverso i quali esso si consegna allo sguardo dell’uomo come mistero mai pienamente inattingibile. Nessuno può farsi dunque possessore esclusivo del mistero dell’essere, ma può partecipare ad esso nel dialogo fra le differenti prospettive.

Rapportandosi alla verità dell’essere, l’uomo scopre, quindi, che il religioso è una struttura che informa di sé tutti gli altri modi dell’esistere, poiché l’esperienza della trascendenza è la capacità preminente di quel particolare ente ch’è l’uomo. Fare esperienza della trascendenza significa anzitutto esperire che il proprio essere non è tutto, che si è sempre in rapporto con una dimensione che ci circoscrive e che non dipende da noi. In particolar modo, nel rapporto con la natura, con il passato, con la legge morale, con l’inconscio il singolo esperisce un’alterità irriducibile. La natura, infatti, appare allo stesso tempo come fonte di bene e apportatrice di mali; il passato appare come un’origine inaggirabile che grava sul presente condizionandone i passi; la legge morale si presenta come la trascendenza in noi, suscitando il sentimento del rispetto e obbligandoci all’obbedienza; l’inconscio, dal canto suo, presentandosi come il ricettacolo di desideri rimossi, non giunti alla chiarezza della coscienza, appare come un abisso dal quale l’uomo sovente è inghiottito. Tutte queste esperienze attestano, dunque, che l’uomo nei rapporti con sé fa esperienza di qualcosa che lo eccede e che non è nella sua disponibilità, dalla quale è determinato e oltrepassato. Ma, come già accennato, l’uomo esperisce la trascendenza dell’essere perché la sua caratteristica essenziale è quella di auto-trascendersi, di non coincidere interamente con se stesso, ponendosi a distanza dalle determinazioni del suo esserci. Essendo rapporto originario e costitutivo con l’essere, l’uomo è estaticamente posto fuori di sé. Ed è in virtù della trascendentalità di tale legame che si può dire che l’uomo esiste prima di esistere. Ossia, prima ancora di riflettere sulla propria strutturale apertura all’essere, egli è già in rapporto con l’essere. Questa capacità di auto-trascendimento dell’umano attesta la sua libertà, la quale si manifesta come l’essere del suo esserci. Al cuore dell’ontologia della libertà di Pareyson si trova l’idea secondo la quale la libertà precede la libertà stessa e la segue. Ciò vuol dire, da un lato, che all’origine della libertà vi è una necessità iniziale, per cui nessuno può decidere di non decidere: la negazione della libertà resta esercizio di libertà. D’altra parte, la datità della libertà è un dono che richiede un consenso. Tale consenso, in cui consiste l’esercizio concreto della libertà, è capace di convertire la ricettività iniziale in attività. Ognuno di noi è donato a se stesso, ma è donato a se stesso come libertà, sicché la passività della ricezione del dono è resa possibile solo dalla libera attività del consenso. L’ineludibilità della libertà rivela la sua abissalità, il suo carattere trascendente. Al tempo stesso, alla libertà è strettamente connessa l’ambiguità che intride di sé la realtà. La libertà, sulla scorta dello Schelling delle Ricerche sull’essenza della libertà umana (1809), viene intesa da Pareyson come facoltà ancipite del bene e del male. La libertà è libertà del bene in quanto è libertà del male. Il male, che nell’atto dell’auto-originazione di Dio è stato sgominato, si ridesta in virtù della libera scelta dell’uomo. Quel male che in Dio è possibilità scartata ab eterno si attualizza e s’incarna nell’esistenza umana. Di qui il carattere tragico della condizione umana, la quale può vincere il male soltanto attraverso la sofferenza e solo tramite questa può collaborare con Dio. Il pensiero tragico si profila ben più radicale del nichilismo che assolutizza il negativo, e, in tale assolutizzazione, paradossalmente, finisce per entificare il nulla. D’altro canto, è solo tenendo ben ferma la positività originaria di Dio che il mondo appare scandalosamente assurdo. Il carattere tragico dell’esistere consiste nella co- esistenza di positivo e negativo, nella loro incomponibile tensione. Dio stesso, libertà originaria, è in rapporto con la voragine del nulla e la sua esistenza rappresenta una vittoria del suo desiderio d’essere, della sua volontà di bene. Il dramma di questa scelta originaria si ripresenta nell’uomo, mostrando come l’oggetto della scelta, e dunque dell’affermazione della libertà, sia l’essere. La scelta fra il bene e il male non può sussistere senza il riferimento all’essere, poiché il bene è «fedeltà all’essere» e il male «un tradimento dell’essere». Il nulla, allora, assume un ruolo assolutamente centrale, dal momento che può chiamarsi positivo solo ciò che ha rischiato di essere negativo, bene solo ciò che, fino alla fine, ha rischiato di tramutarsi in male. Il cuore del reale è strutturalmente dialettico, perpetua tensione degli opposti. Il passaggio da uno momento dialettico all’altro non avviene in virtù di una necessità logica, ma solo grazie all’esercizio vivente della libertà. Il movimento del reale, il suo dispiegarsi, è appeso alla vertigine del possibile, alla scelta che salda il finito all’infinito.

Ora, l’ontologia della libertà, questo sguardo gettato sull’abisso della libertà teandrica, si presenta come un’ermeneutica dell’esperienza religiosa: un’interrogazione intenzionata non alla de- mitizzazione del contenuto religioso, alla sua dissoluzione nel linguaggio filosofico, ma alla valorizzazione dell’irriducibilità dei suoi simboli. Il mito non è, come comunemente si crede, l’opposto della verità, ma la sua precipua rivelazione. I simboli, di cui il mito si serve, diversamente dai concetti, volti a esplicare l’oggetto che intenzionano, hanno la capacità di dire la trascendenza del divino preservando, al tempo stesso, la sua indicibilità. Le immagini simboliche, proprio per la loro natura sensibile, totalmente antitetica a quella divina, riescono a rappresentarlo meglio, perché sin da subito indicano la loro totale inadeguatezza, e, in tale riconoscimento, riescono a superarla. I concetti, invece, mossi dalla volontà di voler afferrare la trascendenza, di comprenderla all’interno della ragione, la mancano. Per questo, Pareyson afferma che nel seno della speculazione razionale si cela un antropomorfismo mascherato, e per questo deteriore, al quale bisogna contrapporre l’autentico antropomorfismo del mito, il quale, consapevole della sua inadeguatezza, riesce a salvaguardare l’intima dialettica di presenza e assenza, di rivelazione e nascondimento, propria del divino.

In questo orizzonte speculativo si comprende bene, allora, l’importanza che Pareyson  attribuisce – insieme a Bonhoeffer e a Dostoevskij, autore di capitale importanza per il pensiero del filosofo torinese – alla figura del Dio sofferente. Soltanto il Dio che si incarna nella storia e che diventa maledizione morendo sulla croce, prendendo su di sé le colpe dell’uomo, può salvare. Dio, da innocente, diventa sofferente e peccatore, lasciandosi coinvolgere nella tragedia umana. Solo tramite questa Kenosis di Dio, quest’azione de-creatrice, è possibile che il male ridestato dall’uomo  venga eliminato:

La potenza dl male è grande, ma la potenza del dolore è maggiore: l’unica speranza di debellare il male è affidata al dolore, che per travagliosa e dilaniante che sia la sua opera è l’energia nascosta del mondo, la sola capace di fronteggiare ogni tendenza distruttiva e di vincere gli effetti letali del male.

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