Recensione a: E. Fromm, Grandezza e limiti del pensiero di Freud, Mondadori, Milano 1979, pp. 197.
La psicologia è un unicum in termini di complessità, nel tipo di relazioni che ha costruito e sta tuttora costruendo con religione e filosofia. Oggi, ancora più di ieri, sembra assumere i tratti di una fede, certamente laica, che però non svolge la funzione di regolarizzatore sociale, onere che appartiene storicamente alla religione. Se ci pensiamo, il setting dello psicanalista o dello psicoterapeuta richiama molto il confessionale dove il credente, in un rapporto dialettico con la figura del prete, espia sì i propri peccati ma trova al contempo conforto in una figura dai contorni materni o paterni, si affida al sapiente, a una guida capace di far crollare fedi e credenze che lo allontanano dalla verità rivelata. Verità rivelata nella religione, verità del soggetto nella psicologia.
Psicoterapia deriva da due parole greche: therapeia significa dedicarsi a qualcuno, psychè significa «anima» oppure «carattere», «respiro». Un prete o un rabbino possono svolgere funzioni psicoterapeutiche alla stregua di un professionista? Al di là della risposta, è evidente che fra religione e psicoanalisi si è aperta una ferita, difficile da sanare, a partire dal XX secolo. Un conflitto di interessi che nasce da vocazioni ontologiche diametralmente opposte: la religione trascende l’individuo, la psicoanalisi lo tiene ancorato alla dimensione terrena.
Relazione ugualmente complessa è quella che intercorre fra psicologia e filosofia. Come scrive Lou Marinoff, autore dell’opera dal titolo sicuramente controverso Platone è meglio del Prozac:
La filosofia si basa sull’osservazione, sui dati sensibili, sulle impressioni, tutte cose che sconfinano in territorio psicologico. Se osserviamo il mondo, non è detto che vediamo chiaramente ciò che abbiamo davanti: alterazioni fisiologiche e interpretazioni soggettive intervengono quasi sempre. Questa interpolazione – la differenza tra oggetto ed esperienza – riguarda la psicologia, e nessun punto di vista filosofico si regge senza di essa.
Eppure, filosofia e psicologia, che hanno condiviso gli stessi percorsi per secoli, si sono separate. Quando? La psicologia, a fine XIX secolo, cadendo nell’alveo delle scienze sociali e disconoscendo quello delle scienze umanistiche, ha imboccato la strada della ricerca del metodo scientifico. L’approccio meccanicistico della scuola behaviorista, che condiziona ancora oggi l’operato di molti indirizzi psicoanalitici, ha indotto tale cambio di rotta. A ogni effetto una causa, a ogni sindrome un trauma. Freud, fondatore del metodo psicoanalitico, al pari di molti suoi successori, ne fu completamente imbevuto. Lo spiega Erich Fromm, psicologo e filosofo tedesco, in Grandezza e limiti del pensiero di Freud, opera risalente al 1979 che ancora oggi fa parlare.
La grandezza di Freud, come spiega Fromm, sta principalmente nell’aver compreso, come mai nessun filosofo prima aveva fatto, l’inesorabile conflitto fra pensiero ed essere. Non tutto ciò che pensiamo è il risultato di ciò che siamo. C’è una zona d’ombra, una parte non trascurabile delle nostre pulsioni che rimane celata a noi stessi e conseguentemente agli altri. È l’inconscio a rivelare questo arcano. Freud prese a picconate la tradizione illuministica che vedeva la ragione, detto in termini kantiani, come «spirito senza posa al di là dell’infinito», cioè quale entità a priori, e quindi non condizionata, sporcata da altro.
In questo senso, il pensiero freudiano rompeva con la tradizione in qualità della sua potenza critica e quindi conseguentemente creatrice. Fromm ne elogia la grandezza perché lo scienziato austriaco trasformò l’impensabile e quindi l’indicibile in qualcosa di “tangibile”, che rompeva con gli schemi concettuali dei secoli precedenti. Un rivoluzionario, senza dubbio.
C’è un però nell’opera di Fromm. Filosofia e psicologia dovrebbero, e qui il condizionale è d’obbligo, operare in quella linea sottile che intercorre fra oggetto ed esperienza. L’approccio metodologico freudiano sconfinò invece nel campo dell’oggetto, la mente umana, e lo fece isolando l’influenza che l’esperienza può avere sulla diagnosi di un paziente. O almeno così credeva lo psicologo austriaco. Freud si servì della psicologia behavioristica per fornire a problemi complessi risposte univoche e quindi inevitabilmente semplicistiche. Un esempio? Per Freud ogni conflitto fra pensiero ed essere, ogni nevrosi che sorgeva da una repressione delle proprie pulsioni inconsce aveva un substrato di natura sessuale. Il ché è curioso, soprattutto alla luce dell’approccio consumistico che si ha oggi nei confronti del sesso. Di fronte alla sua imperante mercificazione, ad un suo uso puramente edonistico, l’uomo contemporaneo si può dire represso sessualmente? Tutt’altro.
L’affermazione che qualcosa esiste senza il sostegno di prove, che i filosofi definiscono «reificazione», è però l’anticamera del dogmatismo. La mente umana risponde a input infinitesimali, il cui peso non è facilmente quantificabile. Le neuroscienze ancora oggi non riescono a rivelare l’intero arazzo della natura umana e forse mai vi riusciranno. Allora perché il bisogno teoretico di Freud di ridurre la mente umana a mero ingranaggio? Per dare forse sostanza teoretica al suo pensiero? Lasciata al lettore la risposta. Inutile dire però che il peccato originale freudiano ha infettato molti dei suoi successori. È stato, in altre parole, perpetrato dalle successive pratiche psicoanalitiche, penso per esempio a quella lacaniana.
Fromm non si ferma qui. Perché se il pensiero freudiano nasce privando l’uomo del proprio orgoglio verso la propria razionalità, rivelandosi quindi rivoluzionario, si è però lungo la strada eretto a emblema dell’adattamento della società borghese. Così scrive Fromm:
La domesticazione della psicoanalisi e la sua trasformazione da teoria radicale in teoria liberale dell’adattamento ben difficilmente avrebbero potuto essere evitate [..]. Ciò che la maggior parte dei pazienti voleva, era non già divenire più umani, più liberi, più indipendenti (e questo avrebbe significato divenire critici e rivoluzionari), ma semplicemente di non soffrire più della media dei membri della propria classe. Non desideravano essere persone più libere, ma borghesi di successo.
Fromm, con questa acuta riflessione, centra un punto cruciale delle contraddizioni insite in molte pratiche psicoanalitiche. Le istanze radicali e quindi anti-sistemiche di un paziente medio-borghese troppo spesso vengono ridotte a segnali di disagio, di incapacità di adattamento, da ricondursi a ferite del proprio passato. Si lavora su di esse non per far sì che possano rivelare la loro vocazione di promotori del cambiamento sociale. Tutt’altro. Ciò che conta è l’individuo, perché inutile arrovellarsi il cervello per cambiare una cosa che non può essere cambiata, la società. Allora l’anelito creativo, profondamente radicale, del singolo individuo viene represso, in nome di logiche adattive. È una verità del soggetto, come abbiamo visto, quella che indaga la psicologia.
E non è un caso, aggiungerei, se oggi le pratiche psicoterapeutiche, in un’epoca iper-neoliberista, sono così ben radicate nel tessuto sociale, a riprova del fatto che la dimensione adattiva individuale ha soppiantato ogni respiro di critica sociale. Il dolore assume una valenza unicamente individuale. E allora che si fa? Si va in psicoterapia. La nevrosi della patologizzazione dell’individuo sta servendo a distogliere l’attenzione da problemi collocati a monte. Noi abbiamo occhi però solo per gli effetti a cascata.
Come si può uscire da questa impasse? Il professionista, quello veramente bravo, come si è soliti dire, dovrebbe avere una predisposizione al filosofare, a non ricercare solo nella mente del paziente cause ed effetto del suo malessere. Dovrebbe andare oltre. Accompagnarlo in un percorso conoscitivo, di coscienza del proprio sé e non sé, che miri ad indagare questioni che trascendono il proprio vissuto di sofferenze: etica, senso della morte e della vita, per citarne alcune. Perché la psicoanalisi non dovrebbe essere una scienza, bensì un’arte. E perché, come diceva Henry David Thoreau, «essere un filosofo non significa semplicemente avere pensieri raffinati o fondare una scuola. Consiste nel risolvere problemi della vita, non in teoria ma in pratica».
Solo così si potrebbe risanare quella rottura fra psicologia e filosofia. Potrebbe appunto. E anche qui il condizionale è d’obbligo.