Fabio Lazzari (1992) è laureato in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale presso l'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), sotto la guida del Professor Danilo Breschi. Ha conseguito successivamente un Master in Agricoltura Sociale presso l'Università degli Studi di Tor Vergata. Educatore cinofilo, appassionato di filosofia ed etologia, lavora in una Cooperativa che si occupa di agricoltura sociale.

Recensione a: P. Barone, Il bisogno di introversione. La vocazione segreta del mondo contemporaneo, Raffaello Cortina Editore, Milano 2023, pp. 168, € 14,00.

Si possono pensare introversione ed estroversione come due categorie antitetiche, poste in un rapporto di inconciliabile conflitto. Da una parte l’eterno mite, riflessivo, murato nei confini del silenzio e della contemplazione, dall’altra l’audace, il coraggioso, colui che esce dalla prigione dell’io per correre nelle distese della stimolazione sensoriale e interpersonale. Orientamenti che siamo soliti a immaginare come degli assoluti, come categorie incontaminate. A ragion veduta?

Per quanto si parli molto di introversione ed estroversione, oggi più di ieri, non si riesce mai bene a mettere a fuoco cosa possono essere realmente. Nonostante, come ci ricorda lo psicoterapeuta Luigi Anepeta, nel suo Timido, docile, ardente, siano i tratti comportamentali più significativi che segnano la vita di un individuo, c’è, ad una prima occhiata, una problematicità di fatto nel definirli. L’estroverso sembra essere un propagatore di rumori, di suoni dati da un’eloquenza esasperata, da una propensione innata all’agire che incrinano a colpi d’ascia il mare apparentemente ghiacciato dell’animo introverso. Indizi certamente interessanti che però sembrano non risultare sufficienti quando capita, e forse sarà capitato anche al lettore, di imbattersi in uomini o donne estremamente eloquenti, passionali, condotte dall’eros dell’immanenza, che però poi, a dispetto di ogni evidenza umana, si professano introversi.  È necessaria forse una rivisitazione, che vada al di là della semplice tracotanza dialettica?

Ricordo che una volta porsi una domanda a una persona di mia conoscenza su come riuscisse a riconoscere un estroverso da un introverso. La risposta fu lapidare, ma quanto mai pregna di significato: «lo riconosco dalle pause».

Di che pause parlava? Paulo Barone, psichiatra junghiano, nel suo saggio intitolato Il bisogno di introversione ci fornisce interessanti spunti in merito. Riportiamo un estratto:

Secondo l’orientamento estroverso tutto il bene è al di fuori e il principio che lo regola è riposto nell’oggetto. Così la mentalità che ne deriva consiste nel credere che una verità sia convincente soltanto quando può essere verificata per mezzo di fatti esterni. Al contrario, l’atteggiamento introverso elegge a fattore determinante l’elemento soggettivo. […] Se Dio c’è, non è all’esterno, ma all’interno.

Le pause sono un tuffo nel mare dell’io, un arretramento in una trincea i cui confini sono disegnati dal lavorio incessante della materia grigia e bianca del cervello umano o qualcuno direbbe, dell’anima. Loro, che scandiscono e frazionano i tempi fra la parola e l’ascolto, prima di tutto interiore e interiorizzato, fra solitudine e aggregazione, sono sintomatiche di un bisogno costitutivo di ogni esperienza umana: il bisogno della verità del soggetto. Questo bisogno, per quanto universale, però si mostra variabile nell’intensità delle pause e nelle forme espresse delle stesse. Chi è che detta i tempi di queste pause? Il codice genetico oppure l’habitus, inteso in senso bourdieuano come la condivisione di uno spazio sociale che permette di avere una medesima percezione delle pratiche sociali tra i componenti di una società. In altre parole si nasce o si diventa introversi?

Le neuroscienze hanno già fornito una risposta in tal senso: si nasce e si muore introverso o estroverso. Da questo marchio della bestia, poco benevolo della natura, non si scappa. Eppure è curioso notare come, nonostante il codice genetico abbia instillato in ogni individuo uno o all’altra attitudine in maniera puramente casuale, un disegno strategico sia stato delineato da tempo immemore. Perché, anche se l’introversione risulta essere il gene minoritario nella grande arena evoluzionistica con dati che secondo Anepeta si attestano circa fra il 5% e il 10% della popolazione mondiale, un ruolo attivo nel progresso biologico dell’uomo lo ha sempre avuto e sempre lo avrà. Potremmo stilare una lista sconfinata di uomini e donne, notoriamente introversi/e, che hanno potuto dire la loro nella storia delle idee dell’uomo: da Albert Einstein, Rosa Parks a George Orwell e Mahatma Gandhi.

Tutto questo non solo ci fornisce interessanti spunti sul valore evoluzionistico di tale orientamento, ma ci dà pungolo ulteriore per ridefinire la dialettica fra introversione ed estroversione, che non devono essere immaginati come due assoluti impenetrabile, ma come due forme dell’esperienza umana che, al pari dei poli magnetici, si attraggono e si respingono. La loro propensione all’ignoto, al diverso da sé, è tanto forte quanto il loro bisogno di centralità e unicità. Un estroverso, senza l’anelito alla verità interiore, senza l’indagine esistenziale che lo scuote e percuote, sarebbe alienato da sé stesso. Il suo agire e il suo pensare sarebbero privi di ethos. Sarebbe, in altre parole, riflesso del protagonista del Lo Straniero di Albert Camus. Stessi risultati catastrofici li correrebbe, ma di segno opposto, l’introverso con il suo eccessivo ripiegamento verso l’interno.

Se pensassimo a questi due orientamenti come due assoluti, l’ombra della patologia ne farebbe da padrona. Non a caso la psicoanalisi, in parte a ragion veduta, guarda con profondo sospetto l’orientamento introverso. La sua propensione al ritiro, alla quiete, ad una sottrazione di una libido verso l’oggetto, celerebbero, per grande parte del mondo psicanalitico, una tendenza patologica verso il narcisismo. Ce lo conferma Paulo Barone nel suo saggio, che, nonostante sia psicanalista junghiano, affronta le problematicità della sua professione con sguardo estremamente lucido e critico.

Questo sospetto, purtroppo però, assume il sapore della condanna morale. Lo si dice a ragion di logica perché la psicanalisi, come ci conferma nuovamente Paulo Barone, si mostra molto più benevola verso l’estroversione che verso l’introversione. Verrebbe da chiedersi: perché?

Così scrive Barone:

È dunque soprattutto qui – nel momento in cui la società scopre di possedere una natura propria, di suscitare un senso di dipendenza nei singoli individui, di essere oggetto di rispetto al di là degli effetti che l’osservanza della sua autorità produce di volta in volta – che occorre rintracciare lo sfondo culturale più adeguato da cui discende l’odierna ostilità nei confronti dell’introversione: se la società è sacra, arretrare da essa sarà da considerarsi un atto di profanazione.

Certamente si nasce con un determinato orientamento, ma è la società, l’habitus, come è stato precedentemente affermato, a rinforzare positivamente o negativamente l’animo introverso o estroverso. Dato che il gioco delle forze in seno alla società è aut aut, può succedere che un orientamento esca dall’arena della società indebolito o rafforzato. Oggi l’introverso sembra essere l’anello debole della catena. Non c’è da meravigliarsi. La stagione del positivismo, all’indomani della rivoluzione francese, ha dato una boccata di aria fresca all’estroversione e una nube di smog, prodotto delle industrie delle rivoluzioni industriali, all’introversione. Nulla di male, penserebbe qualcuno, del resto questo è l’aut aut, presenza di vinti e vincitori.

Il problema è un altro, almeno per chi scrive: che la contemporaneità sta polarizzando il valore di questi due orientamenti. Sta, in altre parole, definendo degli assoluti. Gli effetti sulla tenuta del tessuto sociale sono drammatici: da una parte introversi sempre più introvertiti, dall’altra estroversi sempre più estrovertiti. Le diagnosi fioccano, come dardi di fuoco in un campo di battaglia. Se di guerra degli assoluti parliamo, quale esito pensiamo possa portare? Credete forse che Gandhi sia in grado di rispondere al fuoco nemico di Henry Ford? Un illuso, lo penserebbe. Appunto, un illuso.

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