Fabio Lazzari (1992) è laureato in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale presso l'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), sotto la guida del Professor Danilo Breschi. Ha conseguito successivamente un Master in Agricoltura Sociale presso l'Università degli Studi di Tor Vergata. Educatore cinofilo, appassionato di filosofia ed etologia, lavora in una Cooperativa che si occupa di agricoltura sociale.

Recensione a: A. de Benoist, I Demoni del Bene, Controcorrente, Napoli 2020, pp. 219, € 20,00.

L’arte cinematografica è filtro formidabile dello stato attuale delle cose. Pensieri, comportamenti, che sono per i più introiettati, in un film vengono svelati, posti al servizio dello spettatore in un processo di costante autoanalisi. Quel velo, che viene posto nella quotidianità del vivere, cade improvvisamente quando siamo seduti in una sala, gomito a gomito con un altro spettatore.

Il cinema diventa sì specchio su cui la società osserva le proprie difformità e conformità, ma si fa anche potenziale catalizzatore di processi ancora in itinere. Il film Barbie e il suo manifesto femminista ne sono la prova vivente.

Si è parlato molto del film diretto da Greta Gerwig, con giudizi generalmente positivi sia da parte della critica che del pubblico e con un guadagno al botteghino quasi senza precedenti. Inattesi i giudizi a pioggia, penserebbe qualcuno, ma se si prende in mano il saggio di Alain de Benoist il successo del film può essere facilmente inscrivibile all’interno di un processo di trasformazione socio-culturale che ha radici piuttosto lontane e che attende solo di assumere forme sempre più delineate. Prima di procedere però all’analisi congiunta di film e saggio, sono necessarie due parole sull’autore di questo scritto risalente al 2015.

Alain de Benoist, filosofo francese, incarna un ideale di destra europea che, a detta dello stesso autore, non trova un corrispettivo odierno. Una destra che si discosta dalle logiche neoliberiste imperanti, che, al contempo, rifiuta l’assoluto egualitario che, nel bene o nel male, condiziona molte destre sociali europee e che, nonostante si mostri avversa alla struttura di governance dell’Unione Europea, auspica il sorgere di una identità condivisa fra popoli europei, un controverso nazionalismo europeo.

Capite bene che leggere Alain de Benoist non risulta operazione di facile impresa, soprattutto se il suo pensiero vuole essere letto nella sua organicità. Il suo Demoni del Bene però, fortunatamente per il lettore, dedica la sua attenzione solo ad un lato del pensiero dell’autore: alla spinosa questione dell’eguaglianza fra i due sessi, maschile e femminile. Emergono così prepotentemente i punti di attrazione e respingimento con il film Barbie: femminismo ed eguaglianza. Attenzione, però. Si commette un errore se si afferma che Barbie è esemplare paradigmatico del femminismo in senso lato. Lo è solo di una fattispecie, come vedremo. Prima di procedere, prendiamo la trama del film per dare i punti cardinali su cui il lettore può orientarsi.

Il film si dirama quasi per intero a Barbieland, una terra dai connotati fortemente caricaturali costruita per e dalla donna. È effettivamente il femminile a farla da padrona.  Le donne possono essere tutto ciò che desiderano, presidenti, giornaliste, astronaute, permeano il pensiero pubblico, monopolizzano ogni dibattito culturale e sociale. L’uomo è semplice appendice, organo malriuscito, privo di ogni funzionalità e vitalità. Se venisse rimosso, nessuno se ne accorgerebbe. Il vir, inteso come uomo nelle sue specificità biologiche, è stato spodestato dal trono della virilità.

Ora questo scenario che, come detto poc’anzi, appare caricaturale nelle sue forme, non si distanzia però troppo dai possibili risvolti violenti di un femminismo intransigente, fortemente identitario. Ce lo rivela De Benoist nel suo saggio:

Il femminismo identitario privilegia anzitutto la difesa, la promozione o la rivalorizzazione del femminile, che si guarda bene dal confondere col maschile. [..] Il suo principale difetto non è stato certo promuovere il femminile, che era stato ingiustamente screditato in passato, invece di concepirlo come complementare del maschile, ma di porlo come opposto, o addirittura ostile.

È effettivamente ciò che avviene nel film Barbie. La conflittualità fra maschile e femminile, necessaria in una società che ricerca sempre nuovi equilibri di potere, invece di essere regolata da meccanismi di ritualizzazione, deflagra in forme di violenza bellica. L’uomo-Ken, presa consapevolezza del suo ruolo inerte, si ribella e lo fa usando tutti i mezzi a lui disponibili, innati o meno. Gli equilibri di poteri vengono così rovesciati. Il film in questa rappresentazione è ineccepibile, bisogna riconoscerlo. Lo è un po’ meno nel messaggio finale che veicola, sbrigativo e per questo a tratti superficiale, che non verrà però spoilerato in questa recensione. Basterà qui aggiungere alcuni punti discussi dal filosofo francese nel suo saggio per mettere meglio a fuoco l’immagine del film.

Il vuoto lasciato dalla scristianizzazione della civiltà occidentale è stato riempito da altri idoli, più terreni che ultraterreni. Uno di questi è l’eguaglianza, eretta a vera e propria religione civile. Il femminismo identitario ha cavalcato quest’onda di liberazione dopo secoli di ingiustizie sociali. Si badi bene: un’onda necessaria e quanto mai legittima. Ora, però, il sentimento egualitario, se spinto nelle sue forme più estreme e quindi dogmatiche, rischia di produrre dei paradossi fattuali. Se le donne recriminano diritti, spazi di potere, senza però entrare in una logica relazionale, di complementarietà con l’altro sesso, edificheranno un sistema uguale e contrario all’ideale che tanto sostengono, l’eguaglianza. Un paradosso non trovate? Ma, entrando nello specifico, cosa vuol dire complementarietà?

De Benoist è quanto mai chiaro in questo: aggiungere all’equazione relazionale dei due sessi, X e Y, un’altra variabile, la Natura. Così facendo, però, si entra nel campo minato per eccellenza. Non a caso il film Barbie si guarda bene dal prendere questa matassa che è la Natura e sbrogliarne i molteplici fili. Ma procediamo per passi.

Molta parte del femminismo identitario, e non solo, guarda con diffidenza, se non ostilità, il determinismo biologico che non può e non deve regolare i rapporti fra il maschile e il femminile. Tutto parte dall’annosa conflittualità evolutiva fra ciò che è Natura e ciò che è Cultura. La prima imprime un codice, un marchio della bestia, da cui non si può fuggire e a cui si rimane inevitabilmente legati, la seconda permette di modellare identità e quindi ruoli sociali, rimette all’individuo la possibilità di trovare il proprio posto nel mondo.

La Natura è paradigma anti-universale e anti-egualitario, la Cultura invece si erige a creta da modellare in nome del sentimento egualitario. Un esempio? Ce lo dà l’incipit del film Barbie. Bambine che giocavano con bambole e desideravano ricoprire il ruolo di madri imposto loro dalla società (o anche dal codice genetico?), rompono con la tradizione distruggendo il monolite del ruolo di madri, in uno scenario simile a quello di 2001-Odissea nello spazio di Stanley Kubrick.

Ecco la vittoria della Cultura sulla Natura, del determinismo culturale su quello biologico. Tutto nel nome dell’eguaglianza. Ora, però, si innesca un cortocircuito nel femminismo identitario, nel suo tentativo disperato di rincorrere l’eguaglianza. Perché, come abbiamo visto, se il femminismo identitario struttura l’identità sessuale partendo dalla separazione del femminile dal maschile, quindi da un fatto biologico, non può spingere troppo sull’acceleratore dell’eguaglianza generata da una programmazione culturale. Motivo? Il maschile non ha la capacità di varcare tutti i confini del femminile e così il contrario, che ci sia evoluzione culturale o meno.

La donna non si può liberare del fardello della maternità solo in nome dell’emancipazione e affidarlo all’uomo. In altre parole, se la X e la Y sono destinate a rimanere nell’equazione, un tasso di diseguaglianza, seppur piccolo, sarà necessario oltreché inevitabile. Solo così Natura e Cultura possono dare forma a quella complementarietà di cui parla de Benoist. Là dove uno si mostra mancante, subentra l’altro. La complementarietà nasce dalla precarietà innata dell’essere. Ho bisogno dell’altro perché da solo non basto.

Di fronte all’avanzata dogmatica dell’eguaglianza dei nostri giorni e alle inevitabili incongruenze del femminismo identitario, quest’ultimo sta perdendo terreno in favore di un altro femminismo, universalista o ugualitario, più coerente e in linea con gli sviluppi culturali dei nostri giorni. Potremmo forse dire che il primo si è fatto anticamera del secondo. Così lo descrive De Benoist:

Alla base del femminismo ugualitario ritroviamo l’idea che l’eguaglianza deve essere concepita nel senso della medesimità e che l’eguaglianza fra uomini e donne sarà veramente acquisita solo quando niente li distinguerà più veramente.

Via il femminile, via il maschile. Tutto diventa liquido. L’umanità diventa causa di sé stessa, può tutto e tutto ritorna a lei. Crea e modella e, perché no, disfa a sua discrezione. Non conta altro. Non è forse lo “schwa” grammaticale un prodotto culturale dell’umanità, emblema del nichilismo imperante? Linguaggio che si fa specchio della società di oggi e forse di domani. Un po’ come Barbie, un film nazional-popolare o forse sarebbe meglio dire internazional-popolare.

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