Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università degli Studi di Firenze. Membro della European Society for the History of Economic Thought (ESHET) e della Associazione Italiana per la Storia del pensiero economico (AISPE). Fa parte anche dell’Editorial Board della rivista «History of Economic Thought and Policy». Oltre a numerosi articoli e saggi su riviste nazionali ed internazionali, tra le sue pubblicazioni più recenti: Il pensiero dei padri costituenti: Ezio Vanoni(Il Sole 24 Ore, Milano 2013); Gli economisti e la costruzione dell'Europa(Editrice Apes, Roma 2019); A History of European Economic Thought (Routledge, London 2022).

L’Europa, per usare le parole ormai famose di Mario Draghi, si trova di fronte a una «sfida esistenziale»: o accetta un lento declino o promuove un radicale cambiamento. Non a caso, in questi ultimi mesi, si sono moltiplicate le iniziative dal basso a sostegno dell’Unione Europea (UE): appelli, manifestazioni di piazza, libri, documenti. L’Associazione Nuova Camaldoli di Firenze, raccogliendo anche una sollecitazione del cardinale Matteo Zuppi, sta predisponendo, con metodo partecipativo e nello spirito sia del Codice di Camaldoli del 1943 sia della Settimana Sociale di Trieste del 2024, un testo che si preannuncia come un vero e proprio “Nuovo Codice di Camaldoli” sull’Europa. Lo scopo delle poche pagine che seguono è portare un contributo al dibattito sull’Europa.

In rapida sequenza vedremo: primo, perché l’Europa, dopo decenni di incessante crescita, sembra ora bloccata e incapace di assumere coraggiose decisioni; secondo, cosa si nasconde nel buio della prolungata crisi e, terzo, come uscirne e riprendere il cammino verso una maggiore unità europea.

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L’Europa, dopo decenni di indiscussi successi, è entrata in crisi per una serie di complesse e intrecciate ragioni che non è facile districare. Quella fondamentale è che, per raggiungere l’agognata mèta dell’unità, ha scelto un sentiero impervio, lungo e accidentato, ma forse l’unico accessibile.

Nei drammatici anni quaranta del Novecento riemerge il sogno europeo. Tutti o quasi sono europeisti e lo sono per una ragione sostanziale: perché vogliono scongiurare il pericolo di un’altra guerra mondiale. L’Europa rinasce, dopo che era stata a lungo sognata nei secoli precedenti, per assicurare innanzitutto la pace. Ma gli europeisti degli anni quaranta prospettano tre alternativi sentieri per raggiungere l’agognata vetta dell’unità.

Il primo sentiero viene tracciato dai federalisti, a partire dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e altri. L’idea di fondo è che, per unire l’Europa, occorra preliminarmente creare le democratiche istituzioni di uno Stato federale: governo, parlamento, magistratura. Solo uno Stato federale avrebbe potuto gestire la complessa fase di apertura e integrazione delle diverse economie nazionali: prima la politica, poi l’economia.

Un alternativo sentiero viene disegnato dagli internazionalisti (Röpke, Mises), i quali ritengono che l’Europa rischi di diventare un mercato aperto all’interno ma chiuso verso l’esterno. Temono l’Europa fortezza e prospettano un nuovo ordine mondiale in cui le relazioni tra Stati sovrani siano regolate dai consolidati principi della tradizione liberale: libero scambio e moneta aurea.

Un ultimo sentiero viene immaginato dai funzionalisti (Mitrany), i quali ritengono che l’unica via accessibile sia quella di procedere ad una graduale e progressiva integrazione economica in attesa che si creino le condizioni per dar vita ad un’unione federale: prima l’economia, poi la politica. L’esaltante dibattito degli anni quaranta termina, di fatto, con la decisione degli Stati Uniti di affidare la gestione dei fondi del Piano Marshall per la ricostruzione dell’Europa ad un organismo comunitario: l’OECE (che poi diventerà l’OCSE). L’Europa sceglie, o è costretta o è indotta a scegliere, l’approccio funzionalista.

Il 9 maggio 1950 il Ministro degli esteri francese annuncia la costituzione della Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio (CECA), le due risorse che erano state all’origine dei conflitti bellici, tra Sei Paesi ex alleati e nemici di guerra: tre grandi (Francia, Germania occidentale e Italia) e tre piccoli (Belgio, Lussemburgo e Olanda). Il 9 maggio 1950 nasce (ufficialmente e simbolicamente) la nostra Europa e ancora oggi, non a caso, festeggiamo quel giorno. Quello europeo è però un “funzionalismo federalista” nel duplice senso che si ritiene che la costruzione della casa comune europea richiederà tempo e dovrà avvenire utilizzando i mattoni di una reale solidarietà tra i popoli europei e che, una volta ultimata, assumerà la forma di una Federazione. Si legge nella Dichiarazione Schuman: «L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto». E ancora: «La fusione delle produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime».

Nello stesso frangente storico nasce il progetto di dar vita ad una Comunità Europea di Difesa (CED) e, ad essa collegata, una Comunità Politica Europea. Il progetto fallisce nel 1954 per mano dei nazionalisti francesi di destra e di sinistra. L’Europa inciampa e cade sulla via del funzionalismo federalista. Ma subito si rialza e già nel 1955, con la Conferenza di Messina, inizia il cosiddetto rilancio europeo. I Sei Paesi Fondatori riprendono il cammino della progressiva integrazione economica in vista di una genuina Unione federale.

Il cammino europeo, visto retrospettivamente e in modo semplificato, è scandito da due grandi tappe. La prima è la costruzione del mercato comune o unico o interno. Occorrono quarant’anni, dal 1950 al 1990, per costruire uno spazio in cui siano riconosciute, almeno formalmente, le quattro libertà che connotano un mercato interno (per esempio quello italiano): la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Poi si pone o si ripresenta la questione della moneta unica. La questione può essere riassunta in questi termini: un mercato interno, per ben funzionare, ha bisogno di una moneta unica?

In teoria no: la Gran Bretagna, per esempio, è rimasta a lungo nel mercato unico europeo mantenendo la sterlina e i regimi di cambio fisso o stabile, come per esempio il Sistema Monetario Europeo (SME), rappresentano un utile surrogato della moneta unica. Ma nel 1988, prima ancora della caduta del Muro di Berlino, il Comitato Delors propone di creare una moneta unica europea. La ragione sostanziale, chiaramente espressa, è di rendere “irreversibile” il processo di unificazione europea. I regimi di cambio possono infatti implodere innescando guerre economiche che finiscono per bloccare o far regredite i processi di integrazione politico-economica. Sono implosi regimi storici quali il gold standard, il gold exchange standard, gli accordi monetari di Bretton Woods e, da lì a poco, sarebbe imploso anche lo SME mentre sopravvivono ancora dollaro, sterlina … e speriamo l’euro.

La seconda grande tappa del processo di integrazione economica europea consiste proprio nella creazione della moneta unica che richiede dieci anni: dal 1992, l’anno in cui viene firmato il Trattato di Maastricht, al 2002, l’anno in cui l’euro esce dai bancomat e entra nei portafogli dei cittadini europei.

Fino al 2008 tutto sembra procedere bene. Poi, dall’America, arriva lo tsunami della Grande Recessione. E qui l’UE commette il grande errore di imporre l’austerità a Paesi deboli come la Grecia nel pieno di una grande, non ordinaria, recessione. Commette un errore economico e politico. Non si accorge che le grandi recessioni richiedono un intervento straordinario e viola uno dei suoi principi costitutivi: la solidarietà tra i popoli europei. Da quel momento, non a caso, sorge o risorge il nazionalismo antieuropeista.

Dieci anni dopo, in occasione della crisi pandemica, le autorità europee dimostrano di aver appreso la lezione, sospendendo il Patto di Stabilità e Crescita e varando un piano straordinario di aiuti denominato Next Generation EU. Ma la ritrovata solidarietà non ferma l’ondata nazionalista e populista. L’Europa, negli ultimi anni, commette anche l’errore di non aver saputo compensare la necessaria limitazione delle sovranità nazionali con un’espansione della democrazia sovranazionale. L’UE viene ormai percepita da tanti come poco democratica o come priva di una piena legittimità democratica.

Insomma, e in breve, nel dopoguerra l’Europa ha compiuto un lungo cammino costellato da successi come la creazione di un mercato comune e di una moneta unica che hanno dispensato benessere economico e sociale ai popoli europei. Ma ora sembra vagare in una selva oscura. La ragione sostanziale è che il sentiero scelto era lungo e impervio. Ma forse era anche l’unico accessibile. Certo, tutto sarebbe stato più semplice se fosse stata creata una Federazione europea tra Francia, Germania e Italia, che però piangevano ancora i rispettivi morti di guerra. L’Europa è entrata in crisi anche perché ha commesso errori che hanno generato delusione e rabbia: ha negato la solidarietà a Paesi deboli come la Grecia e non ha compensato l’erosione delle sovranità nazionali con l’espansione della democrazia europea.

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Oggi l’Europa si trova a fronteggiare una serie di intrecciate crisi: culturale, democratica, demografica, economica e geopolitica. Al fondo di tutte queste crisi, almeno in parte, vi è un dilemma che affligge l’Europa da decenni: quello tra l’allargamento esterno ad altri Paesi e l’approfondimento o rafforzamento della governance interna. Certo, di nuovo, tutto sarebbe stato più semplice se fosse rimasta un’Unione tra i Sei Paesi fondatori. Ma avrebbe potuto negare l’accesso a Paesi soggiogati dall’Unione Sovietica che chiedevano di tornare ad essere considerati pienamente europei? Formalmente avrebbe potuto farlo, ma violando, di nuovo, il costitutivo principio della solidarietà tra i popoli europei. Insomma, le tante crisi che oggi attanagliano l’Europa sono, almeno in parte, imputabili alla generosa decisione di accogliere nella casa comune altri Paesi e popoli europei. Quanto più si allargava, tanto più l’UE si indeboliva nel dotarsi degli strumenti appropriati per fronteggiare, in modo efficace, le crisi emergenti.

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Il Trattato di Maastricht del 1992 aveva consolidato i due complementari e tradizionali metodi della governance europea: quello cosiddetto comunitario, affidato alle istituzioni sovranazionali (Parlamento e Commissione), e quello cosiddetto intergovernativo, affidato ai rappresentanti degli Stati nazionali (il Consiglio Europeo). Lo scopo era quello di armonizzare la duplice dimensione dell’UE: nazionale e sovranazionale. Jacques Delors, uno dei padri fondatori, amava definire l’UE una “Federazione di Stati nazionali” per evidenziare come, in Europa, gli Stati non potevano essere retrocessi al rango di regionali Stati membri e che la necessaria limitazione delle sovranità nazionali sarebbe dovuta avvenire nel rispetto del principio di sussidiarietà e cioè salvaguardando la loro insostituibile funzione. Il fatto è che negli anni successivi l’equilibrio si è spezzato e il metodo intergovernativo ha finito per prevalere su quello comunitario, concedendo a piccoli Stati come l’Ungheria il potere di paralizzare o condizionare l’intero processo decisionale ricorrendo al diritto di veto.

Oggi si pone la necessità di ristabilire un equilibrio rafforzando la governance democratica delle istituzioni sovranazionali (Parlamento e Commissione) rispetto al potere di indirizzo e interdizione del Consiglio Europeo. Vi sono tre ipotetiche soluzioni: la revisione dei trattati per abolire o limitare il diritto di veto; il ricorso alla cooperazione rafforzata, contemplata nei trattati, per consentire ad alcuni Paesi (minimo nove), di procedere nella direzione di una maggiore integrazione; la stipula di un nuovo trattato, sempre tra alcuni Paesi, per andare nella direzione di un rafforzamento delle istituzioni sovranazionali.

Vi è però la diffusa sensazione che le tre vie siano bloccate o ostruite. Infatti, la revisione dei trattati richiede l’unanimità e non si capisce perché i Paesi nazionalisti dovrebbero o potrebbero rinunciare al diritto di veto; allo stesso modo, la cooperazione rafforzata deve essere autorizzata dal Consiglio Europeo e uno Stato può richiedere che la decisione sia assunta all’unanimità; infine, anche la stipula di un nuovo trattato potrebbe, paradossalmente, rafforzare e non ridurre il potere degli Stati nazionali.

Come uscire, dunque, da questa impasse?

I padri fondatori, seguendo l’approccio del funzionalismo federalista, avevano immaginato, al termine del processo di integrazione economica, un’unica e comune destinazione: la federazione europea. Oggi è però irrealistico pensare ad un’Unione federale composta dagli attuali 27 Stati membri che, in poco tempo, qualora fossero accolte le domande di adesione, potrebbero diventare 30 o 36. Riprendendo un’idea che era già stata formulata da Jacques Delors, si fa strada la prospettiva di un’Europa a cerchi concentrici, in grado di conciliare il duplice e condivisibile obiettivo dell’allargamento e dell’approfondimento.

Un primo cerchio sarebbe costituito dai 45 Paesi che hanno aderito all’invito del Presidente francese Emmanuel Macron di dar vita ad una Comunità Politica Europea per sviluppare relazioni di buon vicinato e di cooperazione economica e politica.

Un secondo cerchio sarebbe formato dai 27 Paesi che aderiscono all’UE, partecipano al suo mercato interno, hanno o avranno (con l’eccezione della Danimarca) l’euro e beneficiano delle istituzioni comunitarie.

Infine, un terzo cerchio dovrebbe promuovere una vera Unione federale. Ed è qui, a mio parere, che si gioca la “sfida esistenziale”. Rilancio un’idea già abbozzata sulle colonne di questa rivista, sempre nella speranza che qualcuno possa raccoglierla e tradurla in una concreta proposta politica.

Vi sono 7 Paesi membri dell’UE che conservano ancora, e non sappiamo per quanto, un orientamento prevalentemente europeista. Cinque sono Paesi fondatori – Francia, Italia, Germania, Belgio e Lussemburgo – e due – Spagna e Polonia – sono rappresentativi dei due polmoni, per usare un’espressione di Giovanni Paolo II, con cui respira l’intera Europa. I 7 potrebbero sottoscrivere un trattato costituzionale ad hoc per creare il noyau di un’Unione federale incaricata di sviluppare una comune politica estera e di difesa, fiscale e industriale. Il mondo ha bisogno di un’Europa che parli con una sola voce e che operi, concretamente, per ricreare le condizioni della pace.

La nascitura Unione federale potrebbe istituire un’Assemblea ad hoc composta dai parlamentari già eletti nel Parlamento Europeo in rappresentanza dei Paesi aderenti oppure eleggere una seconda Camera competente solo sulle materie dell’Unione federale; affidare ad una Commissione ad hoc compiti esecutivi nelle stesse materie, rimuovendo il diritto di veto; lasciare la porta aperta, anzi spalancata, agli altri Paesi che, rispettando il trattato costituzionale, volessero entrarvi a far parte.

Insomma, e in breve, per uscire dalle crisi occorre un coraggioso scatto in avanti nella direzione della formazione di una genuina Unione federale.

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In conclusione, abbiamo inizialmente visto che l’Europa è entrata in crisi perché nel dopoguerra ha scelto un sentiero impervio, l’unico accessibile, ed è caduta in almeno due occasioni: quando ha imposto l’austerità, negando la costitutiva solidarietà, e quando non ha saputo compensare la necessaria limitazione delle sovranità nazionali con l’espansione della sovranazionale democrazia europea. Abbiamo poi visto che l’UE è oggi alle prese con una serie di intrecciate crisi che, al fondo e almeno in parte, rimandano allo storico dilemma tra allargamento ad altri Paesi e rafforzamento della governance interna. Infine, abbiamo visto che esistono almeno tre ipotetiche vie d’uscita dalla crisi.

Personalmente ritengo che l’unica via ancora aperta, seppur stretta e rischiosa, sia quella della costituzione di un’Unione federale nel quadro di un’Europa a cerchi concentrici che, complessivamente, si configuri come un’Europa federale, solidale e sussidiaria. In ogni caso, per uscire dalle crisi e riprendere il cammino dell’unificazione occorre riscoprire e riconoscersi in una comune e aggiuntiva identità culturale: quella europea. Altrimenti, come dimostra l’esperienza della Brexit, non sarà possibile restare neppure nel cerchio largo del mercato comune. L’Europa è la nostra comunità di destino. L’alternativa è vagare, chissà per quanto tempo ancora, nella selva oscura oppure accettare il lento declino profetizzato da Mario Draghi. L’identità culturale europea si nutre di principi e valori inscritti nella storia e nei trattati dell’Europa. Come spesso accade, i poeti sanno esprimere in poche parole idee complesse. Così nel libro recentemente pubblicato dal “poeta-giullare” Roberto Benigni, e significativamente intitolato Il sogno, si legge: «l’Europa è l’unico luogo al mondo che riesce a far convivere la democrazia con il mercato e con il welfare, lo Stato sociale, che è la sola, vera difesa dei più deboli».

 

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