Antonio Magliulo (1962) è professore ordinario di Storia del pensiero economico presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università degli Studi di Firenze. Membro della European Society for the History of Economic Thought (ESHET) e della Associazione Italiana per la Storia del pensiero economico (AISPE). Fa parte anche dell’Editorial Board della rivista «History of Economic Thought and Policy». Oltre a numerosi articoli e saggi su riviste nazionali ed internazionali, tra le sue pubblicazioni più recenti: Il pensiero dei padri costituenti: Ezio Vanoni (Il Sole 24 Ore, Milano 2013); Gli economisti e la costruzione dell'Europa (Editrice Apes, Roma 2019); A History of European Economic Thought (Routledge, London 2022).

Nell’opinione pubblica, e purtroppo anche tra tanti cattolici, si è insinuato il dubbio, quasi un tarlo, che l’Europa abbia smarrito la strada tracciata dai padri fondatori e rischi di finire in un buio vicolo cieco. Quella di oggi sarebbe, prevalentemente, un’Europa di banche e mercati, senza democrazia e alla mercé di un’élite tecnocratica. Il dubbio viene alimentato dai vincenti nazionalisti che reclamano un’Europa diversa, più rispettosa delle identità e sovranità nazionali.

È davvero così? L’Europa ha davvero smarrito la strada dei padri? In questa breve nota vorrei contribuire a dissipare il dubbio.

La tesi dei nazionalisti, al di là delle frasi retoriche e degli slogan propagandistici, pone un’obiezione seria e radicale che è importante cogliere. La tesi può essere così esplicitata: l’Europa rischia di finire in un vicolo cieco perché, per costruire un mercato comune e una moneta unica, ha imposto una compressione della democrazia nazionale che non è stata compensata, né può esserlo, da un’espansione della democrazia europea. E siccome la democrazia vale più dell’economia occorre fermarsi e tornare indietro restituendo agli Stati nazionali una parte della sovranità perduta e fare dell’Europa una Confederazione di Stati indipendenti competente su poche ed essenziali materie.

La tesi dei nazionalisti, mai così esplicita, poggia su una serie di concatenate evidenze storiche.

La prima, il processo di unificazione europea, iniziato nel secondo dopoguerra, è stato caratterizzato dalla progressiva integrazione delle economie nazionali. Sono serviti circa quarant’anni, dal 1950 al 1990, per creare un mercato comune e cioè uno spazio in cui fosse riconosciuta, almeno formalmente, la libera circolazione di beni, servizi, persone e capitali. Sono poi serviti altri dieci anni circa, dal 1990 al 1999, per dotarsi di una moneta unica, l’euro, considerata indispensabile per il buon funzionamento del mercato comune.

La seconda evidenza storica è che il processo di integrazione economica è stato accompagnato dalla progressiva erosione delle sovranità nazionali. Col mercato comune, gli Stati nazionali hanno rinunciato alla possibilità di imporre dazi su prodotti esteri o di concedere aiuti di Stato a imprese in difficoltà o considerate strategiche per lo sviluppo economico nazionale. Con l’euro, hanno rinunciato alla possibilità di stampare moneta o di svalutare il cambio per sostenere l’economia interna e, al tempo stesso, sono stati costretti a sottoscrivere il Patto di Stabilità e Crescita che limita fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico per finanziare la domanda interna. Insomma, gli Stati hanno perso, o visto fortemente depotenziati, i tradizionali strumenti di politica economica attraverso cui regolavano le economie interne (dazi, aiuti, moneta, fisco) esercitando la loro sovranità nazionale.

La terza evidenza storica è che la compressione della democrazia nazionale non è stata compensata dalla espansione della democrazia europea. La ragione sostanziale è che l’Europa non ha, né può avere, una Costituzione che conferisca una piena legittimità democratica alle istituzioni europee per la semplice, ma radicale, ragione che non esiste un popolo (un demos) europeo. L’Europa non potrà mai essere uno Stato federale, come lo sono per esempio gli Stati Uniti, che sono un popolo e hanno una costituzione.

La conclusione è che occorre fermarsi, tornare indietro, e trasformare l’Unione Europea in una Confederazione di Stati indipendenti. Il modello di riferimento, a cui si richiamano i conservatori, è “l’Europa delle patrie” di Charles de Gaulle.

Le tre concatenate evidenze hanno, a mio giudizio, un diverso significato storico.

La prima. Sì, è vero, nell’immediato secondo dopoguerra, i paesi fondatori dell’Europa, e tra questi la Francia di Schuman, la Germania di Adenauer e l’Italia di De Gasperi hanno scelto il cosiddetto approccio funzionalista all’integrazione europea. L’idea di fondo era che, preso atto della impossibilità di dar vita subito a autentiche istituzioni federaliste tra paesi che fino a poco tempo prima erano stati sui campi di guerra, occorresse avviare un processo di progressiva integrazione economica nella radicata convinzione che esso avrebbe richiesto e condotto ad una maggiore unione politica federale. L’integrazione economica è sempre stata intesa come funzionale all’unione politica. L’obiettivo, come risulta chiaramente espresso negli scritti dei padri fondatori e nel preambolo dei Trattati istitutivi, da Roma a Maastricht, era ed è una “unione sempre più stretta tra i popoli europei”.

La seconda. Sì, è vero, alla progressiva integrazione economica si è accompagnata l’avanzante erosione delle sovranità nazionali. Ma non poteva che essere così. Non può esserci un mercato comune tra paesi – Italia e Francia per esempio – che si fanno la guerra commerciale a colpi di dazi, aiuti di Stato o svalutazioni competitive. Non possono condividere la stessa moneta paesi – per esempio i venti dell’eurozona – che presentano livelli di indebitamento troppo divergenti. Il punto è che il mercato comune e la moneta unica generano benefici per ogni paese mentre la guerra commerciale e la diaspora monetaria danneggiano tutti.

La terza, cruciale, evidenza. No, non è vero che alla compressione della democrazia nazionale non sia corrisposto, e soprattutto non possa corrispondere, un’espansione della sovranazionale democrazia europea. È questa l’obiezione dirimente e, se fosse vera, anch’io sarei un nazionalista perché la democrazia vale più dell’economia, vale più del benessere generato dall’integrazione economica. Ma è falsa. Innanzitutto non è vero che in questi anni non sia cresciuta l’area della democrazia europea: basti pensare al ruolo che hanno assunto il Parlamento, direttamente eletto dai cittadini europei, e la Commissione che, sia pure nominata dai governi degli Stati membri, persegue un interesse europeo. Ma soprattutto non è vero che non possa crescere ancora. La tesi, spesso implicita, dei nazionalisti è che l’Europa non potrà mai essere un vero Stato federale perché non esiste un popolo europeo nel cui nome si possa approvare una costituzione che legittimi l’esercizio del potere. Insomma, senza il popolo non può esserci una costituzione e senza la costituzione non può esserci una piena legittimità democratica.

In un illuminante saggio, apparso in un volume pubblicato in italiano nel 2003 col titolo La Costituzione dell’Europa, Joseph Weiler, una delle massime autorità in materia, ha mostrato la fallacia di questa tesi sostenendo che l’Unione Europea assomiglia a uno Stato federale ma non lo è (perché effettivamente manca un demos che approvi una costituzione “formale”), non vuole esserlo (perché intende salvaguardare l’esistenza di una pluralità di popoli o demoi) e, soprattutto, non è necessario che lo sia perché dispone già di una legittima e funzionante costituzione “materiale” che mira a rendere sempre più stretta l’unione tra popoli diversi in un quadro che Weiler definisce di “federalismo costituzionale”. Insomma, l’Unione Europea è già democratica, è già un’Unione federale anche se il federalismo adottato non assume la forma del tradizionale Stato federale. La conclusione del saggio (pp. 534-35) è eloquente:

Ma a chi afferma che non c’è niente che possa ostacolare l’elaborazione di una Costituzione europea che riconosca gli stessi concetti e principi illustrati, io dico: l’Europa ha già una Costituzione di questo tipo. Essa ha creato un suo modello di federalismo costituzionale.

L’Europa non può fermarsi né tornare indietro. Non può fermarsi perché il mercato comune e la moneta unica non bastano. Lo abbiamo visto con la pandemia quando l’Unione Europea, correggendo il drammatico errore commesso imponendo l’austerità nel pieno della Grande Recessione del 2008, ha approvato il piano straordinario di aiuti, innanzitutto in favore dell’Italia, denominato Next Generation EU. Ma ora quel piano, che implica il reperimento di maggiori risorse finanziarie anche col ricorso ad un debito pubblico comune, va reso permanente e per renderlo tale, e cioè per adottare una comune politica fiscale, occorre rafforzare la già esistente democrazia europea perché, come insegnano i rivoluzionari americani, “no taxation without representation”. E non è possibile neppure tornare indietro, rinunciando all’euro o al mercato comune, perché, come dimostra l’esperienza della Brexit, fuori dall’Europa si sta peggio, da ogni punto di vista, e perché la Confederazione è troppo debole e fragile per gestire una tale complessità.

L’Europa deve andare avanti lungo la strada tracciata dai padri fondatori. Non è fuori strada e non ha davanti a sé un buio vicolo cieco. Ma deve fare attenzione. Davanti a sé ha la nuova sfida della differenziazione. Negli ultimi anni, in modo quasi surrettizio, siamo passati dalla prospettiva di un’Europa in cammino verso un’unica e comune destinazione, quella degli Stati Uniti d’Europa, alla prospettiva, ancora nebulosa, di un’Europa differenziata, in cui alcuni paesi, se lo desiderano, stanno solo nel mercato comune, altri anche nell’eurozona e altri formano una vera e propria Unione federale (gli Stati Uniti d’Europa) che comprende anche una comune politica fiscale, estera e di sicurezza. Un’Europa differenziata e aperta alla mobilità interna tra i diversi livelli di integrazione.

È difficile stabilire se, e a quali condizioni, un’Europa differenziata o multilivello possa funzionare. Ma una condizione è sicuramente necessaria: il riconoscimento e il rafforzamento di una comune identità europea. Altrimenti non è possibile stare neppure nel mercato comune, come dimostra l’esperienza della Brexit.

L’Europa deve fare attenzione a non perdersi. La strada dei padri è illuminata da due convergenti fari: la solidarietà tra i popoli e la sussidiarietà nella ripartizione (orizzontale e verticale) del potere. Il federalismo dei cattolici è sempre stato sussidiario, da De Gasperi a Delors, ed è culturalmente diverso da quello di Altiero Spinelli, per esempio. Spinelli voleva assorbire gli Stati nazionali in una forte Federazione europea. De Gasperi e Delors volevano invece salvaguardare l’identità e la sovranità nazionali trasferendo verso l’alto solo i poteri strettamente necessari per svolgere funzioni che non potevano più essere assolte a livelli inferiori. Il fatto è che oggi quelle funzioni sono enormemente cresciute, dalla gestione dei flussi migratori alla moneta, ma vanno ancora gestite in conformità al principio di sussidiarietà, che è stato recepito nei trattati europei. Nel preambolo del Trattato di Maastricht, per esempio, si legge che i rappresentanti dei Dodici paesi sottoscrittori sono: «Decisi a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà […]».

Se il modello di riferimento dei conservatori è “l’Europa delle patrie” di Charles de Gaulle, quello dei cattolici popolari è “la nostra patria Europa” di De Gasperi (titolo di un famoso discorso pronunciato il 21 aprile 1954 e del libro a lui dedicato dalla figlia Maria Romana).

Mi piace concludere questo articolo proprio con le parole di De Gasperi, nella speranza che tutti i cattolici possano sentire la responsabilità storica di continuare a costruire, e non distruggere, la casa comune europea. Scriveva De Gasperi il 13 ottobre 1953:

L’Europa esisterà e nulla sarà perduto di quanto fece la gloria e la felicità di ogni nazione. È proprio in una società più vasta, in un’armonia più potente, che l’individuo può affermarsi, dar la misura del proprio genio.

Loading