Docente di Filosofia e Storia, ha pubblicato in riviste di settore, on-line e tradizionali, studi che concernono in particolare la Filosofia politica. Gli argomenti trattati riguardano autori come Aristotele, Agostino, Machiavelli, John Stuart Mill, Leopardi e tematiche più generiche come il rapporto tra l’etica e la politica, la relazione tra la legge e la giustizia, il liberalismo contemporaneo, la coppia politica destra e sinistra.

La tragica fine che ha avuto in sorte ha quasi oscurato la sua figura di uomo di governo e statista, poiché Aldo Moro è ricordato soprattutto come il politico rapito e ucciso dalle Brigate rosse, ma ciò che è stato ed ha compiuto in precedenza merita un ricordo retrospettivo. Ci limiteremo, ovviamente, solo ad alcuni aspetti che restituiscano qualche elemento della sua personalità politica e umana.

Cominciamo, comunque, da quei 55 giorni, tra il rapimento di via Fani (16 marzo 1978) e il ritrovamento di via Caetani (9 maggio), che rappresentano una delle fasi più buie e più travagliate del nostro paese, uno spartiacque, come l’ha definito qualcuno, paragonabile a quello che è stato l’assassinio Kennedy per gli Stati Uniti. In quella vicenda, possiamo dirlo con certezza, si trova racchiusa come in un compendio tutta la storia della nostra Repubblica. Non è, purtroppo, l’unico, ma solo uno dei tanti misteri italiani che non hanno trovato una verità. Ma la verità, diceva Moro, ci illumina, ci aiuta ad essere coraggiosi. Dopo numerosi processi e due Commissioni parlamentari d’inchiesta sappiamo molte più cose, abbiamo la certezza che le prime versioni necessitano di essere aggiornate, ma anche l’evidenza che c’è ancora tanto da chiarire. La seconda Commissione, presieduta da Giuseppe Fioroni, con l’ausilio di strumenti adeguati, ha potuto appurare diverse novità e ha aperto nuovi spiragli. Proprio Fioroni, tuttavia, dice apertis verbis che ci stiamo muovendo all’interno di “un perimetro di verità dicibili”, il che lascia intendere quante verità indicibili siano ancora coperte da un velo. In sostanza, non sappiamo quanto sia ampio il fossato che ci separa dal conoscere le cose come stanno realmente. Tuttavia, egli afferma anche che i lavori della Commissione da lui presieduta aprono alla comprensione di un percorso da proseguire, perché c’è ancora qualcosa che si può scrivere. Ignoriamo, ad esempio, quanti fossero gli assalitori di via Fani. Si parlò di cinque, Morucci disse nove, in molti sostengono che un’operazione di quel tipo ne richiederebbe una ventina; secondo un report della Stasi – confermato dai nostri servizi –, come rivelato ai media dallo stesso Fioroni, c’è stato il coinvolgimento di quaranta persone. La scena di via Fani, secondo lo stesso presidente della Commissione, non è mai stata scandagliata a dovere. Vi sono molti aspetti di quei fatidici 55 giorni che andrebbero approfonditi per definire le molte ombre che vi si stendono. Grazie alla collaborazione dei RIS, ad esempio, la Commissione Fioroni ha potuto appurare che assai difficilmente l’omicidio dell’onorevole Moro sia potuto avvenire nel garage di via Montalcini n. 8 – che sicuramente non è l’unico covo in cui è stato nascosto – e che egli non è stato ucciso all’interno della Renault 5, ma a bruciapelo, in piedi.

La vicenda va letta e inquadrata all’interno del panorama geopolitico dell’epoca: eravamo nel pieno della Guerra fredda e l’Italia era un paese particolarmente tenuto sotto controllo, trovandosi al confine dei due mondi. Fioroni così è espresso:

Eravamo dentro la Guerra fredda e l’abbiamo giocata fino in fondo. Moro l’ha giocata sulla sua pelle. Era sgradito sia all’Est che all’Ovest. Egli è colui che andò all’ONU per dire: «Non possiamo pensare che esistano solo gli Stati che scrivono la storia e gli altri che sono costretti a subirla. Servono la multilateralità dei rapporti e la cooperazione internazionale». […] È colui che in politica interna dice: «Bisogna allargare la base politica del consenso valoriale per arrivare ad una democrazia integrale […]». Moro muore per questo (Tv2000, 16 marzo 2018).

Aldo Moro era dunque inviso sia al mondo occidentale, perché osava intervenire di sua iniziativa nel quadro dell’ordine stabilito a Yalta, sia al di là della cortina di ferro, poiché da quella prospettiva era del tutto inconcepibile che un partito comunista collaborasse con il governo di un paese occidentale o andasse al potere per via democratica. Il 9 maggio 1978, l’ex presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ammetteva di essere preoccupato, perché «accanto al cadavere di Moro c’è quello della Prima Repubblica, che non ha saputo difendere la vita del più generoso uomo politico del nostro paese».

Ma chi era Aldo Moro? Innanzitutto, come lo ricorda chi gli è stato vicino, una persona cortese e molto riservata, da sembrare quasi fredda, ma molto attenta e rispettosa di chiunque si trovasse di fronte a lui, che ascoltava sempre con profondo interesse il suo interlocutore. Era poi un professore, che riusciva a stabilire un legame molto profondo con i suoi studenti, con i quali voleva sempre condividere del tempo ulteriore a quello delle lezioni, per conoscerli meglio. Non erano ancora giunti i tempi di internet e dei cellulari e lui chiedeva, annotandolo in un apposito taccuino, l’indirizzo di ogni studente, che utilizzava, non di rado, per inviare cartoline di saluto durante i suoi viaggi. Era un politico cattolico, ma che difese costantemente l’indipendenza del partito cattolico dalle gerarchie ecclesiastiche. Queste, infatti, non sempre approvavano le sue scelte – a partire dall’apertura al PSI (all’epoca considerato il “cavallo di Troia” dei comunisti) – compiute nel nome della laicità dello Stato e di una lungimiranza che a quel tempo non poteva essere riconosciuta. Quando era segretario del partito, nella relazione tenuta al Congresso di Napoli del 1962, dichiarava che

l’autonomia dei cattolici impegnati nella vita pubblica è la nostra assunzione di responsabilità, […] il nostro modo personale di rendere un servizio e di dare, se possibile, una testimonianza di valori cristiani nella vita sociale,

mentre, anni dopo, ribadiva che nella caratterizzazione cristiana del partito non c’è «nessuna pretesa di utilizzare un’inammissibile disciplina confessionale, di costruire una sorta di sbarramento che impedisca a taluni di entrare e ad altri di uscire» (XII Congresso della DC, 1973).

Uomo politico fin dalla Costituente, Aldo Moro fu segretario, poi presidente del principale partito italiano della prima Repubblica. Fu ministro degli Esteri e cinque volte presidente del Consiglio. Sotto il suo governo, o comunque con la sua collaborazione, furono varate alcune riforme degne di nota. In primo luogo quella della scuola media (1962), con l’innalzamento dell’obbligo scolastico a 14 anni e l’abolizione dell’avviamento professionale. Un provvedimento che eliminava una barriera tra ragazzi di estrazione sociale diversa, i cui destini erano scritti già in partenza, offrendo maggiori opportunità di progredire negli studi anche alle ragazze. Nel 1975, invece, la riforma del diritto di famiglia stabiliva la parità giuridica fra i coniugi. Meritano di essere ricordati l’abolizione del licenziamento senza giusta causa (confluita nello Statuto dei lavoratori), l’accordo di Copenaghen (1969) con il suo omologo, il ministro degli Esteri austriaco, in seguito al quale alcune forze politiche altoatesine rinunciarono all’idea di annettersi all’Austria e divennero rappresentanti dei gruppi linguistici minoritari presso le istituzioni italiane; infine, il trattato di Osimo (1975), che fissò definitivamente i confini tra Italia e Jugoslavia.

Fu tra gli ideatori del centro-sinistra, che aggregava alla maggioranza un PSI su cui gravavano ancora molte diffidenze. Il centro-sinistra è stata un’operazione politica di altissimo spessore, poiché immetteva definitivamente nel solco della democrazia una forza che in precedenza aveva guardato a Est, aprendo nuove prospettive di dialogo alla DC. Il suo nome, tuttavia, è legato soprattutto al “compromesso storico”. Va precisato, per correttezza, che Moro non utilizzava questa espressione, a differenza di Berlinguer, perché l’idea del compromesso – spiegava – fa pensare ad un punto di incontro tra posizioni distanti, che avviene a metà strada e quindi rischia di snaturare sia l’una che l’altra. L’obiettivo era, invece, un accordo programmatico, ma non politico. Inglobando il PCI dopo il PSI, la democrazia italiana si avviava, secondo il suo pensiero, verso un più alto grado di maturità. Nel discorso ai gruppi parlamentari di Camera e Senato del 28 febbraio 1978, che rimane come il suo testamento politico, egli rivendica la serietà e il valore della scelta che ha condotto alle larghe intese, maturata con lunghe riflessioni e molteplici confronti. Il percorso di maturazione della democrazia contemplava, secondo un tragitto che il giornalista (ed ex studente di Moro) Giorgio Balzoni ha tentato di ricostruire con precisione, anche l’inclusione delle Brigate rosse (G. Balzoni-F. Rossi, Aldo Moro, il professore e Un piano per le Br, Lastarìa, Roma 2022). Balzoni racconta che quando il maresciallo Oreste Leonardi, capo della scorta di Moro e al suo fianco per lunghi anni (vittima di via Fani insieme con Raffaele Iozzino, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi), gli rivelò questo progetto, chiuse con queste parole: «Lo sai che lui vede il futuro con anni di anticipo». A chi legge potrebbe sembrare un’idea balzana, ma non va dimenticato come in altri paesi, movimenti inizialmente terroristici si siano poi aperti al confronto, come l’IRA (che fece un accordo con Tony Blair nel 1998) e l’ETA (che, tra il 2006 e il 2011, prima aprì una trattativa con Zapatero e poi entrò in parlamento). Moro aveva nel sangue la vocazione al dialogo, anche con i più lontani. Riteneva, inoltre, che se molti giovani avevano abbandonato la via democratica per seguire quella della rivendicazione violenta, ciò nascesse da un disagio, che andava capito e sul quale era compito degli uomini di Stato intervenire. Si interessò da subito al movimento del Sessantotto e, come ebbe a dire molti anni dopo il presidente del Senato, Franco Marini, era l’unico tra i politici che era riuscito a capirlo. Fece anche qualche mossa in anticipo, poiché già nel 1967 – mentre era capo del governo – costituì una commissione composta da tutti i rappresentanti giovanili dei partiti.

Possiamo asserire che questa operazione fosse l’ultimo tassello di un disegno politico che nasceva molti anni prima, a partire dall’intesa con il PSI, per il centro-sinistra, e che aveva nel cosiddetto “compromesso storico” il passaggio cruciale: «propositi che soltanto lui poteva immaginare e soltanto lui realizzare, cercando di far emergere i terroristi dall’universo in cui si nascondevano e sradicarli dal territorio della violenza» (Balzoni, p. 253). La moglie dello statista, Eleonora Chiavarelli, rivelò alla Corte d’assise di Roma, nel 1982, come suo marito amasse ripetere che chi si occupa di politica deve fare i conti con il partito armato, con l’obiettivo di aprire un dialogo per incanalare le loro aspirazioni nei processi democratici, abbandonando la violenza e la distruzione. Prima ancora, alla Commissione parlamentare, nell’agosto 1980, aveva riferito che l’onorevole Moro «avrebbe voluto distruggere e rimuovere le cause che portavano i ragazzi a fare cose di questo genere, in modo che potessero esprimere il loro pensiero, la loro sfiducia e tutto quello che volevano dire con armi proprie, con quelle dell’uomo che parla e fa parlare la propria intelligenza». Per questi motivi egli da anni studiava il terrorismo, cercando di afferrare i suoi meccanismi e carpirne le motivazioni. Comunicare con i gruppi politici di sinistra e farli entrare a pieno titolo nell’area democratica era anche un modo per isolare ulteriormente le forze estremiste, come le Brigate rosse, per costringerle in qualche modo al confronto politico, abbandonando quello criminale (Balzoni, p. 295). Che Moro cercasse di approcciare il fenomeno terroristico con logiche politiche, anziché con esclusivi metodi militari, è stato scritto anche dallo storico Guido Formigoni (Aldo Moro, lo statista e il suo dramma, Il Mulino, 2016). Non solo, ma anche i ripetuti inviti alla trattativa durante i giorni della prigionia possono – o forse devono – essere intesi proprio come l’occasione per iniziare un confronto e non banalmente come le richiesta (assolutamente legittima!) di fare qualcosa per salvare la sua vita. Tra le spiegazioni che furono date per giustificare la chiusura ad ogni trattativa con i brigatisti, vi era anche quella di non vanificare il sacrificio degli uomini della scorta. In realtà si potrebbe ben asserire, con Balzoni, che quegli uomini erano lì proprio per difendere la vita del presidente Moro e che quindi lasciare morire anche lui sarebbe stata un’ulteriore offesa alla loro memoria (Balzoni, p. 114). Dal punto di vista umano, questa chiusura è stata la punta più lacerante di quelle concitate giornate.

Una democrazia compiuta vive della regola dell’alternanza, cosa che all’epoca era impossibile in Italia, perché la Democrazia cristiana non aveva alternative politiche, se non il PCI, ma anche perché all’Italia non sarebbe stato permesso, perché la DC governava con la benedizione di Yalta. Per quanto si trattasse di un’idea ancora acerba e immatura, è legittimo considerare che Moro già guardasse con larghe vedute a quel tipo di approdo. Nel dicembre del 1974, mentre espone le dichiarazioni programmatiche del suo quarto governo, richiama «quelle profonde diversità che rendono meno credibile in Italia, che non sia altrove, la prospettiva di quella vera alternanza al potere delle forze implicate nel gioco politico». Disegno intelligente e coraggioso quello della democrazia dell’alternanza, ma giocato troppo in anticipo, secondo lo storico Miguel Gotor. Sia chiaro, Moro vedeva negli Stati Uniti un grande alleato, ma ambiva ad un ruolo più autonomo per l’Italia, un ruolo che portasse all’ammodernamento del paese, che ne rafforzasse il sistema democratico, troppo ingessato, un ruolo che però nelle maglie della Guerra fredda non le era permesso assumere. La fedeltà all’alleato non venne mai meno, ma lo statista immaginava che l’Italia potesse svolgere un ruolo più attivo negli intrichi internazionali. Un’ipotesi che non poteva essere concessa al nostro paese.

In una intervista, Cossiga lo definì un teorico della politica più che uno statista, un appellativo che secondo Balzoni – che tra i suoi studenti era uno dei più vicini e confidenti – avrebbe fatto arrabbiare il professore (p. 171), perché egli si sentiva un uomo di governo e non un filosofo della politica. In quanto giurista, era contrario all’ergastolo, perché non permette al condannato la rieducazione a cui la pena, a suo avviso, deve essere indirizzata. Una pena perpetua – diceva – non può essere accettata. In questo senso assumono un significato particolare le sue frequenti visite alle carceri, sia da ministro, sia da professore che accompagnava gli studenti, nelle quali osservava con interesse le condizioni dei detenuti, intervenendo presso le istituzioni di competenza, quando verificava qualcosa che non andava.

Nella sua concezione giuridica, e quindi nell’azione politica, al centro di tutto vi era la persona umana, la cui dignità trova respiro nella solidarietà sociale, attraverso lo sviluppo delle associazioni umane, a cominciare dalla famiglia. Intervenendo al Congresso DC di Napoli, diceva:

Se l’obiettivo di una forza politica che operi in una democrazia moderna è di salvaguardare nel modo più completo la dignità e i diritti della persona umana, dove la DC potrebbe attingere meglio ispirazione e guida se non nell’ambito di una dottrina e di una esperienza che, come quella cristiana, dà alla persona una posizione dominante e ne fa il principio e la fine di ogni processo storico?

La promozione della dignità della persona umana, perorata sia in termini teorici nelle sue lezioni, sia in modalità pratiche nella sua azione politica, gli è stata riconosciuta anche dal filosofo del diritto Norberto Bobbio. Questi, in un convegno organizzato dalla Fondazione “Aldo Moro” nel 1979, dichiarava che era rimasto colpito dalla coerenza dell’atteggiamento etico-politico del leader democristiano. Se dunque Moro non può – o non voleva – essere chiamato un teorico della politica, un filosofo a cui lo si può accostare è certamente Jacques Maritain. Cattolico come lui, Maritain è un assertore del primato dell’uomo come persona e sostenitore di una democrazia dei valori, il cui fine è il bene comune, che consiste nel rispetto della dignità dell’essere umano, subordinando lo Stato e le sue ragioni sempre e comunque ai diritti inviolabili della persona. Abbiamo visto quanto valesse la democrazia, per Aldo Moro, al di là di ogni procedura, ma anche quest’ultimo aspetto emerge chiaramente dalle sue parole e azioni.

In occasione del venticinquesimo anniversario dell’agguato di via Fani, in un’intervista concessa ad Aldo Cazzullo, l’ex presidente della repubblica (all’epoca del rapimento ministro dell’Interno), Francesco Cossiga ricostruiva la concezione che il presidente della Democrazia cristiana aveva dello Stato:

Moro considerava lo Stato una sovrastruttura tecnica della società civile, e quindi non considerava lo Stato titolare di un prestigio più importante della salvezza della sua famiglia, come di qualsiasi altra famiglia o dell’interesse del suo Luca [il nipotino di Aldo Moro], come di qualsiasi altro Luca.

Cossiga sottolinea che nella chiusura ad ogni tipo di trattativa in nome di logiche di Stato, Moro vedeva, a prescindere dalla sua singola persona, una degradazione dello Stato democratico in quanto tale, perché esso mai deve anteporre se stesso le sue esigenze alla vita dei cittadini, ma al contrario la deve promuovere e difendere. Il 21 aprile 1978, 74 giovani, che erano o erano stati studenti di Moro redassero e firmarono un documento che conteneva le seguenti parole: «Gli allievi del professor Aldo Moro esprimono la ferma richiesta al governo, alla DC e a tutte le forze politiche e sociali del paese, perché si impegnino ad accertare realisticamente le condizioni per la sua liberazione, ritenendo che la difesa dello Stato non deve essere schematica e non può contrapporsi al valore della vita umana». Sicuramente un gesto dettato dall’affetto, ma dal quale affiora limpidamente come l’insegnamento del professore avesse fatto breccia nell’animo di questi ragazzi, che ripudiavano la ragione di Stato a vantaggio della dignità umana prima di tutto e sopra ogni cosa.

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