Dottore di ricerca in Diritto presso l’Università di Londra (Birkbeck College), in Teologia presso l’Università di Ginevra e in Studi umanistici presso l’Università di Trento, Massimiliano Traversino Di Cristo è stato recentemente enseignant-chercheur contractuelpresso l’Università di Parigi-Saclay ed è attualmente chercheur invitépresso il Centre d’études supérieures de civilisation médiévale dell’Università di Poitiers. I suoi principali interessi di ricerca si concentrano nei campi della storia del diritto, della filosofia morale e della storia della Chiesa, con speciale attenzione alla storia delle idee del tardo Medioevo e della prima età moderna. È fondatore e co-direttore, con il Dr. Anton Schütz, del Centre for Research in Political Theology (già presso il Birkbeck College dell’Università di Londra e ora integrato nell’Università del Kent).
Recensione a
Alberico Gentili e lo jus post bellum. Prospettive tra diritto e storia
Atti del convegno della XVIII Giornata Gentiliana, San Ginesio, 21-22 settembre 2018
a cura di L. Lacchè e V. Lavenia
EUM, Macerata 2020, pp. 188, €20.00.
A torto o a ragione, Alberico Gentili, tra i maggiori giuristi del Cinquecento e tra i padri del diritto internazionale moderno, è oggi annoverato tra i teorici della laicità dello stato e della secolarizzazione. Nello sviluppo delle ricerche che lo riguardano, un merito particolare è da ascrivere a un centro studi fondato nei primi anni Ottanta del Novecento nella sua città natale, San Ginesio, e a lui intitolato: il Centro internazionale di studi gentiliani. Il volume che qui si presenta raccoglie gli atti dell’ultimo dei convegni organizzati da questo centro, dedicato al terzo e conclusivo libro del De iure belli (1598), nel quale Gentili discute le fasi finali della guerra e l’instaurazione della pace. Il volume contiene sei saggi oltre a una breve introduzione: due sviluppano il tema dei lavori in chiave storico-giuridica; i restanti secondo un approccio contemporaneo. Prima di inoltrarci nell’analisi, è opportuno dire qualcosa sulla struttura del De iure belli. L’opera è divisa in tre libri, ciascuno rivolto a un tema particolare: il primo discute le cause legittime della guerra, mentre il secondo e il terzo trattano dei modi altrettanto legittimi per condurla e concluderla. Utilizzando la terminologia oggi corrente, i tre libri coincidono grossomodo con la tripartizione del diritto di guerra in jus ad bellum, jus in bello e jus post bellum. Come diversi dei saggi di questo volume dimostrano, l’uso di quest’ultimo concetto, in sé storicamente fondato, quale categoria indipendente di norme giuridiche è tuttavia recente e tuttora oggetto di discussione.
Passando alla parte storica del volume, il saggio di Alain Wijffels si concentra esclusivamente su Gentili, mentre quello di Nuzzo ne tratta all’interno di un’analisi più generale, attenta alle difficoltà interpretative appena accennate. Concentrandoci sul testo di Wijffels, egli esordisce definendo il concetto di jus post bellum «cornerstone» (p. 17) dell’intero De iure belli. Ciò dipenderebbe dalle convinzioni di Gentili sul ruolo dei giuristi, in quanto «political councillors» (p. 18), nello sviluppo di una public governance coerente con il rafforzamento dello stato nella prima età moderna e sull’importanza, in tale contesto, dei temi discussi nel terzo libro del De iure belli. Secondo Wijffels, i giuristi del tempo di Gentili dovevano disporre di basi dottrinarie estese al campo della morale e della religione e ciò emergerebbe in particolare nei capitoli 14 e 19, sui trattati di pace e sull’opportunità di concludere i trattati stessi tra parti di diversa confessione religiosa, e nel 13, sul tema dell’instaurazione di una pace duratura. Per essere tale, pur riconoscendo al vincitore un’ampia discrezionalità, il nuovo ordine impartito non doveva, secondo Gentili, limitare eccessivamente le libertà del vinto. Solo in questo modo, la pace sarebbe stata avvertita come “giusta” da entrambe le parti, con minori rischi di un ritorno alle ostilità.
Nel discutere dello jus post bellum in quanto categoria, Nuzzo ne propone una visione temporalmente estesa oltre la conclusione del trattato di pace, fino a «che persistano le condizioni che hanno originato la guerra» (p. 42). Una tale visione pone l’accento sui doveri della parte vincitrice del conflitto nei confronti del vinto: «Arriviamo così al cuore del problema posto dallo jus post bellum, cioè al rapporto tra diritto e morale. […] L’unica differenza allora rispetto alle altre due categorie che lo precedono (jus ad bellum / jus in bello) è che lo jus post bellum riguarda il futuro e si relaziona in modo diretto con la pace» (ibidem). Leggendo le considerazioni di Nuzzo su Gentili, in particolare sul tema dei rapporti con i nativi americani all’indomani dell’arrivo europeo nelle Americhe, Gentili sembra fare da apripista a «un percorso genealogico alternativo in grado di mostrare l’altro lato del discorso giuridico occidentale, quello coloniale, ricostruendone gli sviluppi fino al XX secolo» (p. 60). Pur nella bontà generale dell’analisi, Nuzzo attribuisce tuttavia a Gentili – in maniera affrettata e inesatta – l’idea che i nativi americani possano «perdere facilmente la loro condizione di umani» (p. 56) e una difesa, in realtà assente, della schiavitù sul piano del diritto naturale.
Le questioni poste dall’uso dello jus post bellum come categoria sono maggiormente approfondite nei saggi a vocazione contemporanea del volume, evidentemente – come già per Nuzzo – alla luce di riferimenti a situazioni recenti. Nel primo di questi testi, quello di Alessandro Colombo, salta all’occhio l’assenza di qualsiasi considerazione su Gentili in riferimento al tema oggetto del saggio. Ciò detto, centrale per l’analisi proposta è la comprensione dei rapporti, da un lato, con le due categorie di jus ad bello e jus in bello e, dall’altro, con la politica. Sul primo punto, il ricorso allo jus post bellum quale «terzo corpo di norme» sarebbe ammissibile solo a condizione che esso sia «capace di procurare ulteriori limiti alla legittimità della guerra» (p. 63). Ed è qui che interviene il secondo aspetto, il rapporto con la politica, tanto da far dipendere la validità della categoria dello jus post bellum dalla risposta a una domanda fondamentale: «che cosa può davvero aggiungere […] un ipotetico jus post bellum ai principi della prudenza politica?» (p. 69). Colombo ricollega l’emergere della discussione sullo jus post bellum negli ultimi decenni agli esiti della Guerra fredda e alla recente lotta al terrorismo internazionale. Un simile insieme di situazioni impone, secondo Colombo, una serie di riflessioni su quali siano oggi le “giuste” cause di un conflitto al fine di limitare il ricorso alle armi e distinguere tra un loro uso legittimo e uno solo legale, dipendente dal diritto internazionale.
Se i saggi di Nuzzo e, in misura maggiore, di Colombo, nell’affrontare le questioni del diritto postbellico in un’ottica attenta alla riflessione contemporanea, lo fanno offrendo una riflessione a carattere generale, l’analisi offerta dai restanti tre contributi del volume si concentra su aspetti tematicamente più circoscritti del diritto internazionale odierno: il tema delle riparazioni di guerra, affrontato da Giulio Bartolini; quello delle situazioni territoriali illecite, discusso da Marco Pertile; infine l’analisi di tre casi giudiziari che hanno coinvolto il governo del Regno Unito nell’ambito del suo intervento nelle recenti guerre in Iraq e Afghanistan, ad opera di Samuel Wordsworth, tra i consulenti legali coinvolti in questi casi.
Bartolini e Wordsworth non tornano sul problema delle difficoltà legate alla categoria dello jus post bellum, diversamente da Pertile. Tuttavia, mentre il titolo del testo di Wordsworth la menziona espressamente indicandone chiaramente l’accettazione, ciò non avviene nel saggio di Bartolini. L’assenza di riferimenti espliciti in quest’ultimo sembra dipendere, da un lato, dalla specificità del tema affrontato, rientrante già per sua natura nelle fasi successive alla conclusione della guerra; dall’altro, l’identificazione, questa sì espressa, di infrazioni dello jus ad bellum e dello jus in bello sembra implicitamente negare la sussistenza di una terza categoria di norme. Per quanto riguarda invece Pertile, richiamando il dibattito sullo jus post bellum, egli ne rinviene le ragioni nell’aumento degli interventi di pace-keeping negli ultimi decenni. Rispetto ad essi, la categoria dello jus post bellum risulta funzionale, secondo Pertile, a «definire un quadro normativo coerente per la regolazione delle situazioni internazionali legate all’uscita dai conflitti e al controllo del territorio in assenza di sovranità» (p. 120). In maniera ancora più incisiva, la tematica dello jus post bellum giocherebbe un ruolo determinante in relazione al divieto, tuttora valido per il diritto internazionale, di riconoscere situazioni territoriali formatesi in modo illecito.
Soffermandoci sul saggio di Bartolini, egli rileva come il tema delle riparazioni – che vede già operante in Gentili e in altri autori dell’epoca medioevale e della prima età moderna –, pur non ponendo problemi interpretativi sul piano dei fondamenti teorici, resti a tutt’oggi nella prassi «in una sorta di irrilevanza giuridica» (p. 85). Di fronte alla conclusione di Bartolini, che sia «l’assenza nella volontà politica e diplomatica degli Stati di utilizzare pienamente gli strumenti […] delle riparazioni di guerra ad agire quale principale freno nella loro messa in opera», è lecito chiedersi – riformulando la domanda di Colombo – se una trattazione dello jus post bellum e della sua relazione con i principi della politica non avrebbe potuto offrire soluzioni argomentative utili a superare l’impressione che il tema della responsabilità internazionale rappresenti «un vuoto orpello teorico rispetto alle pretese degli Stati lesi e delle concrete vittime» (p. 116). Al di là della diversità dei rispettivi temi affrontati, Pertile sembra in qualche modo essere di aiuto in proposito, ribadendo la questione centrale posta da Colombo e mostrando l’utilità di un ricorso “estensivo” alla categoria dello jus post bellum laddove quelle dello jus ad bellum e dello jus in bello si rivelino inadeguate o insufficienti a dare risposte efficaci alle problematiche poste dal diritto internazionale odierno, magari intendendo lo jus post bellum più come «un gruppo eterogeneo di norme dal contenuto variabile» (p. 139) che come una vera e propria categoria logicamente successiva alle altre due.
Alla luce dei singoli contributi a questo volume, sembra possibile riconoscere alle posizioni gentiliane un valore “non operativo” nell’attuale dibattito, piuttosto incerto, sullo jus post bellum. In proposito, merita attenzione un’ultima affermazione di Pertile, secondo la quale non sussiste un’analoga incertezza per Gentili nella misura in cui egli «individuava nei trattati di pace e nella prassi ad essi relativa le fonti prevalenti per la propria analisi dello jus post bellum», elemento, questo, che «non consente» al diritto internazionale odierno «di ripercorrere le [sue] orme» (pp. 136-137). Considerazioni simili sembrano veicolare anche i tre casi presentati da Wordsworth, che investono temi quali i crimini di guerra, l’immunità dello stato, i diritti umani e il trattamento dei prigionieri di guerra. Il saggio di Wordsworth mira a promuovere una riflessione su quale sia, in presenza di più diritti nazionali e internazionali, quello in base al quale giudicare e indica, in via generale, come questo non sempre coincida con quello della parte vincitrice in guerra. Rapportato all’ampia discrezionalità riconosciuta da Gentili al vincitore circa le fasi conclusive del conflitto, quest’ultimo elemento mostra un aspetto ulteriore dell’impossibilità di «ripercorrere le orme» della trattazione gentiliana della guerra.