Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

L’ossessione per il presente e la società del narcisismo

(parte prima)

Vivere per il presente è l’ossessione dominante – vivere per se stessi, non per i predecessori o per i posteri. […].
È  la perdita del senso del tempo storico.
Ch. Lasch

Con Haven in a Heartless World (1977) Christopher Lasch si era affermato come critico sociale di rilievo. Nondimeno, a partire da tale pubblicazione, egli divenne sempre più isolato: non più soltanto voce critica in generale, ma spina nel fianco per la sinistra medesima, dalle cui fila egli proveniva. I suoi attacchi, infatti, erano diretti certamente contro il liberalismo borghese, o liberalismo di destra, e quello che definiva corporate capitalism, ovvero il capitalismo delle grandi imprese e delle enormi concentrazioni. Sempre aveva avuto interesse per il risveglio di una coscienza che vedeva nelle piccole dimensioni, nelle attività decentrate e a misura d’uomo il ganglio di una società decente, sana, di stampo jeffersoniano. La piccola proprietà e l’autogoverno locale, assieme a una rediviva responsabilità individuale, avrebbero potuto costituire il tessuto connettivo di una società democratica vera e sincera, partecipata e organizzata dal basso. Tuttavia, anche il liberalismo di sinistra o progressista aveva secondo lui comportato più danni che benefici.

Si trattava, a ben vedere, di un’ideologia che imponeva dall’alto i valori – seppure attraverso ingegnosi artifici come quello rawlsiano della “posizione originaria” e del “velo d’ignoranza” – tentando di razionalizzare l’intera esistenza umana, in modo che non fosse rallentata la corsa verso il progresso (versione che potremmo definire liberal). Oppure, sulla scia della rivoluzione “liberazionista” della fine degli anni Sessanta, dell’idolatria del principio di libertà di scelta declinato in modo libertario, concependo ogni principio di autorità come anticamera dell’autoritarismo (versione che potremmo definire radical). Ma comunque, in entrambi i casi, si evitava di fare in modo che le persone e le comunità locali potessero sperimentarli in modo sussidiario e soprattutto rifacendosi a tradizioni, usi e costumi ereditati.

Come ebbe a notare in un bel saggio del 1986, «what is missing from the debate about individualism and community, as carried on up until now, is the possibility of a conversational relationship with the past, one that seeks neither to deny the past nor to achieve an imaginative restoration of the past but to enter into a dialogue with the traditions that still shape our view of the world, often in ways in which we are not even aware. Instead of merely addressing the historical record, we need to grasp the ways in which it addresses us. This does not imply a slavish, unquestioning attitude toward authority. Nor does it imply universal agreement. Traditions embody conflict as well as consensus» (Ch. Lasch, The Communitarian Critique of Liberalism, «Soundings: An Interdisciplinary Journal», Vol. 69, N. 1/2, 1986, p. 66). L’ideologia liberale, sia di destra che di sinistra, a detta dello studioso americano cercava di rimuovere la consapevolezza che il presente fosse irrimediabilmente legato al passato. Se in ambito economico incontrava in parte il suo favore – sebbene più volte abbia criticato, anche in modo veemente, lo stato assistenziale e il welfare state, in quanto mezzi per deresponsabilizzare persone e comunità – dal punto di vista culturale il progressismo rappresentava un vulnus. Non a caso venne per questo definito “conservatore culturale” e “red tory”.

La famiglia, si ricorderà, viene concepita da Lasch come il caposaldo di un ordine morale sano e appropriato, nonché di una democrazia che sia veramente tale. Il collasso morale a lui – e a noi – coevo veniva imputato proprio all’erosione di questa primaria e fondamentale agenzia di socializzazione. Per mezzo di essa, il principio di autorità viene rispettato ed introiettato. Non solo. Essa infatti trasmette quel senso di continuità e di ordine che a nessun’altra agenzia di socializzazione, come ad esempio la scuola, può essere demandata. I bambini, in tal modo, cominciano a comprendere come vi siano principi che ordinano la società e che non possono venir meno, pena lo sgretolamento dell’ordine sociale medesimo. Servono saldi punti di riferimento per orientarsi nel difficile mondo degli adulti, reso ancor più complesso e minaccioso da un capitalismo che, saldandosi con un vorace e ipertrofico sistema burocratico, tende ad espandersi in ogni momento della vita. La famiglia allora funge, secondo Lasch, da riparo. Anche questa, tuttavia, subisce i contraccolpi inferti dal sistema consumistico. Esso tende a pervadere ogni angolo dell’esistenza individuale, famigliare e comunitaria e lascia poche vie di scampo – forse non ne lascia proprio. Il pessimismo laschiano è insomma palpabile dopo la delusione sessantottina.

Ma forse lo è ancor di più nell’opera che lo ha reso celebre e alla quale è ancora oggi perlopiù associato: The Culture of Narcissism. American Life in an Age of Diminishin Expectations. Venne pubblicata nel 1979, mentre la prima traduzione italiana uscì nel 1981 per Bompiani (ora, come le altre opere del Lasch “maturo” si trova per l’editore Neri Pozza). Tale libro può ben essere considerato il secondo capitolo di un trittico, la cui prima pagina è costituita dal già indagato volume sulla famiglia e la cui terza parte sarà invece la prosecuzione – con alcune rettifiche e risposte a critiche del capitolo precedente – del volume sul narcisismo, ovvero The Minimal Self. Psychic Survival in Troubled Times (1984). Questi tre libri, è bene sottolinearlo, iniziano e concludono, in buona misura, l’analisi laschiana dei mali del suo tempo da lui percepiti da una prospettiva psicoanalitica di tendenza marx-freudiana.

Haven in a Heartless World, come si è detto, ha avuto come scopo precipuo quello di mostrare e di dimostrare il processo attraverso cui la famiglia è stata corrotta, lacerata, consumata dall’esterno. The Culture of Narcissim prosegue nell’intento focalizzandosi, tuttavia, sugli effetti dirompenti e per certi aspetti esiziali che tale processo ha ingenerato nella psicologia dei singoli individui. Va notato che il volume, in realtà, si compone di saggi, poi ampiamente rielaborati ed integrati, che vennero pubblicati tra il 1976 e il 1978. In particolare, sulla «New York Review of Books» uscì il 30 settembre 1976 The Narcissist Society e sul primo numero del 1977 della «Partisan Review» venne pubblicato The Narcissist Personality of Our Time.

Il tema centrale del volume è che, con l’erosione della struttura famigliare, è venuta meno la possibilità che gli individui sviluppino e coltivino quelle risorse interiori per agire come agenti responsabili e consapevoli dei propri intrinseci limiti. Il prodotto finale dell’individualismo borghese, scrive Lasch, è il nuovo narcisista, «perseguitato dall’ansia e non dalla colpa» (Ch. Lasch, La cultura del narcisismo, Bompiani, 20014, p. 10). A differenza dell’uomo economico, nota l’Autore, l’uomo psicologico contemporaneo «non cerca di imporre agli altri le proprie certezze, ma vuole trovare un senso alla sua vita. Liberato dalle superstizioni del passato, mette in dubbio persino la realtà della sua stessa esistenza» (ibidem). L’individuo, insomma, nel liberarsi dal vincolo di gruppo, dalla solidarietà di una delle comunità di appartenenza, riconosce che la società, in modo sussidiario, è costituita da diversi centri, di cui il più importante è appunto la famiglia. Per usare un’espressione sturziana, essa è dunque “plurarchica” –, affrancandosi dalla dipendenza altrui ha smarrito quel senso di sicurezza e tranquillità che rendeva i suoi orizzonti di vita meno incerti. Ha smesso di vivere nella paziente attesa di una prospettiva futura, come poteva essere in seno alla propria famiglia, ove l’orizzonte non poteva prescindere dal radicamento comunitario e dal perseguimento di un common purpose.

La visione consumistica della vita, al contrario, lo ha plasmato nell’ottica di un consumo gratificante immediato e in qualche modo anche vieppiù volubile. Ciò che conta non è più cercare di vivere una vita buona. Mancano le condizioni elementari affinché ciò sia possibile. La vita è ridotta a noiosa e piatta routine. Così facendo, il presente cancella il passato e oscura il futuro, e ciò che ne deriva è «uno stato di inquietudine e di insoddisfazione perenne» (p. 11). La vita del narcisista, insomma, è deprivata di quella dimensione alta e riflessiva della propria esistenza, giacché tutto è ridotto a consumo del e nel presente. Il passato è concepito come un’età remota e anche retriva, perlopiù inutile. Tuttavia, osserva Lasch, è attraverso l’esperienza, mediante un dialogo continuo, pure conflittuale, con il passato che si è in grado di relativizzare positivamente il presente e guardare con speranza al futuro. La svalutazione del passato, allora, non solo è uno dei sintomi più caratterizzanti e preoccupanti della crisi culturale americana ed occidentale. Essa, «in apparenza ottimistica e progressista, rivela – a un esame più approfondito – la disperazione di una società incapace di guardare il futuro» (p. 12).

Il narcisista è sospeso in un eterno e inconsistente presente. Il termine narcisismo non indica un banale sinonimo di egoismo, come solitamente si è soliti descriverlo. Non ha niente a che vedere con quel che Lasch chiama “Adamo americano”, ovvero l’emblema del vecchio individuo americano che cercava di modellare la terra di nessuno in modo da creare il suo regno. Egli era dotato di un ego che, seppure caratterizzato da un afflato imperiale, riusciva forse ancora a concepire i propri limiti. La molla della socialità, seppure un poco spenta dall’incipiente processo di eguagliamento delle condizioni, per dirla con Tocqueville, poteva e doveva riemergere. L’individuo era in grado di comprendere il confine tra la propria sfera individuale e quella degli altri. Abituato fin da piccolo a percepire il mondo per quello che era, ovvero una terra in cui egli doveva condividere lo spazio a disposizione con gli altri, perdendo i punti di riferimento, i principi di autorità che venivano erosi dalla decadenza dell’istituto famigliare, il narcisista contemporaneo non è più in grado, invece, di delimitare i confini tra la propria sfera e quella altrui. Non si tratta, osserva Lasch, di criticare il ritiro nel privato da parte del singolo. Il problema, invece, è dato dal fatto che si è sempre più contratta la dimensione privata delle persone. Molti analisti, nota l’accademico dell’Università di Rochester, hanno preso un abbaglio: hanno invertito la causa con l’effetto.

L’espandersi dello stato assieme alla burocrazia e lo sviluppo di aziende sempre più grandi che erodono la capacità dell’individuo di far da sé inibiscono quelle tradizioni di self-help che plasmavano gli individui e le piccole comunità. È come se tra l’individuo e lo stato burocratico, da un lato, e le grandi imprese, dall’altro, ci fosse ormai il vuoto totale. Esso non risulta più legato a qualcosa di tangibile e conoscibile, frutto dell’esperienza storica viva e prossima in termini spaziali, ma è in balia di imponenti organizzazioni che modellano il mondo in cui è costretto a vivere. Tale dipendenza che si viene a determinare rappresenta la dimensione psicologica di questo individuo amorfo e anodino. Il mondo che abita, o, meglio, che è costretto con riluttanza ad abitare, è lo specchio della sua scialba e inconsistente individualità.

Quel Super-io sociale, risultato della vita in società concrete, decentrate e policentriche, viene sostituito da un Super-io grezzo, sempre più dominato, dice Lasch, da fantasie primitive del bambino sui suoi genitori. L’io determinato, allora, regredisce a uno stato infantile e puerile, tale per cui i contorni tra il sé e il non sé si fanno sempre più sfumati. Insomma, a causa della mancanza di quel filo invisibile che lega l’esperienza passata, tesaurizzata, al presente, l’individuo (de)cresce a uno stato di ansia, depressione, smarrimento assoluto. Ma vi sono anche altri fattori che concorrono alla formazione di questa impersonale personalità. Su tutti, afferma Lasch, i mass media, la pubblicità e il culto del consumismo che ne deriva, con la conseguente razionalizzazione completa dell’esistenza.

I mass media concorrono alla creazione di una “società dello spettacolo”, per riprendere un’espressione di Guy Debord, tutta imperniata sul culto della celebrità, della fama effimera e del richiamo fascinoso di sensazionalità. La forma si sostituisce alla sostanza. Ciò contribuisce a svuotare l’individuo di una propria essenza, avallando, invece, l’imitazione o il tentativo di emulazione degli ingannevoli miti proposti dai mass media. Propinando fallaci e fugaci miti, colonizzando lo spazio che, un tempo, era di pertinenza della famiglia, delle piccole comunità, delle associazioni naturali e decentrate, i modelli di imitazione promossi incentivano la fuga dai tradizionali modelli vita, tutti basati sulla continuità, sul rispetto dell’autorità, su impegni vincolanti e responsabilizzanti. Da ciò deriva una vita personale devastata, attaccata dall’esterno, resa precaria da modelli che non durano più di un battito d’ali, giacché dall’oggi al domani possono subire cambiamenti anche sostanziali. La condizione dell’esistenza individuale è la vita di un presente che non passa mai, noioso, uggioso, impalpabile, privo di qualità ma ricco di quantità.

Lasch cita Richard Sennett, il quale, nel suo The Fall of Public Man (1977), aveva capito una caratteristica determinante del narcisismo contemporaneo bene inteso. Il fatto cioè che esso fosse ben lungi dall’essere concepibile come amor di sé. Al contrario, può ben essere identificato come una sorta di disprezzo di sé. Mancando i punti di riferimento saldi e autoritativi, l’individuo eterodiretto è instabile, capriccioso, alla costante e spasmodica ricerca dell’approvazione altrui. Non può vivere senza, altrimenti va in crisi. David Riesman in The Lonely Crowd (1950), testo di riferimento per Lasch, aveva ben messo in evidenza le nette differenze tra l’individuo autodiretto e quello eterodiretto. Il primo, in sostanza, è diretto dalla tradizione, da un “giroscopio psichico” interiorizzato fin da piccolo tale per cui si forgia una sorta di guida interiore. Ottemperando agli insegnamenti e ai precetti famigliari, l’individuo cresce con stabilità, giacché uscire fuori dalla rotta impostata fin da piccolo comporta sensi di colpa che lo riportano sulla retta via. L’individuo eterodiretto, al contrario manca di tutto ciò. È un po’ il prodotto della crisi dell’istituzione famigliare. Egli non ha una vera casa interiore, e così si trova senza una direzione. L’emblema di questo idealtipo sociologico è il cosmopolita, o il manager contemporaneo, incapace di stabilità, senso di continuità e rispetto delle tradizioni. Egli sviluppa un approccio “turistico” rispetto alla vita e al mondo. Non avendo cioè una stabilità interiore, la sua apparente sicurezza, è derivata soprattutto dal successo lavorativo – perlopiù si tratta di manager o alti burocrati –, mentre in realtà vive eternamente inquieto, alla ricerca costante di attracchi.

Come abbiamo detto, il narcisismo ha una precisa categorizzazione per Lasch. A tal proposito egli critica Eric Fromm il quale, in The Heart of Man (1964) impiega il concetto in modo molto ampio, disinvolto – Giovanni Sartori avrebbe parlato di “stiracchiamento concettuale” – identificandolo con un individualismo asociale, con cui, si è visto, ha ben poco a che fare. Non è infatti l’amor di sé, la sicurezza nei propri mezzi, l’estrema fiducia che ripone in se stesso a caratterizzare il narcisista. È l’eterna ricerca di sé, piuttosto, a definirlo, tipico tratto di un individuo perso, smarrito, fragile. È infatti una sensazione di vuoto e di sconforto a occuparlo. La sua esistenza dipende dall’approvazione e dall’ammirazione che suscita negli altri. Avendo perso, o forse non avendo mai avuto, punti di riferimento, egli li ricerca nel mondo, lo specchio di sé, che, però, non può far altro che proiettare l’immagine di ciò che egli vuole vedere, di cui ha bisogno.

Nel vocabolario del narcisista, allora, crescita è diventato sinonimo di sopravvivenza, felicità di tranquillità fugace, esistenza di vivere alla giornata. Lasch la definisce con cupo realismo «la prospettiva dei rassegnati»: «è la fede di chi non ha più fede» (p. 64 e p. 66). L’individuo è, sì, liberato dal peso delle tradizioni, degli usi e dei costumi, in parte anche opprimenti del passato. Tuttavia, l’insostenibile leggerezza dell’essere, per citare Kundera, non può durare a lungo, pena creare le condizioni di una vita inumana, alienata, spersonalizzata e spersonalizzante, solo illusoriamente libera. Il che è precisamente la condizione che Lasch ritrae con cupo disincanto in questo volume.

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