Carlo Marsonet ha studiato Scienze internazionali e diplomatiche presso l’Università di Genova e l’Università di Bologna, sede di Forlì. È PhD candidate in Politics: History, Theory, Science alla Luiss Guido Carli, Roma. Scrive sul blog della Fondazione Luigi Einaudi e collabora con Mente Politica. Ha pubblicato: Democrazia senza comunità. Il populismo quale reazione collettivistica alla modernità, in «Rivista di politica», n. 3/2018, pp. 59-70.

Recensione a: R. Cobden, Scritti e discorsi politici. Il libero scambio per la pace tra le nazioni, a cura di A. Mingardi, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022, pp. 318, € 24,00.

Nel caotico mondo contemporaneo, la crisi internazionale, come affermato a suo tempo dall’economista e sociologo Wilhelm Röpke (1899-1966), forse non è altro che la proiezione di una crisi ben più profonda e radicale che riguarda il piano nazionale e, ancor prima, l’ordine interiore agli individui. Vi sono, però, costanti che mettono d’accordo i molti: una di queste è la critica a mercato e libero scambio.

Il mercato, si dice, è tendenzialmente “selvaggio”, dal momento che trae la propria spinta dallo scatenamento sfrenato degli impulsi egoistici dei singoli. Esso, in altre parole, non può che produrre disordine, poiché non conosce bilanciamento né nelle regole poste dal legislatore – tesi dubbia, considerata la mole di norme a cui, ad ogni livello, si viene ormai sottoposti – né da alcun freno che l’individuo non è più in grado di autoimporsi – tesi, questa, forse più veritiera. Come affermato a suo tempo da Edmund Burke (1729-1797), «gli uomini sono qualificati per la libertà civile in esatta proporzione alla loro disposizione nel mettere catene morali ai propri appetiti» e meno saranno disposti a temperare i propri impulsi, più si costruiranno da sé le proprie catene. Ma da ciò ad arrivare a sostenere che è il libero scambio a produrre disordine, caos e magari pure scontri di natura bellica il salto logico è notevole.

Non tutti, comunque, hanno ricondotto la guerra a motivi di carattere liberoscambista. L’economista austriaco Ludwig von Mises (1881-1973), ad esempio, ha riconosciuto a più riprese come fosse il dispositivo statale a produrre disordine e, in ultima analisi, a cagionare conflitti. Ne Lo stato onnipotente (1944), egli sostenne infatti come «lo statalismo – o interventismo o socialismo – porta inevitabilmente al conflitto, alla guerra e all’oppressione totalitaria di interi popoli. Lo Stato giusto e vero, sotto lo statalismo, è lo Stato in cui io e i miei amici, che parlano la mia lingua e condividono le mie opinioni, siamo sovrani. Tutti gli altri Stati sono illegittimi. Non si può negare che anche essi esistono, in questo mondo imperfetto. Ma essi sono nemici del mio Stato, del solo Stato legittimo». Più tardi, ne L’ordine internazionale (1945), Röpke, dopo aver avuto giovanili simpatie socialiste, si rese conto, a seguito della Grande guerra a cui direttamente prese parte, come il socialismo non potesse che produrre scontro tra gli stati, giacché esso può essere solo di natura nazionale. Se così stanno le cose, egli scrisse, la guerra si configurava semplicemente come «l’eccessivo rigoglio dello Stato, era collettività scatenata». L’internazionalismo «vero», come interpretato dal pensatore tedesco, non poteva che costruirsi dal basso, dal livello individuale a quello nazionale e, sussidiariamente, a quello internazionale attraverso la libera interazione che il mercato pacificamente assicura, entro una cornice giuridico-istituzionale ma anche morale.

Mercato e pace possono allora andare insieme, secondo alcuni pensatori. È il potere politico, attraverso il dispositivo statale, che crea le condizioni perché la pace non si dia e si moltiplichino, pertanto, i conflitti. Si tratta, dunque, di un’opposizione tra società e mercato, da un lato, e stato e interventismo, dall’altro. È da ciò che muove il volume curato da Alberto Mingardi dedicato alla figura dell’attivista politico inglese Richard Cobden (1804-1865). Nella corposa introduzione, Mingardi, professore associato di Storia delle dottrine politiche all’Università IULM, nota infatti come Cobden avesse ben chiara la natura “estrattiva” della politica e come, in ragione di ciò, il suo messaggio possa essere considerato una metaforica chiamata alle armi della società, cioè a dire degli individui che liberamente cooperano perseguendo i propri progetti di vita, contro lo Stato, ovvero quell’apparato coercitivo che a ciò si oppone ricercando il potere: citando il primo discorso inaugurale di Thomas Jefferson (1743-1826), Cobden scrisse che i governi «tendono a sentire il potere e a dimenticare il diritto».

Cobden, nota il curatore, da autodidatta quale era, lettore di Adam Smith (1723-1790) ma imprenditore tessile di professione, si batté per tutta la vita per il libero commercio e per la pace, in contrapposizione al protezionismo del suo tempo. L’“apostolato” liberale cobdeniano affonda le radici nella battaglia liberoscambista contro i dazi sul grano, le corn-laws, introdotte a partire dal 1815, ma che egli contribuì significativamente a fare abolire nel corso di tre anni a partire dal 1846. Fece infatti cambiare radicalmente la linea protezionista all’allora premier conservatore Robert Peel (1788-1850), il quale, così facendo, causò la spaccatura del proprio partito.

Dopo aver raggiunto una certa floridezza economica – però ben presto prosciugatasi – tramite l’attività imprenditoriale, Cobden si dedicò sempre più all’attività politica dalla fine degli anni Trenta. Dopo aver fondato insieme a John Bright (1811-1889), nel 1838, l’associazione per l’abolizione dei dazi sul grano (“Anti-Corn Law League”), venne eletto, dopo un tentativo fallito, nel 1841, per poi venir eletto nuovamente nel 1859, dopo aver perso il seggio due anni prima. La Lega fondata da Cobden non era costituita da tecnici ed economisti, ma semplicemente da persone, sottolinea Mingardi, che volevano aboliti provvedimenti ritenuti ingiusti poiché favorivano determinate categorie a svantaggio della stragrande maggioranza della popolazione di un paese. Come scrive il curatore, infatti, «se i liberoscambisti rifiutano l’idea che un mercato libero veda la proliferazione di conflitti fra interessi contrapposti, vicendevolmente predatori e prede, al contrario sottolineano come il regime protettivo divida in due il Paese: fra coloro che consumano il grano e pagano il dazio, e coloro che producono il grano e si godono il dazio. Questa divaricazione fra interessi dei molti e interessi dei pochi è dunque precisamente il prodotto dell’intervento pubblico e della politica».

In ciò risiede una visione estremamente realistica di come la politica funziona, la quale ricorda il noto aforisma di un economista francese che divenne amico di Cobden, Frederic Bastiat (1801-1850): lo stato altro non sarebbe che la finzione attraverso cui tutti cercano di vivere sulle spalle di tutti gli altri. Secondo Cobden, scoperto l’autentico funzionamento di un dispositivo che cerca di togliere a qualcuno per dare a qualcun altro, e il cui unico scopo, in fondo, consiste nell’accumulazione di potere, rimaneva solamente il libero commercio come autentico modo per vivere ciascuno a modo proprio, cooperando pacificamente con gli altri. Lo scetticismo estremo di Cobden può, forse, servire da ammonimento anche al tempo presente: «il cammino della libertà dipende più dal mantenimento della pace, dalla crescita del commercio e dalla diffusione dell’istruzione che dalle fatiche dei governi e dei ministeri degli Esteri».

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