Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e Storia. Laureato in Lettere e Storia. Redattore presso Dissipatio.it. Ha scritto per«L'Intellettuale dissidente» e«Pangea». Collabora con la rivista «Il Pensiero Storico».

Recensione a: G. Tocchini, Voltaire epicureo. Il mito del “Settecento libertino”, Carocci, Roma 2024, pp. 172, € 20,00.

Il saggio di Gerardo Tocchini, professore ordinario di Storia moderna presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, ha l’obiettivo di sostenere la tesi che François-Marie Arouet, nom de plume di Voltaire, quando compose la sua prima opera, la tragedia l’Œdipe, scritta nell’estate del 1713, quando aveva solamente diciannove anni e messa in scena nel mese di novembre del 1718, già rilevava un pensiero incentrato sulla tematica della religione naturale e della tolleranza, nonché la vis polemica contro la superstizione e il fanatismo religioso.

Questa tesi viene addotta tramite un’analisi che comprende la stretta relazione che ha la tragedia con la ricezione per il pubblico, come già Tocchini aveva scritto in un precedente saggio pubblicato in rivista, intitolato L’Edipo del giovane Voltaire alla prima della scena pubblica. Canone politico, strategie e autocensure nel teatro tragico della prima età dei lumi, in «Rivista storica italiana», 125, 3, 2013, (pp. 681-763). La formazione letteraria e politica di Voltaire avvenne nel 1706 nel circolo del Temple e successivamente nel 1713, quando iniziò a frequentare la corte di Sceaux dei duchi del Maine, periodo quest’ultimo, in cui Voltaire iniziò a comporre l’Œdipe. In quel contesto temporale, scrive l’autore, Voltaire lavorava a Sceaux per l’attività teatrale e al Temple per la poesia. Attività teatrale, letteraria a cortigiana a Sceaux, che però era strettamente collegata alla politica coeva: «una politica praticata nei limiti consentiti a poeti e letterati, che non vi ebbero un ruolo se non nella dimensione subalterna ed eterodiretta della satira funzionaria, di diffamazione, di cui furono meri artefici su commissione» (pag. 81). I duchi del Maine, infatti, erano in prima linea nella lotta  per la successione al trono di Luigi XIV e all’interno della loro corte si fronteggiavano le due fazioni: quella dei “legittimati” e quella della “fronda”. Nel maggio del 1717, quando l’Œdipe era stato composto e letto davanti ai membri della corte del Maine, Voltaire venne tratto in arresto e recluso alla Bastiglia, dove vi resterà recluso per quasi un anno. Una volta uscito, vennero arrestati gli stessi duchi del Maine e da quell’evento la  corte di Sceaux perse la sua funzione politica, che era quella di cercare di influenzare le politiche di successione al trono.

L’ Œdipe, sostiene Tocchini, fu successivamente, prima di essere messo in atto, riletto e corretto con l’obiettivo di eliminare qualsiasi allusione che potesse essere offensiva nei confronti della famiglia reale e allo stesso tempo prendere le distanze dalla corte di Sceaux. Œdipe che invece venne scritto per un pubblico selezionato, che apparteneva al circolo elitario epicureo e libertino del Temple, questo l’autore lo deduce dal contenuto delle allegorie filosofiche e religiose all’interno della tragedia, inserendosi nelle tematiche prettamente illuministiche, come la superstizione, il pregiudizio e l’intolleranza.

Per Tocchini, l’ambiente culturale del Temple e la diffusione dell’opera di Pierre Bayle fu determinante per lo sviluppo filosofico e letterario di Voltaire, e in modo particolare per la composizione della tragedia. Da ciò si evince che l’autore è uno dei sostenitori della tesi che all’interno del Temple circolava l’opera di Bayle, come già è stato sostenuto da altri due studiosi, Mason e Wade. Però, scrive Tocchini, questi due studiosi non hanno mai studiato l’influenza che ebbe il pensiero di Bayle per l’Œdipe. Voltaire che nella tragedia non fece un diretto ed esplicito riferimento al filosofo di Rotterdam, ma ricorse alle sue tematiche, quelle inerenti per l’appunto la tolleranza e il fanatismo religioso, postulate da Bayle nel Dictionnaire historique et critique in cui veniva rielaborata la filosofia epicurea come archetipo di dottrina morale fondata su principi razionalistici, che si contrapponeva al culto dell’idolatria, credulità che avevano gli uomini nei confronti della religione retriva e fanatica cristiana. Per comprendere l’influenza che ebbe Bayle nella composizione dell’Œdipe, scrive Tocchini, bisogna individuare il significato che ebbe l’episodio della tragedia della profezia: «l’omicidio, l’incesto, non sono che semplici conseguenze del primo errore. Nell’Œdipe l’errore fatale, originario, risiede in quel pervicace e dissennato tentativo di stabilire un contatto con gli dei: uno scambio da postulante e da succubo col soprannaturale». (pag. 133)

Analisi questa, che va a modificare la concezione che si è avuta di Voltaire nella quale si sosteneva che la sua conversione intellettuale, dalle lettere alla filosofia, sia avvenuta solamente dopo la lettura delle opere di Pierre Bayle conosciute durante il suo soggiorno in Inghilterra (1727-29). De facto, l’esperienza inglese per Voltaire fu fondamentale per l’incontro con la scienza di Newton, la filosofia di Locke, il deismo, che andarono di fatto a sommarsi al bagaglio culturale che Voltaire fece già suo nella terra natia.

La società aristocratica francese del Settecento, quella che frequentava Voltaire, venne considerata, in sede pubblicistica-giornalistica durante il Secondo impero, libertina e dissoluta. La natura di questi stereotipi, oltre alla pubblicistica che il regime censura, vi fu anche quella conservatrice-reazionaria della restaurazione. Ma per eterogenesi dei fini, i provvedimenti governativi favorirono un «giornalismo di intrattenimento che si nutriva essenzialmente di inerzie, illazioni, ricatti e naturalmente gossip» (p. 31).

Anche il circolo del Temple, sempre nell’Ottocento, fu oggetto di interpretazioni in cui lo si riteneva un’accolita di ottuagenari dediti ai vizi. Questo giudizio, però, non si basò su fonti documentarie ma pregiudizievoli. Tali giudizi vennero connessi anche con la figura morale e intellettuale di Voltaire, definito un personaggio mondano, gaudente e alieno da interessi culturali per la speculazione filosofica antecedente al soggiorno in Inghilterra.

Questa tesi fu accettata e amplificata da Francois de Villemain, accademico e ministro dell’istruzione ai tempi del sovrano Luigi Filippo, vero dominus della cultura francese. Stereotipo che rimase immutato, senza soluzione di continuità, anche con l’avvento della Terza Repubblica, che si diffuse anche grazie ad un sempre più crescente nazionalismo, avvenuto come reazione a seguito della sconfitta della Francia con la Prussia. Voltaire che venne considerato, a causa del suo cosmopolitismo e del suo servizio presso la corte del sovrano prussiano Federico II (1749-1752),  come negatore della patria francese. Stessa fortuna filosofica e culturale di un Voltaire, gaudente e libertino, che venne avvalorata anche dalla biografia intellettuale di Gustav Larsson, Voltaire, edita nel 1906.

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