Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e specializzato in Storia moderna. Il suo campo di ricerca è la storia politica degli Stati italiani in età rinascimentale. È redattore della rivista Dissipatio.it

Recensione a: G. Mangani, La bellezza del numero. Angelo Colocci e le origini dello stato nazione, Il Lavoro Editoriale, Ancona 2021 (2a ediz.), pp. 316,  € 30,00.

Con questa monografia su Angelo Colocci, l’autore Giorgio Mangani, geografo di formazione, non solo ha scritto la prima completa biografia intellettuale sull’umanista, fino ad oggi poco studiato ma viene delineata la figura di un personaggio protagonista indiscusso della vita culturale e politica della Roma rinascimentale del primo trentennio del Cinquecento. Nell’introduzione, l’autore ha tenuto ben presente che sia la storiografia di età moderna, come la prima biografia su Colocci di Federico Ubaldini scritta nel XVII secolo, oppure la più recente critica letteraria, partendo da Carlo Dionisotti, ha messo in evidenza la figura di Angelo Colocci come frutto di una personalità intellettuale dai diversi profili: dall’appassionato di antiquaria, studioso della cartografia, di metrologia, glottologia, all’editore di poeti cortigiani, che però ha portato a banalizzare il giudizio complessivo su Colocci, definito come un mero dilettante della cultura, superficiale e compulsivo collezionista. Lo studio di Mangani ha invece portato a rovesciare questa tesi, dove l’attività culturale di Colocci aveva un disegno politico ben definito, «per la costituzione di uno stato nazionale italiano» (p. 234).

Colocci, nato nel 1474 a Jesi, nella Marca di Ancona sottoposta alla giurisdizione dello Stato pontificio. A Vent’anni si trasferì dapprima a Napoli insieme allo zio, dove ebbe modo di far parte dell’Accademia Pontaniana di Giovanni Pontano, che lo introdusse allo studio delle opere del geografo classico Tolomeo.  Dopo un breve ritorno nella città avita, si trasferì a Roma intorno al 1492-94. Come riporta Mangani, Colocci investì una parte cospicua dell’eredità lasciatagli dal padre nell’acquisto di incarichi all’interno della Cancelleria Apostolica. Le cariche che Colocci ricoprì nei vari dipartimenti dell’amministrazione pontificia, per assumere quello di massimo prestigio che fu di Segretario apostolico tra il 1511 e il 1521, fino a la carica di Tesoriere della camera apostolico e successivamente Tesoriere Generale nel 1538. Incarichi lucrosi in un contesto storico in cui lo Stato della Chiesa si trovava nel mezzo di un conflitto tra le due superpotenze europee: Francia e Spagna, per il controllo della penisola italiana, in cui lo Stato della Chiesa era l’ago della bilancia. Gli anni in cui Colocci arrivò nella città dell’Urbe, il contesto geopolitico italiano era particolarmente delicato. Nell’autunno del 1494 il sovrano francese Carlo VIII aveva dato iniziò alla sua campagna bellica italiana con l’obiettivo strategico di invadere Napoli e porre fine al regno aragonese. Il pontefice Alessandro VI (1492-1503) era al centro di una difficile trattativa diplomatica, in cui lo stesso papa rischiava di essere deposto da Carlo VIII e da un gruppo di cardinali a lui contrari.

Contemporaneamente vi era la Roma come epicentro dell’attività culturale umanistica in cui Colocci fu uno dei maggiori rappresentanti. Il contesto culturale dell’urbe del primo Cinquecento era un luogo complesso ancorato da spinte molteplici e dinamiche. Oltre alla corte papale vi erano altri centri di produzione culturale, come le corti “private”, che si adoperavano sia in politica, che nell’accoglienza di artisti e letterati provenienti da tutta la pensisola italiana: dalla corte privata di Agostino Chigi, che nel 1517 ospitò nella sua corte privata Pietro Aretino, oppure il cardinale Bibbiena, dove nella sua residenza faceva da protagonista Francesco Berni. Un’importanza fondamentale rivestivano anche le accademie, luoghi di raggruppamento spontaneo di intellettuali, in cui si realizzava quella solidarietà intellettuale tra dotti. A Roma tra le accademie quella più importante fu l’Accademia Romana fondata dall’umanista Pomponio Leto, in cui Colocci, poco dopo il suo arrivo a Roma, ne divenne il presidente. Accademia Romana che sotto l’egida di Pomponio Leto era finanziata dal Cardinale Bessarione, a che a sua volta, metteva in pratica gli insegnamenti del suo mentore Giorgio Gemisto Pletone, dove il recupero di Platone e del geografo Tolomeo, serviva a scopo prettamente politico e militare, con l’intento di perorare un’azione da parte degli Stati cristiani contro gli Ottomani a Costantinopoli. Se a Napoli per Colocci fu fondamentale l’incontro con Giovanni Pontano, a Roma fu decisivo quello con Egidio da Viterbo. Grazie a quest’ultimo poté scoprire il neoplatonismo di Marsilio Ficino e l’ermetismo di Pico della Mirandola. Proprio nella sua esperienza romana e grazie a quel contesto culturale, Colocci coltivò le sue passioni: quali l’antiquaria, che secondo Mangani, lo pose sulla linea politico-culturale diretta con Ciriaco Ancona e del cardinale Bessarione.

Appassionato di antiquariato e collezionista di statue classiche che Colocci che espose nei giardini, acquistati nei pressi del Quirinale, gli Horti Sallustiani. Così denominati perché in passato erano stati i giardini di proprietà dello storico romano Gaio Sallustio Crispo, che Colocci acquistò e restaurò grazie all’attività di speculatore edilizio sulla scia di Agostino Chigi, che Mangani argomenta con dovizia di dettagli. Colocci che si cimento anche nell’attività editoriale: nel 1503 pubblicò le opere di Serafino Aquilano e curò, sempre nel medesimo anno, le opere di Benedetto da Cingoli. Ai suoi numerosi interessi culturali, l’umanista jesino dedicò ampio risalto anche per gli studi sulla cosmologia, fondati secondo una concezione pitagorica, del numero quattro, numero che era il principio fondante dell’architettura di Vitruvio e che proprio di quest’ultimo, sottolinea l’autore, sulla scorta degli studi della storica dell’architettura Ingrid Rowland, Colocci fu, insieme a Raffaello e Baldassarre Castiglione, uno degli artefici della traduzione del De Architectura di Vitruvio, in cui la sua collaborazione fu fondamentale per la competenza di teorico dei pesi e delle misure dell’età antica. Gli studi di Colocci su Vitruvio furono ripresi, o meglio ereditati, da veri e propri specialisti dell’architettura civile e militare dell’epoca, come Baldassarre Peruzzi e Antonio da Sangallo il giovane, che nella Roma cinquecentesca erano impiegati nella costruzione della Basilica di san Pietro.

Colocci che ebbe una parte fondamentale  anche nella scelta dell’iconografia della Scuola di Atene di Raffaello nella Stanza della Segnatura nel Palazzo Apostolico. L’iconografia dell’affresco era volta a celebrare la filosofia come sapienza naturale del mondo, ove la storia era messa in scena come solenne legittimazione della sapienza degli uomini, in cui le varie correnti filosofiche del platonismo, aristotelismo, neoplatonismo e la tradizione pitagorica confluivano nel cristianesimo, in cui lo stesso Colocci viene rappresentato con le sembianze di Zoroastro, identificato erroneamente, a detta di Mangani, con Baldassarre Castiglione. L’autore questa tesi la deduce da una serie di motivi: Angelo Colocci era l’animatore degli studi sull’astrologia e l’astronomia dell’Accademia Romana; inoltre, la somiglianza tra il personaggio di Zoroastro dell’affresco aveva gli stessi tratti fisionomici del ritratto di Colocci, risalente al XVIII secolo, oggi conservato presso la Biblioteca Universitaria dell’Alma Mater Studiorum di Bologna, Collezione Monti.

Importanza fondamentale per la numerologia, dove dal numero quattro provenivano anche i quattro dialetti greci, che erano alla base della costituzione della koinè greca. Secondo Colocci la lingua volgare, parlata in Italia, trovava la sua origine proprio dalla lingua greca nella Magna Grecia. Tale teoria era una riproduzione di quella sostenuta in precedenza da Giovanni Lascaris, anche lui con le medesima finalità politiche culturali di Bessarione.

Di fondamentale importanza, per lo studio di Colocci sulla lingua italiana, è il manoscritto Vat. Lat. 4817, in cui vengono raccolte le maggiori informazioni di Colocci sullo studio della lingua. Teorizzatore del cosiddetto bilinguismo, sulla scorta di quanto già teorizzato da Leonardo Bruni, dove il volgare era un idioma delle classi popolari italiche, già sviluppatosi in età classica, che si contrapponeva al latino, lingua colta riservata alla classe aristocratica. Stessa teoria che adottò anche Giovanni Trissino in contrapposizione a Pietro Bembo. Colocci che grazie alla frequentazione a Roma con Trissino dopo il suo arrivo nel 1513, ebbe modo di leggere il De Vulgari Eloquentia, nel codice trivulziano 1088. Proprio da qui Colocci sviluppò la concezione del poeta fiorentino sulla maggiore forma di lingua dei dialetti volgari italiani presenti nelle corti italiane.

Mangani sostiene che proprio l’interesse per la lingua da parte di Colocci aveva uno scopo prettamente politico, «legata alla origine e strutturazione dello stato moderno, consapevole della sua funzione nella costruzione di una comunità nazionale» (p. 215). Proprio quello stato moderno lo intravide nello Stato pontificio.  Colocci, scrive ancora Mangani, trovò nella corte papale di Alessandro VI prima e di Giulio II poi, un organismo politico in cui si sarebbe potuta sviluppare una nuova forma artificiale di lingua, nata grazie alla convergenza di diplomatici, uomini d’affari, intellettuali provenienti  da tutte le parti d’Italia e d’Europa. Lingua come asse portante della costruzione morale di un’eventuale Stato moderno, che secondo l’autore, Colocci individuava in tre punti: la forma metrica nella penisola italiana della poesia popolare si era sviluppata nel tardo antico tramite gli Inni di matrice cristiana, derivanti a loro volta, da formule popolari in uso presso le varie popolazioni italiche; in un secondo periodo le poesie della scuola siciliana adottarono le strutture metriche della Grecia; e, in ultimo punto, vi era il riferimento al poeta Pindaro, raffigurato da Raffaello negli affreschi nelle Stanze della Segnatura,  utilizzato da Raffaello come collante tra cultura greca e romana in chiave politica filo-greca.

Anche l’Accademia Romana aveva un duplice scopo politico e culturale: dapprima sotto la presidenza di Pomponio Leto, in cui lo studio di Platone e il recupero della cultura greca, aveva la sua finalità politico-militare, poi con la presidenza di Angelo Colocci le finalità politiche si adattarono alle contingenze della politica dei vari papi: dapprima sostenendo le politiche di Alessandro VI, in cui l’interesse per la geografia serviva per legittimare la politica di mediatore del papa tramite la bolla Inter Caetera del 1493 per la  la contesa tra Spagna e Portogallo, per lo sfruttamento delle nuove terre scoperte in America, che avrebbe poi portato alla stipula del trattato di Tordesillas.

Speculare a tale disegno politico, nell’Accademia Romana aderirono diversi geografi, uno di questi, citato dall’autore, è Salvatore da Palestrina al quale gli è stata attribuita la mappa Kunstmann II,  dove viene rappresentata la costa americana. La carta era stata commissionata dal protettore dell’Accademia, il cardinale spagnolo Bernardino Lopez de Carvajal, legato a Roma del sovrano spagnolo Ferdinando il Cattolico, sostenitore delle mire egemoniche della Spagna in Africa. 

Stessa metodologia politica-culturale che utilizzò anche Giulio II, che con la presenza a Roma del cartografo e pittore fiammingo Johannes Ruysch, oltre a una eventuale collaborazione con Raffaello nelle Stanze della Segnatura tra il 1507 e il 1508, sempre nei medesimi locali dipinse anche un ciclo di affreschi nella medesima stanza in cui veniva rappresentato un ciclo geografico, poi in parte cancellato dai successivi affreschi di Raffaello.

A Roma Ruysch stampò anche un mappamondo dove vennero rappresentate le nuove scoperte in America. La presenza del cartografo e pittore fiammingo è un elemento, che secondo Mangani, mostrava un profondo interesse per la geopolitica da parte di Giulio II, che nel 1506 ratificò il trattato di Tordesillas, tramite la bolla pontificia Ea pro bono pacis.

A tutto ciò era strettamente legata l’attività di organizzatore culturale di Angelo Colocci e dell’Accademia Romana da lui presieduta, sostenitore della politica di papa Della Rovere, in cui il recupero della grecità serviva alla politica di espansione di Giulio II, sostenitore del rafforzamento dell’autonomia politica della Sede apostolica, che associò tale progetto politico all’ideale della libertà d’Italia da parte delle potenze straniere. L’utilizzo della cartografia, la codificazione di una lingua volgare, erano, secondo le tesi dell’autore, tutti elementi speculari a tale finalità politica: «l’ipotesi che mi sento di fare è che Giulio II andò maturando in maniera sempre più profonda, dopo le vittorie militari dei primi anni di pontificato, che il papa doveva avere un proprio potere temporale, un principato fra gli altri, per non rischiare  di essere solo il notaio dei grandi equilibri geopolitici mondiali del tempo, quali emergono dalla ratifica delle macroaree di influenza disegnate dal trattato di Tordesillas e da lui ratificate con la bolla del 1506» (p. 270).

Mangani, con gli strumenti intellettuale del geografo, ha definito la personalità intellettuale di Angelo Colocci, come un intellettuale del Rinascimento a tutto tondo, stessa definizione analoga che ha dato Eugenio Garin alla medesima categoria: «L’uomo del rinascimento è colui che ha svanito i confini dei vari campi del sapere e del fare, che in un dipinto scrisse un saggio di pensiero politico o, come Raffaello illustra Diogene Laerzio e le vite dei filosofi; che in una lirica comprendeva un saggio di morale; che in un trattato di architettura scrive un libro sullo Stato; che in un’opera sulla pittura condensa ora una dissertazione di filosofia, e ora i principi di un trattato di prospettiva» (E. Garin, Il filosofo e il mago, in L’Uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 183).

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