Lorenzo Bravi (1982) è laureato in Lettere e specializzato in Storia moderna. Il suo campo di ricerca è la storia politica degli Stati italiani in età rinascimentale. È redattore della rivista Dissipatio.it

L’obiettivo del presente contributo è cercare di mettere in evidenza la militanza politica di Machiavelli tra le file degli anti savonaroliani proprio durante il regime repubblicano sottoposto all’influenza di Savonarola (1495-1498). Per addurre ciò è decisivo analizzare la figura di Ricciardo Becchi, in modo particolare durante gli anni dal 1496, quando svolse il ruolo di legato della Repubblica di Firenze presso lo Stato della Chiesa, che culminò con la sostituzione dal ruolo di legato nel gennaio del 1498, per manifesta incompatibilità politica con la Signoria di Firenze.

Ricciardo Becchi era nato a Firenze nel quartiere di Santa Croce, tra il 1445 e il 1455. La famiglia Becchi proveniva dall’ambiente dell’artigianato locale. Suo padre si chiamava Francesco, nacque a Firenze nel 1475 e fece parte degli Otto di Balia. Suo nonno Michele svolse la professione di «tintore e fibbaio» (Archivio di Stato di Firenze: ASF, Raccolta Sebregondi, 503, f.1). Un suo zio, Gabriele, molto probabilmente aveva ereditato l’attività del nonno. Il figlio di Gabriele Bartolomeo, tra il 1472 e il 1479 svolse l’attività di “setaiolo” (ASF, Becchi Bartolomeo, 465, 15-S.C.). Fino al 1490 sono assenti notizie sulla biografia di Ricciardo. In quell’anno ricopriva il ruolo di procuratore convento di S. Caterina a Pisa, il che lascia desumere che negli anni precedenti fosse stato avviato dai suoi famigliari alla carriera ecclesiastica (ASF, Mediceo avanti il principato, filza 53.91 f.). Il convento di Santa Caterina era posto sotto il protettorato di Lorenzo Dei Medici e la nomina a procuratore fu molto probabilmente avallata dallo stesso Lorenzo. Nel novembre del 1495, dopo la cacciata di Piero dei Medici, a seguito dell’invasione nella penisola italiana del sovrano francese Carlo VIIi, venne instaurata la Repubblica influenzata dalle prediche di carattere biblibliche-provvidenziali di Girolamo Savonarola. Nel bimestre novembre-dicembre del 1495 i priori della Signoria eletti furono di chiara tendenza ideologica fratesca, i quali nell’ottobre del 1495, nominarono Ricciardo Becchi, filo mediceo, che già risiedeva a Roma, ambasciatore della Repubblica fiorentina presso la corte papale di Alessandro VI, che avrebbe dovuto agire in sinergia con il cardinale Oliviero Carafa. I nuovi priori della Signoria del bimestre gennaio-febbraio del 1496, diedero il compito a Savonarola di prepapre il ciclo delle prediche per la prossima quaresima, consci che i diversi tentativi di Becchi e Carafa avrebbero convinto il papa a dare l’autorizzazione.

Il governo fiorentino cercava, in quel periodo, di far revocare ad Alessandro VI il bando della predica a Savonarola, dopo che il 16 settembre aveva disposto un breve papale in cui vietava a Savonarola il frate domenicano di fare delle prediche, adducendo come motivo principale il voler tenere alta la moralità della cittadinanza. Probabile che la nomina Becchi a legato fu decisa dal fatto che quest’ultimo non faceva parte del partito filo-savonaroliano e quindi avesse una posizione più conciliante nei confronti del pontefice. Tra il 10 e il 15 febbraio Alessandro VI diede l’assenso in forma orale, in modo da dare il carattere provvisorio alle prediche. L’11 febbraio la Signoria già aveva dato l’assenso a Savonarola di organizzare le prediche. La Signoria di Firenze, una volta concessa l’autorizzazione per le prediche, cercava di ottenere l’indulgenza per la quaresima del 1496 dal papa stesso. Una volta ripreso il ciclo delle prediche, Savonarola riprese in toni sempre più aggressivi verso il clero, rinnovandogli l’accusa di immoralità. Durante le udienze che Alessandro VI concesse a Becchi, il pontefice chiedeva le spiegazioni ufficiali sui contenuti delle prediche tenute da Savonarola, facendo capire all’ambasciatore fiorentino che il pontefice si era pentito nell’aver concesso troppa fiducia alla Signoria per aver autorizzato le prediche del frate. In quei mesi Becchi scrisse numerose missive alla Signoria, riferendo che oltre al papa, anche i legati degli Stati appartenenti alla Lega Santa gli mostrarono delle rimostranze a causa dei contenuti delle prediche di Savonarola. Il 3 marzo del 1496 Becchi scriveva alla Signoria: «La lega non voleva concedessi a Fra Ieronimo potesi predicare, né a cotesta ciptà facessi gratia alchuna». Nel prosieguo della missiva, il legato fiorentino ribadiva che il papa stesso si lamentava personalmente con lui per la scelta del governo fiorentino di far continuare a predicare Savonarola. Di fatto la vera causa che il pontefice imputava a Savonarola era di natura geopolitica, ovvero di mantenere l’alleanza militare di Firenze con la Francia di Carlo VIII, andando in quel modo ad inficiare gli obiettivi della Lega Santa: «dolendosi di voi gli concediate predichi conto alla voglia di Sua Beatitudine; et che lui vi tenga alla devotione del Cristianissimo contro a nostra voglia». Contemporaneamente presso la corte di Alessandro VI aumentarono sempre di più le delegittimazioni contro Savonarola da parte dei cittadini fiorentini presenti a Roma, dove erano presenti banchieri e mercanti che  erano fuoriusciti da Firenze dopo la cacciata dei Medici. Al papa il contesto politico-sociale di Firenze veniva rappresentato come una popolazione ed un’élite politica che aveva subito un lavaggio di cervello da parte di Savonarola. Becchi cercò di confutare quelle voci all’interno della corte papale, utilizzando come alleato per la sua causa Giovanni Lopez, cardinale di Perugia, che faceva parte del ristretto concistoro cardinalizio di fiducia di Alessandro VI. Ma neanche questo riuscì a convincere il papa dal concedere l’indulgenza per Firenze: «In modo, andai a trovare subito il cardinale di Perugia, pregando sua reverendissima Signoria volessi mitigare et disporre Nostro Signore alla  nostra peptitione iuste et honeste, et raccomandargli cotesta ciptà et populo suo ; ne volessi tanto credere a altri, né stimarci si poco et dinegarci ogni minima gratia». Giovanni Lopez fu il destinatario della minuta firmata il 4 dicembre del 1497 a firma di  Niccolò Machiavelli in cui a nome della sua famiglia voleva rivendicare i diritti nel giuspatronato nella Pieve di Fagna presso la val di Sieve, in contesa con i Pazzi  ” per designazione pontificia“. La lettera inviata dal giovane Machiavelli a Lopez, lascia desumere che Machiavelli abbia avuto come interlocutore una persona vicina a Lopez, che potrebbe essere lo stesso Becchi, dato il  rapporto di collaborazione di quest’ultimo che ebbe con lo stesso Lopez durante la sua permanenza a Roma.

Le difficoltà in cui incontrava Becchi, nel suo compito di legato presso la corte pontificia di Alessandro VI, erano oggettive, tanto che il legato stesso le palesò nel prosieguo della missiva del 3 marzo in cui asseriva le difficoltà che riscontrava per ottenere l’indulgenza per Firenze: «Iddio m’è testimonio quello che ho facto per ottenere dal Papa questa gratia di fra Ieronimo, in primis per satisfarne et devotione di cotesto popolo, et per fare mio debito et molti altri respecti». Un altro problema per Becchi, era dovuto al fatto che  riceveva numerose lamentele dai fiorentini, sia in forma orale che scritta, che frequentavano la corte papale, i quali si lamentavano con lo stesso legato fiorentino perché quest’ultimo non era in grado di assecondare le richieste del papa e  dei rappresentanti della Lega Santa nei confronti del governo fiorentino: «pure ho lectere da molti privati, ho carico non ci havere facta et usata la diligentia dovevo et potevo». Nella seconda parte della missiva,  Becchi consigliava apertamente la Signoria di prendere le distanze da Savonarola per una ragione di mera opportunità geopolitica nel quadro dello scacchiare della politica della penisoala italiana, che vedevano la stessa Firenze isolata dagli altri Stati per la sua allenaza con la francia di Carlo VIII: «pensiate al fatto vostro et a l’honore et utile di cotesta ciptà, et facciate oggi quello haresti a fare di qui a due mesi; et che voi  non diate l’honore vostro e l’governo della ciptà al Frate o a altri». Il 9 marzo la Signoria rispose alla missiva di Becchi, in cui respinte in toto le accuse che gli venivano rivolte dagli ambasciatori della Lega Santa. La stessa Signoria accusava direttamente gli esuli fiorentini di riportare notizie mendaci al papa nei confronti dell’attuale governo fiorentino: “Le false calumnie che sono dagli emuli et perversi huomini contro a frate Hieronymo tutto el dì ficte et machinate».

Nel mese di marzo intercorsero numerose missive tra la Signoria e Becchi, dove la magistratura esecutiva di Firenze difendeva il contenuto delle prediche di Savonarola, adducendo che l’obiettivo di Savonarola era la condanna morale nei confronti dei principi italiani, ma escludeva la persona del papa. Ma quello che dichiarava la Signoria era un’emerita scusa, dato che il giorno successivo all’invio della missiva a Becchi, il 10 marzo, la stessa Signoria, convocata in assise presso l’omonimo palazzo, ove si discusse sul fatto che le prediche di Savonarola avrebbero causato delle ripercussioni negative sull’attività dei banchieri fiorentini che esercitavano l’attività di intermediazione dei numerosi contributi per la Camera pontificia, dibattito che non sortì però nessun cambio di posizione da parte della Signoria nei confronti di Savonarola: «Del caso di fra Girolamo, atteso el fructo grande che ha facto et fa nela cictà nostra, non ci essendo prohibitione giudicherebbe fusse bene ordinare qualche doctori et cictadini docti in legie, et fussino con frate Girolamo et vedessimo circa questo che fusse bene di fare, per bene et salute della cictà, per non fare conto la volontà del sommo pontefice: perchè reddite que sunt Cesari cesari et que sunt Dei Deo. Che ‘altra volta, le censure del Pontefice hanno facto gran dono alla cictà, et maxime a’ mercanti nostri habbiano avuto iin diverse parti dè Chirsitani».

L’11 marzo Becchi scrisse alla Signoria, che Giovanni Lopez gli intimava di far interrompere immediatamente le prediche della quaresima perché andava a compromettere gli interessi di Firenze presso lo Stato pontificio: «Il cardinale di Perugia, el quale ma imposto vi exori et preghi, in nome di Sua reverendissima Signoria, pensiate al fatto vosto et a l’onore et utile di cotesta ciptà, et facciate oggi quello haresti a fare di qui a due mesi: et che voi non diate l’honore vostro e’l governo della ciptà al Frate o a altri. El medesimo mi dichano degli altri Revenendissimi, prudenti et amatori della citptà vostra». Il giorno seguente la magistratura dei Dieci inviò una nuova missiva a Becchi, la quale dava istruzione all’ambasciatore di assicurare Alessandro VI, che non avrebbe dovuto temere niente dalla neutralità di Firenze nei confronti tra la vertenza in atto tra la Lega Santa e la Francia: «Et nondimeno noi confidiamo assai nel divino aiuto, sappiendo non piotere essere iustiamente colpati di manchamento alcuno, in Italia; et la confederazione et obligatione habbiamo col Re di Francia essere di natura che non offenda alchuno, come molte volte , per più nostre lettere, si s’è facto intendere». Il 18 marzo Becchi riferì ai Dieci che in un colloquio avuto con Carafa, il quale gli aveva riferito che il papa non tollerava più le prediche di Savonarola perchè andavano a interferire negli affari interni della politica dello Stato pontificio, ed era giunto il momento che la Signoria si doveva assumere la responsabilità di far cessare le prediche :«et molto si duole di fra ieronimo per intendere quel dice: et che da Monsignore reverendissimo di Napoli et molti altri gli era suto prossimo non si imparerebbe delle cose di qua, come dicono non essere suo offitio né appartenersi a lui». In una nuova missiva che Becchi inviò ai Dieci il 16 marzo, il legato mise in evidenza che lo stesso governo fiorentino causava ilarità presso la corte papale a causa della sua sudditanza nei confronti di Savonarola. Sempre nella medesima missiva Becchi mostrò chiaramente la sua frustrazione nel difendere la scelta politica della Repubblica fiorentina: «[…]difendere et scusare fra Ieronimo, per l’honore  del la città et de’ cittadini che governano e amministrano quella». Dopo tre giorni, il 19 marzo del 1496 Becchi scrisse ai Dieci, esortandoli  ad essere collaborativi con il papa al fine di non precludere gli interessi di Firenze. Becchi voleva persuadere la Signoria ad attuare una politica di compromesso con tutti gli Stati della Lega Santa per trovare una soluzione diplomatica per la questione di Pisa: «Assai gioverebbe et farebbe molto al proposito nostro, dà Cattolici Re et regina di Spagna, avessimo nuove lectere alla Santità di N.S., al duca di Milano et a Vinitiani, in favore vostro, et per la iustificatione vostra». Il 26 marzo Becchi scrisse una nuova missiva diretta ai Dieci, dove in quattro punti sintetizzò le accuse che Alessandro VI riservava a Savonarola :

  1. «[…] che predichi contro alla voglia del Papa, che mai più si udì»;

  2. «[…]che lui (Savonarola) dica, così apertamente et pubblice, mal di Sua Santità, de cardinali et tutta questa corte[…]»;

  3. «[…]che lui scriva, dicha et affermi esser profeta, parlare con Iddio, Nostra Donna et Sancti et predica le cose future con tanta osservantia»;

  4. «[…]che per dare la cui ordire al popolo a a’fanciulli , toglie la libertà di deliberare et discerneree et iudicare s’apartiene che , quando mille volte tutte le predecte cose fussino false, è infamia et disonore alla ciptà che un frate governi et disponghi, et dia ordire a fanciulli, in modo che qua et per tutto il mondo s’abbia a dire che fra ieronimo e’ fanciulli governano Firenze et che fanno e’ e Signori , gli Otto e Dieci e gli Ottanta et gastighino e vitii,; et che a ciptadini m’ahabbino ardire parlarne o provedere contro a sua voglia : che pure a udirne ragionare è una vergogna et una infamia». L’ultimo capoverso della missiva si concluse con l’affermazione emblematica di Becchi, che riprendeva la prima parte della missiva, dove metteva in chiara evidenza il suo sdegno contro la politica fiorentina di chiaro sostegno alla causa fratesca: «[…] in verità, che tutta questa corte se ne ride, et a molti che amano la ciptà ne duole et incresce assai et pare loro habbiate perso il cervello et la reputatione a non si sapere provedere».

Appare evidente che in quel periodo i rapporti tra la Signoria e Becchi si lacerarono definitivamente. Di fatto Becchi proveniva tra le file dei sostenitori della famiglia Medici e la politica intransigente adottata dalla nuova Signoria del bimestre marzo-aprile filo fratesca, che adottò una politica di intransigenza nei confronti della corte papale, mise in evidenza dal punto di vista politico la distanza tra Becchi e il governo fiorentino. Dopo poco più di un anno tale distanza apparve evidente, quando il 7 marzo del 1497 Becchi, su richiesta della Signoria di indagare se vi fosse in atto  una possibile manovra da parte del papa di far reinsediare a Firenze Piero dei Medici, con l’appoggio di Venezia e Milano, confermò che all’interno della curia papale giravano tali voci. Nella chiusura della missiva aggiunse, tramite l’utilizzo di un lessico che faceva uso dell’ironia, la consapevolezza della totale mancanza di fiducia da parte della magistratura fiorentina nei suoi confronti: «non vi parlo per bocca mia et sanza fondamento, che so a me prestate poca fede: che quando mi avessi tenuto meglio raguagliato delle cose di costà non havete fatto, have potuto meglio iusitificare le cose vostre . Non ho qualche volta potuto et saputo . Di tutto mi rimecto a l’iuditio et prudentia di V.S. alle quali mi raccomando». Il 14 marzo del 1497 i Dieci  diedero l’istruzione  di inviare, in qualità di mandatario, Alessandro Braccesi, uomo vicino alla Signoria e filo-savonaroliano. La nomina del nuovo mandatario era un’emanazione diretta dell’esecutivo fiorentino, con l’obiettivo di trattare direttamente con il Papa la questione di Savonarola, il che lascia corroborare la tesi di una completa rottura tra Becchi  e la magistratura fiorentina.

Dal gennaio del 1498 Becchi venne sostituito formalmente dal nuovo oratore fiorentino,  il savonaroliano dalla prima ora Domenico Bonsi. Da quel mese Becchi si firmò in calce alle lettere come “scriptor apostolicus“, il che lascia desumere che svolse attività di chierico a Roma all’interno della curia papale. Dato il contesto politico Becchi poté schierarsi apertamente con la fazione anti-savonaroliana che auspicava la caduta di Savonarola, che sarebbe avvenuta da lì a breve.

Dopo poco più di due mesi, il 9 marzo, quando l’allora ventinovenne Niccolò Machiavelli gli scrisse la missiva che aveva per oggetto l’analisi sui sermoni pronunciati da Savonarola il 2 e il 3 marzo, ai quali lo stesso Machiavelli aveva assistito in prima persona, inerenti il libro dell’Esodo 1-12,  in cui espresse un giudizio di carattere strettamente politico sull’ipocrisia palesata da Savonarola. Machiavelli mise in evidenza al suo interlocutore come il tono utilizzato dal frate mostrasse un atteggiamento cauto a causa del cambiamento avvenuto in seno alla Signoria nei confronti di Savonarola, la quale adottò un netto mutamento della  strategia politica nei confronti di Alessandro VI, ricercando un appeasement con il pontefice in cui il frate domenicano era ritenuto, ormai, un elemento divisivo tra la repubblica fiorentina e lo Stato pontificio. Dopo la caduta di Savonarola e l’instaurazione del regime repubblicano, retto dal gonfaloniere di Pier Soderini in cui  Machiavelli svolse l’incarico di Segretario della Seconda cancelleria, con molta probabilità Becchi rimase a Roma e non venne coinvolto negli incarichi politici del nuovo regime. La missiva del 9 marzo del 1498 risulta essere l’unica missiva che Machiavelli ha inviato a Becchi. Secondo Cutinelli Rendina è molto probabile che Machiavelli avesse scritto, in precedenza, altre volte a Becchi per ragguagliarlo sulle prediche di Savonarola, oltre ad offrirgli degli aggiornamenti delle vicissitudini politiche in atto a Firenze. Dopo la missiva del 9 marzo non vi furono altre lettere da parte di Machiavelli nei confronti di Becchi, o viceversa,  il che può lasciare congetturare che le strade politiche tra i due si divisero dopo l’instaurazione del nuovo governo repubblicano oligarchico anti-mediceo, dato che Becchi rimase un uomo fidato della famiglia Medici. Il 27 aprile del 1515 Becchi mise a disposizione una sua residenza a Roma a Leone X (Giovanni dei Medici) e Lorenzo dei Medici, duca di Urbino per le riunioni della “Sacra Accademia”.

 

Biografia e monografia consultata su Machiavelli: R. RIDOLFI, Vita  di  Niccolò Machiavelli, Sansoni, Firenze 1978 (1° e.1954); G. SASSO, Studi su Machiavelli, Morano, Napoli 1967; F. BAUSI, Machiavelli, Salerno Editrice, Roma 2005; G.M. BARBUTO, Machiavelli, Salerno Editrice, Roma 2013. Biografie monografie su Savonarola: P. VILLARI, La storia di Girolamo Savonarola e de’ suoi tempi. Narrata da Pasquale Villari con l’aiuto di nuovi documenti, Le Monnier, Firenze 1926; L. MARTINES, Savonarola. Moralità e politica a Firenze nel Quattrocento, Mondadori, Milano 2008; M. PELLEGRINI, Savonarola, Salerno Editrice, Roma 2020. Per quanto riguarda Ricciardo Becchi si rimanda a M. LODONE, Becchi Ricciardo (vocem), in Machiavelli, Istituto della Enciclopedia italiana, vol. I, Roma 2015, pp.153-154. Per quanto concerne le missive intercorse tra Becchi e la Signoria, si rimanda a A. GHERARDI, Nuovi documenti e studi intorno a G.Savonarola, Sansoni, Firenze 1887.  Per la missiva tra Machiavelli e Becchi del 9 marzo vedere, N. Machiavelli, Lettere, (Edizione Nazionale), direzione e coordinamento di F. Bausi, a cura di F. Bausi, A. Decaria, D. Gamberini, A. Guidi, A. Montevecchi, M. Simonetta, C. Varotti, con la collaborazione di L. Boschetto e S. Larosa, Salerno Editrice, Roma 2022. Testi critici sul rapporto tra Machiavelli e Becchi, M. Lodone, Savonarola e Machiavelli: una nota sui Discorsi, I, II, in «Studi e Materiali di storia delle religioni», 2011, 30, E. Cutinelli-Rendina, Chiesa e religione in Machiavelli, Istituti editoriali e poligrafici internazionali, Pisa-Roma.

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