Federico Leonardi (1973) ha svolto attività di ricerca e insegnamento a Milano, Firenze e Londra ed è docente ordinario di Filosofia e Storia nei Licei. Oltre a vari saggi in italiano e in inglese, ha scritto le seguenti monografie: Tragedia e Storia (Aracne, 2014); World History (con Luca Maggioni; Rubbettino, 2015), Aristotele: sapere storico e scienza politica, saggio introduttivo ad Aristotele, Scritti politici (Rubbettino, 2020), prima edizione italiana integrale degli scritti politici dello Stagirita, di cui è anche il curatore; Nel cuore dell'Eurasia. Storia di Russia e Ucraina (Aracne, 2022); Le pietre di Roma(Ensemble, 2024). Collabora con RAI Cultura-Filosofia.
Quel che segue è il resoconto di alcune interviste realizzate in Iran. Le interviste sono state decine, ne riportiamo soltanto alcune. Tutte le testimonianze riportate sono trascrizioni di quei colloqui, di cui, per comprensibili motivi di sicurezza, abbiamo omesso nomi, cognomi e luoghi.
Siccome in Iran è raro ormai comprare qualcosa che costi meno di un milione di Reali, è invalso l’uso di parlarsi con una moneta inventata, il cui valore è dieci volte minore, il Toman: così invece di dire un milione di Reali si dice centomila Toman. Insomma si toglie uno zero e, seppur per gioco, si semplificano le cifre, ma non si scappa dalla realtà del pagamento in milioni.
Comprare il pane costa quanto un pieno di benzina, diventata ormai in Iran l’unico prodotto a buon mercato. Nessuno rinuncia all’auto, le città sono ingolfate, il traffico caotico. Un pasto in trattoria, per esempio pollo, riso e insalata o una zuppa di legumi e carne, costa un milione di reali, in un ristorante anche il doppio. Un pieno di un auto media ottocentomila Reali. A noi Europei conviene cambiare gli Euro poco per volta, per evitare di dover circolare con una valigetta: «Non soltanto la nostra moneta vale poco ormai, ma, situazione surreale, non siamo mai certi del suo valore che continuamente cambia. L’unica certezza è che è crollata negli ultimi due anni, sicché di mese in mese abbiamo visto il valore dei nostri salari ridursi sempre più». Alla domanda se vedano un futuro, la risposta ricorrente è:
No, non vedo più un futuro qui. Migrare in Europa sarebbe un’opportunità ma è molto difficile: il governo lo rende sempre più difficile, anche soltanto per turismo il visto si ottiene mostrando di avere un posto di lavoro a tempo indeterminato. In sostanza, non devono sospettare che tu possa volere scappare dal Paese. Per esempio, un visto per il Canada costa dodicimila euro, quando uno stipendio buono arriva a trecento mensili. L’alternativa è ribaltare il regime, prima o poi ce la faremo.
Sì, peggiore è la crisi politica: secondo le decine di persone che abbiamo intervistato, il consenso al regime degli ayatollah ammonta al del dieci per cento al massimo, secondo molti non supera il cinque per cento. Il restante novanta o novantacinque percento oggi non va oltre un’opposizione silenziosa, vuoi per quieto vivere, vuoi perché, dopo le proteste represse nel sangue e la paura, anche i più agguerriti si trovano ora prostrati, ma non tutti rassegnati.
A Mashad, città santa dell’Islam sciita e quindi dell’Iran, ricorre la festa del martirio di Husain. I pellegrini ingolfano la città, ai festeggiamenti religiosi, luttuosi come per ogni martire, si affiancano balli danze banchetti in ogni angolo. In Iran è impossibile non riuscire a dialogare: le persone sono aperte, ospitali, amichevoli. La cosiddetta moschea di Mashad non è una moschea, ma una cittadella che ne ospita tante, collegate da piazze, cortili, fontane, biblioteche e musei: un plesso interamente pedonale, dove si cammina, prega, incontra. Siamo gli unici non iraniani, ci confermano al momento dei controlli prima di accedere; ci pregano di aspettare, perché siamo vincolati a muoverci con un guida fornita dall’ente che gestisce l’impianto. Non è difficile parlare anche con i religiosi, uno di loro, forse perché siamo gli unici occidentali in città, forse perché capisce che abbiamo più di un’infarinatura sul Paese, si offre per farci da guida in città. Per due sere usciamo insieme. Siamo fortunati perché è un docente di Inglese. È un ragazzo colto, lettore avido e acuto, conosce il Corano e la tradizione sciita, cui accosta sociologia, economia, diritto, anche filosofia. Sta leggendo Tecnopolis di Neil Postman e altri libri di Stiglitz. Il libro di Postman mette in guardia dai rischi che il mondo globale si consegni interamente nelle mani della tecnologia e l’uomo non finisca per tramontare, diventandone schiavo; Stiglitz rappresenta l’occasione per discutere dei limiti ormai conclamati del capitalismo neo-liberale. Tecnologia e capitalismo galoppanti rappresentano rischi comuni là come qua.
Postman e Stiglitz rappresentano l’occasione per parlare della Repubblica Islamica:
Siamo consapevoli che la Rivoluzione non ha avuto successo pieno, che c’è ancora molto da lavorare, ma come vedete le persone non soffrono. La nostra Repubblica Islamica è uno dei pochi regimi politici a ritenere che politica e morale debbano rimanere congiunte, per questo stiamo ragionando su come coniugare la difesa dei principi morali con un Paese che si sviluppi economicamente e tecnologicamente
Parliamo del suo essere insegnante: «La mia priorità è la missione, non il lavoro. Quest’ultimo lo scelgo se collima con la missione, che aiutare la società iraniana nel suo sviluppo, perciò ho accettato un nuovo incarico, in cui oltre che docente sarò a disposizione come guida spirituale e psicologica». Le mie domande virano verso il consenso al governo e, senza che chieda, sulle proteste di due anni fa:
La Repubblica Islamica ha almeno tre tipi di opposizione: i partiti diversi da quello teocratico delle Guide, come quello comunista, le diverse etnie miranti all’indipendenza, come i Curdi, e infine i nemici esterni come Israele e USA. Le rivolte di due anni fa sono state partecipate ma chi scendeva in strada non rappresentava la maggioranza del Paese, che non è stato capito, specialmente la parte rurale. Per lo più di trattava di giovani, nati e soprattutto cresciuti nei centri urbani, che hanno allargato un’iniziale protesta più circoscritta alle donne. Erano giovani che nei social media per la prima volta hanno avuto accesso costante a un sistema di vita diverso. Nelle campagne le persone ragionano diversamente e hanno altre esigenze: semplicemente le une con coincidono con le altre.
L’altro evento che ha scosso il Paese è stata la morte incidentale del Presidente Raisi, la cui sepoltura nel tempio di Mashad ne fa martire tra i martiri, messaggio esplicitato da un libercolo ufficiale, intitolato Il servo della nazione, che nel testo associa all’idea del servizio quella di martirio, ricorrenti e intrecciate nella biografia, tra lo storico e l’esemplare, tra narrazione ed edificazione propagandistica. Associato al martire, che come Gesù per il Cristianesimo, ha originato l’Islam Sciita, Raisi è assurto ufficialmente ai massimi livelli della narrazione storica iraniana. Quale soluzione allora alla crisi economica, che peggiora di mese in mese, a volte di giorno in giorno, senza nemmeno il barlume di un’inversione di tendenza? Gli stipendi rimangono uguali, l’inflazione cresce:
Il fallimento più grande della Rivoluzione è la corrente crisi economica, ma è il prezzo che dobbiamo pagare per le sanzioni e la nostra linea di fermezza assoluta contro Israele e gli USA. L’obiettivo della Rivoluzione non è ancora stato centrato, eppure non è lontano. Siamo l’unico Paese che combina politica e morale, che non deflette di fronte allo strapotere USA. La politica estera e quella interna sono tra loro coerenti. Contro il capitalismo sfrenato e il consumismo, contro lo strapotere della tecnologia che vorrebbe sostituire ogni morale, noi manteniamo fermo un sistema politico ispirato da principi morali ferrei. È dura per la popolazione rispettarla, come è dura accettare che la sua conseguenza è una guerra permanente contro gli USA e il loro rappresentante in Medio Oriente, Israele. E tale guerra implica sanzioni ed embargo, che bloccano la nostra economia.
La linea della nostra Guida Suprema, Ali Khamenei, è improntata a pazienza e resistenza. Noi popoli arabi uniti siamo infinitamente più numerosi del minuscolo Israele, che accerchiato e in constante tensione, finirà per crollare. Eppure, mentre nelle prediche pubbliche ci chiede la perseveranza, noi, in risposta, gli chiediamo la guerra contro Israele. Non ne possiamo più di attendere, perché lentamente stiamo andando verso un baratro economico. Perciò, gli chiediamo a gran voce di rompere gli indugi e dichiarare guerra aperta a Israele e al suo alleato, gli USA. Noi siamo pronti.
Per le strade dell’Iran si colgono altre verità, contrapposte. Il consenso al regime degli ayatollah sembra ai minimi termini, il Paese allo stremo.
La maggior parte dell’Iran ha a una mentalità tradizionale, eccezion fatta per Shiraz e per la minoranza colta di Teheran. Shiraz è da sempre una città più liberale, dove alcune donne tendono a non indossare il velo e si produce il vino, lo stesso vitigno del Sirah che fate in Italia. Naturalmente il vino non è in vendita, ma la produzione privata è massiccia e tacitamente consentita. Teheran è la città dove si tende a essere sempre in disaccordo con qualsiasi linea politica, pronti a scendere in strada e manifestare.
L’analogia con Parigi e le sue mille proteste e rivoluzioni corre alla mente:
A Teheran è iniziata la rivolta contro la vecchia dinastia Qaiar, là è nato e si è affermato il primo parlamento iraniano, il Majles, nel 1906. A Teheran si è affermata la nuova dinastia modernizzante dei Pahlavi e, decenni dopo, il suo opposto, il regime iper-conservatore di Khomeini che l’ha scalzata. Comprendere Shiraz è facile, perché il loro stile di vita è naturalmente più libero, senza speciali legami con la politica. Teheran è più misteriosa, perché è una città nuova, ha soltanto due secoli, cresce insieme al resto del Paese, perciò non è mai eguale a se stessa. È in costante movimento, come se fosse naturalmente rivoluzionaria. Purtuttavia, forse è cresciuta talmente tanto da ospitare tutto e il suo contrario. E poi è come se ci aspettasse sempre qualcosa da Teheran, è come se l’avessimo caricata di eccessive aspettative.
Così esordisce un giovane gestore di un bar, laureato, che, come molti, si schermisce, nascondendosi dietro un paravento di impoliticità, per poi, mostrare invece, resosi conto di poter parlare più liberamente, profonda coscienza politica e conoscenze storiche:
Devo darmi da fare come barista perché altri lavori, pur più legati al mio titolo accademico, non sarebbero così redditizi. Qui, come in altre città dell’Iran, come Mashad e Qom, città religiose, o Isfahan o Yazd, la mentalità è estremamente legata alla tradizione. Il punto è che tradizionalismo non è fondamentalismo. I miei genitori, come molti, sono musulmani praticanti, ma non nutrono nessuna simpatia per il regime. Anzi lo disprezzano, ma preferiscono per quieto vivere, tacere. Il regime è spietato e noi che siamo scesi in strada portiamo ancora i segni delle pallottole, non mortali ma durissime, che ci hanno colpito.
Ci mostra i segni sulle braccia, rimasti dopo due anni: «io porto ancora le ferite dei bussolotti di gomma, altri invece hanno preso pallottole vere e proprie e non sono rimasti soltanto feriti».
In un altra città, un altro gestore di caffè, ci invita ad entrare; quando capisce che siamo disponibili ad ascoltarlo, ci invita a casa sua, dove possiamo parlare con altri suoi amici, tutti laureati, chi in ingegneria, chi in medicina, senza paura di essere spiati o controllati. Molti conoscono anche la letteratura occidentale, si discute di Kafka o di Nietzsche, di Melville come di Foucault:
Perché le nostre proteste di due anni fa sono cominciate? La nostra generazione non può più esser tenuta nell’isolamento e nell’ignoranza, semplicemente perché internet gli ha aperto porte su un mondo diverso. Miriadi di ragazzi e ragazze sono scesi in strade perché vogliono una vita diversa: le donne non vogliono più dover rinunciare alla loro libertà di esser donne come credono, noi tutti siamo ormai ostili a un regime che non ci toglie soltanto la libertà ma reprime ogni opinione e ogni dissenso, lasciandoci in una situazione economica disastrosa. L’unico prodotto a buon mercato è la benzina, come avete visto. Chiunque si sposa finisce per vivere con i genitori, che, con gli stipendi di qualche decennio fa, avevano acquistato case spaziose. Ma quale sarà il prossimo passo, se la crisi economica non si inverte? Chi può scappa in Occidente.
L’altro punto spinoso è il motivo del fallimento delle proteste:
Tre sono le ragioni. Innanzitutto, non avevamo una guida, un leader: questo ha lasciato confusione al nostro interno, sapevamo quel che non volevamo ma non avevamo chiara un’alternativa. Forse, l’Iran non è ancora pronto per la democrazia, poiché c’è una grande percentuale di laureati, che ha una coscienza politica, ma molta della popolazione, pur essendo aperta e ospitale, lo avete sperimentato, è di mentalità molto schematica, perciò più disponibile a un regime autoritario. La seconda ragione è che il regime è sempre più duro e sempre più capace di controllo. Grazie alle nuove tecnologia hanno impiantato telecamere in tutte le strade e in molti luoghi pubblici. La maggioranza di posti di lavoro è statale, poiché le imprese private sono poco sviluppate. Lavorare per lo Stato significa dover sottostare a certe regole e dover sostenere certe idee, pena la perdita del lavoro, che è tutto controllato dall’alto tramite una rete di famiglie legate al regime. Non più complessivamente del cinque per cento del Paese. Khamenei dall’alto controlla tutto: è un azero, che ha imparato sotto l’URSS i metodi dello spionaggio più efficace. Veniamo al punto più dolente: la morte di Raisi. Al mondo intero è stata presentata come un incidente, lasciando ovviamente intendere che potrebbe esserci lo zampino dei nostri nemici ufficiali, come gli USA o Israele. Eppure, noi sappiamo da fonti interne al governo, che hanno lasciato trapelare varie notizie, che dietro il fatto c’è la mano del regime iraniano, per il quale Raisi stava diventando troppo influente e, quindi, non più controllabile.
Prima di passare alla terza e ultima ragione, mi mostra un’immagine satirica di Josep Borrell, all’epoca dei fatti ancora alto rappresentante dell’Unione Europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza, vestito da ayatollah, con tanto di inconfondibile turbante:
La UE e gli USA ci hanno lasciato soli. Abbiamo capito che le loro dichiarazioni in favore dei diritti umani calpestati erano pura facciata, quando il regime ha congedato i giornalisti e, spento internet, ha scatenato le rappresaglie. Poi, da fonti interne al governo, è trapelata un’informazione tremenda, che noi però già subodoravamo: il nostro governo aveva comprato con petrolio sottobanco e gratuito l’inazione dell’Occidente. Da qui la satira verso Borrell. Noi potremo anche organizzarci e trovare un leader, ma senza appoggio estero e senza armi non possiamo che fallire.
Al mio rilievo che pretendere che l’Occidente li appoggi fino ad armarli significherebbe renderlo responsabile di una potenziale guerra civile, la sua risposta è: «Potrebbe bastare un appoggio finanziario, denaro come nelle varie rivoluzioni arancioni o nelle varie primavere arabe. Però, qui, c’è il petrolio e lo si ottiene più facilmente dal nostro regime sottobanco».
Mentre parliamo, una ragazza sbianca. È visibilmente impaurita, fissa il suo cellulare. Quando si riprende ci mostra il messaggio che ha appena ricevuto, contiene un video: è lei che senza velo passeggia per la via, insieme ad altri; il commento è lapidario: sappiamo che non indossi il velo, stai attenta. Si tratta di un messaggio della polizia.
La polizia morale circola in borghese, abbiamo imparato a riconoscerla ma le telecamere sono ovunque. Due anni fa eravamo in strada a protestare, molte di noi sono finite in prigione, alcune stuprate, altre uccise. La ferocia è stata maggiore di quanto è emerso sui media occidentali. Abbiamo imparato che cosa significa la tecnica di colpire uno per educarne cento. La mano dura e la ferocia diffusa generano repulsione e odio, alcuni colpi mirati invece la paura: l’odio genera desiderio di vendetta, la paura blocca. La paura ci ha fermato, molti di noi, giovanissimi, sono stati indotti a chiedere scusa ai genitori, come fosse stata una bravata adolescenziale. Invece, la motivazione politica è profonda: non soltanto le donne, ma la maggioranza della società è contraria a questo regime. Quando deve reprimere i moti nelle strade, il nostro governo deve ricorrere agli Hezbollah dal Libano, perché molti iraniani si rifiutano di colpire i propri connazionali, di cui spesso condividono le idee. La caratteristica peggiore non è la spietatezza, ma l’ipocrisia. Se la barba è il simbolo dei mullah, noi diciamo che basta alzare la barba per scoprire che sotto si trova una bandiera inglese o americana. Si presentano come difensori della morale, sono i più corrotti, perché si arricchiscono loro e i loro accoliti. Si spacciano per la roccaforte contro l’egemonia USA, fanno affari con gli americani di nascosto.
Il mercato nero di alcolici e droghe fingono di non vederlo, ma come potrebbe prosperare senza il loro appoggio? L’esempio più clamoroso sono le VPN, le applicazioni per aggirare il blocco dei social media occidentali, come WhatsApp, Instagram, Facebook o Youtube. Come ti spieghi che, da una parte, in Iran siano proibiti ufficialmente, e, d’altra parte, le VPN siano vendute ufficialmente nei negozi? La guerra contro Israele che agli inizi del regime era sincera, sembra sempre di più ogni giorno che passa esser diventata un mezzo per tener vivo un consenso che ormai è eroso, per spostare l’attenzione dai problemi interni verso un supposto nemico esterno. Il capo di Hamas è stato facilmente colpito qui in Iran, mentre la guerra contro Israele è combattuta in Libano, Paese ormai disastrato e senza prospettive: facile per Israele fargli guerra, facile per Hezbollah rispondergli, in un Paese ormai crollato e senza altre vie d’uscita. Sembra una guerra tra governi in crisi.
La guardo stranito. «Non tutto quello che ti dico è verificato, ma, come vedi, tutto si tiene in una logica ferrea». La domanda sul futuro non devo nemmeno porla, spontaneamente il nostro dialogo si conclude proprio lì: «Non abbiamo altra via d’uscita: andarcene dall’Iran oppure continuare a lottare. A meno che il nostro governo non voglia passare alla guerra aperta contro Israele: sarebbe la migliore risposta alla crisi economica e politica».
In Iran si scontrano due verità contrapposte, una favore del regime, propugnata da pochi, la seconda propugnata da tanti, moltissimi, ostili al regime. Quale sarà il futuro è difficile dirlo, il dilemma tra il crollo del regime o la guerra contro Israele, volta invece a tenerlo in piedi, forse ipocritamente, sembra oggi propendere per la seconda. Tuttavia, nessuna delle due sembra avere basi solide: né il dissenso, che pare essere così dilagante, sembra aver chiara un’alternativa, né raccolto attorno un’organizzazione efficace, mentre il regime potrebbe arrivare alla guerra aperta contro Israele più per coprire la propria debolezza interna che per la forza, che invece continua a esibire verso l’esterno. Con buona pace dell’Occidente e soprattutto di noi occidentali.