Federico Leonardi (1973) ha svolto attività di ricerca e insegnamento a Milano, Firenze e Londra ed è docente ordinario di Filosofia e Storia nei Licei. Oltre a vari saggi in italiano e in inglese, ha scritto le seguenti monografie: Tragedia e Storia (Aracne, 2014); World History (con Luca Maggioni; Rubbettino, 2015), Aristotele: sapere storico e scienza politica, saggio introduttivo ad Aristotele, Scritti politici (Rubbettino, 2020), prima edizione italiana integrale degli scritti politici dello Stagirita, di cui è anche il curatore; Nel cuore dell'Eurasia. Storia di Russia e Ucraina (Aracne, 2022); Le pietre di Roma (Ensemble, 2024). Collabora con RAI Cultura-Filosofia.

«Non le dirò cosa sono. Non lo dirò mai a nessuno». Kissinger scelse di rilasciare la sua unica intervista personale a Oriana Fallaci. Si conclude così. Se ne pentì e cercò, senza successo, di ritirarla. Si era rivelato al mondo lui che era solito non parlare mai di sé direttamente.

Il più grande politico del XX secolo o un criminale? Elogiato dai politologi per i suoi libri sulla politica internazionale, celebre per la sua conduzione della Guerra Fredda, disprezzato, se non odiato, dalle masse, specialmente in America Latina. Premio Nobel per la Pace nel 1973 per i trattati di pace in Vietnam: non lo rifiutò, ma non lo ritirò mai.

Chi è Kissinger e quale il suo contributo? E quale miglior risposta di un’intervista, l’unica in cui si rivela? Lo fa talmente a fondo da pentirsi e schermirsi per poi, appunto, negarsi sul più bello, nel finale, dice talmente la verità da far infuriare lo stesso Nixon. Si riconciliarono, ma da lì in poi più nessuna intervista di tipo personale: dovette esser quello il patto.

Intanto, cominciamo a unire l’inizio e la fine, la sua tesi in Filosofia e il suo libro-testamento, Il nuovo ordine mondiale. E proviamo a definire il mondo in cui operò: un mondo in ritardo rispetto ai suoi stessi problemi, che agitava soluzioni superate a questioni nuove. Valga come esempio la soluzione della guerra di cui due guerre mondiali e l’arma atomica avrebbero già dovuto mostrare l’assurdità. Quanto a lui, capì che gli imperi, che con le guerre si fanno e si mantengono, non reggevano più. Semplicemente perché erano troppo grandi e troppo vicini. E dire che, vuoi per le sue capacità, vuoi per la sua ambizione, si era trovato nella posizione migliore per guidare il più grande impero del mondo, proprietario del maggiore arsenale mai visto. Non era presidente, non potevo esserlo in quanto tedesco, perciò era meno esposto e, come segretario di Stato o consulente, poteva esser rieletto senza limiti di mandato. Di quell’impedimento fece la sua fortuna, poté diventare l’uomo più influente del secolo scorso.

Da ebreo tedesco fuggito dalla Germania di Hitler, aveva studiato a Harvard cose politiche ma si laureò in Filosofia. La tesi ha la stesso valore dell’intervista: Kissinger ha sempre voluto pubblicare qualsiasi suo scritto, mai la sua tesi, che pure per mole e profondità è uno dei suoi libri migliori. Del resto, chi leggerebbe centinaia di pagine filosofiche quando i libri di Kissinger sono spaccati di storia e analisi di diplomazia e politica estera, che farsene di riflessioni astratte quando si può parlare di storia concreta? Eppure alla Fallaci dice: «Se vuol sapere chi mi ha influenzato di più, le rispondo coi nomi di due filosofi: Spinoza e Kant». Guarda caso, allora quella tesi deve contar qualcosa, forse proprio perché rivelatrice di idee, che uno stratega non deve mai svelare completamente. Perciò, meglio non pubblicarla. Eppure il titolo è significativo, Il senso della storia: riflessioni su Spengler, Toynbee e Kant. Perché quel trio?

Spengler aveva mostrato che l’Occidente non poteva più permettersi di credersi l’unica civiltà possibile e che il suo tramonto era ormai cominciato. E che i tramonti cominciano quando le tue idee smettono di essere influenti e devi usare la forza per affermarle, come la Germania nazista invece aveva fatto. Toynbee andava più in là: il mondo non sarebbe mai stato unico, ma a cinque guide, le cinque civiltà giunte a noi, portatrici di mentalità tra loro non conciliabili, cioè Occidente, Islam, India, Cina, Russia. Il problema era farle convivere non schiacciarle tutte sotto una sola, l’Occidente. Infine Kant che, prima di Marx e Hegel, come una diagnosi preventiva, aveva mostrato che la storia non è mai come la vogliamo e che nessuno schema di progresso è mai veramente fondato, meglio una politica dei piccoli passi.

Prima dell’esordio pubblico, Kissinger passa ancora qualche anno di studi serrati, confluiti nella tesi di dottorato. Le parole ancora sono rivelatrici, basta ascoltare il titolo:  A World Restored: Metternich, Castelreigh and the Problems of Peace, 1812-1822. Scritta nel 1954, fu pubblicata nel 1957. Il punto è restaurare il mondo e trovare una pace duratura, perché Napoleone, come Hitler più di un secolo dopo, aveva tentato di risolvere tutto con un impero. Il mondo va sempre fuori dai cardini, perciò ogni azione politica è restaurazione, perché gli imperi sembrano sempre la soluzione, specialmente quando l’impero è il tuo e porta avanti la tua ideologia. Difatti, dopo due guerre mondiali, assurdamente la terza era alle porte. Come evitarla?

Alla fine degli anni Cinquanta Kissinger, grazie alla mediazione di Rockefeller, comincia come consulente del presidente Eisenhower. La guerra di Corea era cominciata perché nessuno voleva accettare la spartizione, USA, URSS e Cina scesero in campo, la Corea rimase divisa. Si era arrivati vicino alla terza guerra mondiale, il culto della vittoria sembrava l’unica soluzione a chi non voleva vedere l’inutilità della guerra frontale come mezzo di autoaffermazione. Rimanevano due milioni di morti. Eisenhower quella guerra l’aveva ereditata da Truman ed era riuscito a terminarla. La tensione rimaneva e l’idea di sconfiggere il nemico pure. Kissinger nei suoi scritti provò a introdurre un’idea nuova, la distensione. Eisenhower non gli diede retta, anzi continuò con la dottrina della guerra al nemico sovietico e la corsa agli armamenti, salvo sorprendere il mondo con un discorso epocale. Appena liberato dal potere, poté dire la verità, quella di un normale cittadino, quasi banale: esisteva ormai un complesso militare-industriale, produttore di armi, che dovevano esser vendute, pena il declino economico, perciò le guerre avrebbero potuto scoppiare anche senza ragione, ma con quella sola di smerciare armi. Era il 1961, quello fu il suo discorso di congedo dalla presidenza, quasi un testamento.

Forse deve esserci qualche legame tra quel complesso militare-industriale e l’intervento USA in Vietnam con cui esordì il nuovo presidente Kennedy. Erano passati pochi mesi dal discorso del suo predecessore. Kissinger continuò a pubblicare libri e fungere da consulente, riuscì ad andare in Vietnam per rendersi conto con i suoi occhi. Venne il 1969 e cominciò la sua carriera di Segretario di Stato e Consulente per la Sicurezza Nazionale, sarebbe durata fino al 1977, a fianco prima di Nixon poi di Ford. Come vede il mondo il politico Kissinger, appena insediato?

Cercare la vittoria a tutti i costi non è un modo per vincere; i morenti imperi coloniali europei stanno per essere rimpiazzati dalle cinque grandi civiltà di cui parlava Toynbee, ma a ognuna andava lasciata una sfera di influenza. Gli USA avevano la propria in America Latina e nella zona occidentale dell’Europa, nonché nel Medio Oriente ricco di petrolio. La Cina l’aveva in Asia, l’Islam non aveva la forza politica sufficiente, poiché era frammentato, l’India era unita ma debole. L’Africa rimaneva un mistero, nascosta ancora sotto una coltre di colonie europee in corso di smantellamento. Nemmeno Toynbee l’aveva capita. Insomma, dove tutti vedevano la Guerra Fredda tra comunisti, cioè Cina e URSS insieme, e USA dall’altra, Kissinger vedeva più aree culturalmente separate: a quelle più forti come un’area di influenza, alle altre subirle ma senza essere schiacciate.

È noto che Kissinger per difendere l’area di influenza USA appoggiò ogni possibile regime militare in funzione anticomunista, sia in Argentina, sia in Cile. Ci fu anche una rete segreta organizzata chiamata Operazione Condor, i cui archivi furono aperti soltanto negli Anni Novanta: uno dei risultati fu nel 2001 una richiesta di comparizione a Kissinger da parte di un giudice argentino, a causa dei suoi legami con l’Operazione.

In Vietnam dopo l’escalation, con i bombardamenti sul Nord comunista e addirittura della Cambogia, rea di appoggiarlo, Kissinger insieme a Nixon si mosse per concludere la guerra. Era meglio lasciare quell’area ex francese al suo destino ed eventualmente nelle mani cinesi. Gli USA si erano infilati in una guerra da cui non sapevano uscire. Alla domanda di Oriana Fallaci se quella guerra fosse stata inutile, ribatté: «Su questo posso essere d’accordo». Del resto, non l’aveva cominciata lui e finì come era finita in Corea: là la spartizione permanente, qui il Nord finì per inglobare il Sud. La guerra non era davvero servita a nulla, ma i morti furono quattro milioni soltanto in Vietnam. Certamente, molte armi furono vendute.

Così, mentre manteneva l’influenza USA dove poteva, Kissinger la lasciò andare dove non poteva: inseguire il culto della vittoria e dell’impero era insensato. Suo scopo fu togliere il peso dell’impero unico agli USA, intanto dividere quello comunista. Sembrava la vecchia lezione dell’equilibrio europeo di potenza di cui Kissinger ha parlato in svariati libri, ma non lo era. La stessa espressione equilibrio di potenza è un ossimoro insensato, poiché la potenza non è mai in equilibrio ma punta alla vittoria assoluta, a dispiegarsi prima o poi. Infatti, già Napoleone l’aveva dimostrato e le due guerre mondiali ribadito in maniera ancor più feroce. La potenza tende allo squilibrio.

Gli Anni Settanta, quelli in cui Kissinger fu al governo, era gli anni della crisi della triade guerra-vittoria-impero. Il mondo non ce la faceva più, le strade piene di persone in protesta, le università in subbuglio. Egli non ritirò mai il premio Nobel, forse perché capì l’inefficacia della politica. Sicuramente, la guerra fu inutile, ma a che servì la tregua, se poi il Vietnam si unificò, contro la volontà USA di tenerlo separato? Occorreva qualcosa di diverso.

Contro gran parte dell’opinione pubblica americana, Kissinger si mosse di concerto con l’URSS, proprio mentre arrivava alla distensione con la Cina: grazie a lui, cominciarono i rapporti commerciali tra i due Paesi e finì l’appoggio unilaterale a Taiwan. Risultato l’accesso al seggio ONU cinese, fino allora ricoperto dal vecchio governo fuggito a Taiwan, da parte del governo comunista.

Ultima mossa fu avviare il Medio Oriente verso un possibile ordine. Occasione fu la quarta guerra arabo-israeliana del 1973. Proprio allora USA e URSS agirono insieme, contro la logica della Guerra Fredda, obbligando Israele a un cessate in fuoco nella controffensiva contro l’Egitto. Israele per la prima volta non aveva vinto una guerra, gli arabi poterono dire di averla vinta. Chi aveva vinto? Forse l’Arabia Saudita che per anni impose a tutti il proprio prezzo del petrolio. Sta di fatto che su quella base per la prima volta Israele dovette accettare un trattato di pace con un Paese arabo: la firma avvenne nel 1978 tra Egitto e Israele. Fu quella l’ultima mossa cui Kissinger partecipò come politico. Scrisse ancora a lungo e fu molto influente, ma forse più nelle accademie che nella politica ufficiale, sicuramente non in quella USA, dominata dai neo-conservatori, che, al contrario della lezione di Kissinger, ripresero dalla fine della Guerra Fredda a perseguire l’idea della massima espansione e della vittoria militare sul nemico. Basti vedere il risultato degli interventi in Iraq e soprattutto in Afghanistan: il primo dovette essere replicato due volte, anche con prove false, il secondo doveva stroncare il terrorismo, che invece è aumentato, doveva piegare i talebani, che tuttora sono al potere.

Che cosa significa vincere Kissinger sembrava averlo imparato sul campo, ma lo fa dire alla saggezza cinese, nel suo librone Sulla Cina. Là confronta l’idea occidentale e cinese di vittoria: per la prima vincere significa colpire e atterrare l’avversario, come fare scacco matto al re, per la seconda, invece, fare in modo che l’avversario non possa combattere. La prima spreca forze, la seconda ne usa il meno possibile.

Disse ancora alla Fallaci: «L’intelligenza non è poi così importante nell’esercizio del potere e, spesso, addirittura non serve. Allo stesso modo di un capo di Stato, un tipo che fa il mio mestiere non ha bisogno d’essere troppo intelligente». Forse voleva dire che basta il buon senso.

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