Federico Leonardi (1973) ha svolto attività di ricerca e insegnamento a Milano, Firenze e Londra ed è docente ordinario di Filosofia e Storia nei Licei. Oltre a vari saggi in italiano e in inglese, ha scritto le seguenti monografie: Tragedia e Storia (Aracne, 2014); World History (con Luca Maggioni; Rubbettino, 2015), Aristotele: sapere storico e scienza politica, saggio introduttivo ad Aristotele, Scritti politici (Rubbettino, 2020), prima edizione italiana integrale degli scritti politici dello Stagirita, di cui è anche il curatore; Nel cuore dell'Eurasia. Storia di Russia e Ucraina (Aracne, 2022); Le pietre di Roma (Ensemble, 2024). Collabora con RAI Cultura-Filosofia.

Le 1500 tombe trace della Bulgaria rappresentano un patrimonio archeologico tanto immenso quanto ancora sconosciuto, tanto che gli archeologi ne hanno studiate soltanto 300, poiché gli scavi sono cominciati soltanto da qualche decennio. Ma soprattutto recano davvero la più vasta testimonianza del culto più antico in Europa dell’immortalità dell’anima? È vero che la scena troneggiante sulla parete interna della tomba di Svestari, una processione maschile e una femminile che si congiungono al centro dell’altorilievo, in cui una donna che sembra guidare una danza è colta nell’atto di incoronare un uomo che avanza a cavallo rappresenta l’incontro tra il re-eroe, cui la tomba sarebbe dedicata, e una Dea infera capace di donare l’immortalità?

Siamo partiti sulle tracce della prima Europa bulgara precedente a quella francese e poi scopriamo man mano qualcosa di più antico, una prima Europa tracia precedente a quella greca. E se le domande sorgono dai misteri, dalla mistura di certo e incerto, tutti noi sappiamo che in ogni ricerca se ne annidano tante altre.

Le guide che avevamo consultato menzionavano le tombe trace come una delle tappe imperdibili, patrimonio Unesco. Siamo sul Mar Nero a Sozopol, l’ex colonia greca di Apollonia, e decidiamo di andare a Varna, perché nel museo archeologico è esposto l’oro tracio. I pezzi sono pochi ma spettacolari e con l’oro negli occhi ci sediamo la sera dopo cena in un caffè sul lungomare per scartabellare i nostri libri. Le domande son desideri, ma le risposte di una mente nutrita soltanto dei libri non accende la fantasia come la vista. Quante volte avevo letto in Erodoto che i Traci sono numerosi come gli Indiani e potrebbero dominare il mondo, se non fossero divisi in tribù? Aver visto l’oro me la mostrava quella potenza che nulla m’aveva significato leggendola. La vista è più potente di qualsiasi libro.

Nella libreria del museo fanno bella mostra di sé titoli sull’antica Tracia affiancati da altri su Orfeo. Già! Orfeo, colui che portò la poesia ad un livello tale da ammansire gli animali e da convincere gli Dei inferi a restituirgli la donna amata, Euridice, era tracio. Eppure, più viaggiamo per il Paese, più il mistero si apriva. Le città sono come oasi nel deserto, spuntano all’orizzonte annunciate dai loro assembramenti di palazzi. A dominare sono pianure, colline e montagne, spesso punteggiate da laghetti che si incuneano attorno ad esse, come a giocare. Le persone sono semplici, semplici i paesi.

La bellezza è semplicità, mi ripetevo. «Un Paese dipende anche da quello che senti», mi aveva ammonito un’amica, le cui parole suonarono come quelle di una Musa. Semplicità e mistero si levavano dovunque, cioè richiamo alla bellezza spirituale che non ha bisogno di ornamenti, per cui smania invece quella carnale. Come Amor sacro e amor profano di Tiziano che spiazza qualsiasi spettatore, perché quello sacro è nudo, mentre vestito è quello profano. La chiave finale ci giunse vedendo la quantità inusuale di negozi d’arte in tutte le città che attraversavamo. Plovdiv e Veliko Tarnovo sono piene di vie di gallerie d’arte, artigianato, gioiellerie, bigiotterie. Credo di non aver mai visto nessuna città così piena di negozi d’ogni genere d’arte. Non sto parlando della città d’arte, in cui l’urbanistica e i palazzi sono firmati da grandi stelle, come Michelangelo o Raffaello, dove ogni angolo gareggia con un altro in magnificenza, sicché le gallerie sono destinate a qualche via specializzata, come via dei Coronari a Roma. Invece, qui l’arte è meno autoriale e più semplice, più diffusa e dispersa in mille negozi.

In ogni monumento importante della storia bulgara si celebra l’importanza dell’arte per l’identità nazionale: valga come esempio la targa all’entrata del museo delle icone bulgare nella cripta della chiesa più rappresentativa della Bulgaria, la cattedrale Aleksander Nevski di Sofia, che recita (in francese): «i monumenti dell’antica cultura bulgara sono le testimonianze viventi del destino storico del popolo bulgaro e delle aspirazioni creatrici del popolo bulgaro nel corso dei secoli – ci rivelano il suo gusto raffinato e il suo contributo ai tesori dell’umanità».

Allora, i Traci e Orfeo: leggenda o storia? Uno dei popoli più influenti dell’antichità, secondo storici del calibro di Erodoto e Tucidide, associato all’ispiratore del primo culto dell’immortalità dell’anima, ripresa anche da un certo Platone. C’è un nesso tra un patrimonio archeologico tanto grande quanto sconosciuto e la dottrina orfica? Due testimonianze la sorreggono senza confermarla. Ancora secondo Erodoto, la tribù tracia dei Geti (che vivevano tra le attuali Bulgaria e Romania) credeva che la morte rappresentasse per l’anima soltanto un transito verso l’immortalità, rappresentata dalla ricongiunzione con Zalmosside, sacerdote e medico che dopo tre anni di ritiro in una caverna morì per poi ricomparire. L’altra testimonianza, appunto, riguarda l’origine tracia di Orfeo, attestata da molte fonti. Due piste rimangono aperte: le tombe trace sono davvero ispirate al culto dell’immortalità e quale relazione corre tra il meno noto Zalmosside e il celeberrimo Orfeo?

Il Museo Nazionale di Storia Bulgara di Sofia documenta con dovizia la storia dell’antica Tracia e i legami con la Bulgaria successiva ma senza menzionare Orfeo, invece il piccolo Centro Culturale Tracio a Plovdiv ci ricaccia nel mistero: i mosaici di una casa romana sono pieni di riferimenti spirituali, addirittura si trova una svastica indù; le didascalie ipotizzano legami con l’India, dato il ritrovamento presso il sito archeologico di Sboryanovo in Bulgaria, di una testa di Giaina, il profeta contemporaneo di Buddha, fondatore dell’omonima religione; ed ecco di nuovo la menzione alla tomba di Svestari.

Mentre cercavamo di attenerci ai dati dell’archeologia, ci si squadernava una linea di continuità che da Orfeo si spingeva in là nei secoli, una ricerca del bello in una fede semplice, non monumentale. Difatti, nella selva delle testimonianze orfiche si stagliano due linee riconoscibili: un culto iniziatico e misterioso, di cui poco sappiamo, volto a coltivare lo spirito fino all’immortalità dell’anima, caro a filosofi e teologi, l’altra invece una linea più popolare e poetica, del poeta così capace di coltivare l’ispirazione del Bello da andare nell’aldilà per riportare indietro l’amata Euridice. Così decidiamo di spingerci all’esplorazione dei siti traci e delle tombe.

Già Sboryanovo è sorprendente, grande come una città, secondo la guida ospita 140 siti di interesse storico. Si cammina per chilometri tra resti, più o meno conservati, tra selve e fiumi. Infatti, originariamente era la città di Gelis, il cui pezzo forte è la famosa tomba di Svestari: così recitano le didascalie. Vi si trova una tomba dell’età della pietra che a quanto pare i Geti avevano dedicato ad un culto solare. Non lontana un’altra tomba invece del XVII secolo, di Demir Baba, sufi e santo musulmano del ramo alevitico dell’Islam (quello della famiglia Assad che governa la Siria da decenni, tanto per capirci). Gli archeologi hanno individuato molti usi precedenti del sito, sempre di tipo religioso: insomma una stratificazione sempre di tipo spirituale.

Finalmente si staglia davanti a noi Svestari. Ha il profilo di un palazzo incastrato dentro una collinetta: apprendiamo dalle didascalie che i Traci coltivavano l’uso di coprire di terra le tombe importanti, come a simulare la continuità tra artificiale e naturale, spirituale e materiale. Forse per mostrare il tentativo di spiccare, di salire. Un’ascesa. L’interno è spazioso, i disegni sulle pareti fanno trasparire il mistero che avevamo sentito decantare. Più in basso finte cariatidi (cioè con nessuna funzione strutturale di sorreggere il soffitto) sembrano danzare attorno a chi entra. Disposte su file su tre pareti sembrano fatte per creare l’effetto di accogliere ed inebriare, sembrano muoversi. Metà animale e metà donna, come sfingi danzanti, entrambe le braccia alzate verso l’alto. All’occhio della ragione mostrano un’allegoria, ma se le porte della percezione sono aperte ci si sente attorniati da una forza che trascina verso l’alto. E così guardando al culmine della sala ecco in alto, come sorretto dalle cariatidi, l’incontro tra i due cortei. Vederlo con i propri occhi trasmette davvero la sensazione del movimento e di un incontro, di un climax. La donna incorona un uomo a cavallo: il fatto che lei lo incoroni non fa pensare a un matrimonio o a un connubio erotico, quanto a un atto in cui una donna fa elevare un uomo, come Beatrice e Dante quando s’incontrano di nuovo nel Purgatorio. Un cambio di stato? Un passaggio dalla Terra al Cielo? La sensazione finale è di un movimento rotatorio dal basso verso l’alto fino all’incontro e al passaggio di stato.

Wittgenstein liquidava come superflui i tentativi, seppur illustri come quelli del Fedone platonico, di dimostrare l’immortalità dell’anima perché soltanto dilatori del quesito più profondo sul senso della vita. Forse non si avvide che Orfeo, di cui Platone è dichiarato discepolo, vi arrivava tramite la bellezza che cantava nella poesia. Wittgenstein era un matematico talmente razionale da essere scettico in filosofia. E la bellezza è una promessa di senso e stimola l’amore, che vuol durare e mai morire. Difatti Orfeo, come narra Ovidio nelle Metamorfosi, col suo canto poetico sapeva ammansiva gli animali e induceva al riposo alberi e fiumi e, una volta morta l’amata Euridice, si precipitò negli Inferi dove persuase anche gli Dei di là a concederle di tornare in vita. Il suo canto d’amore lì inchiodò e una condizione sola gli posero, di non voltarsi a guardarla nel viaggio di ritorno verso l’aldiquà. Ma si sa, l’amore non è sempre paziente e l’impeto di veder l’amata giocò un brutto scherzo anche al più grande dei poeti. Vinse gli Dei, fu vinto dall’amore, sfiorò la resurrezione, ma mostrò agli uomini la via per attingerla. Passò i suoi giorni successivi a cantare gli amori grandi e tragici tra Dei e umani, come Zeus e Ganimede o Afrodite e Adone. La sua poesia toccò le vette.

Capire è racchiudere in definizioni e fare deduzioni, ma anche aprirsi alla semplicità del bambino, colui che è così poeta e così primitivo. Del resto, Platone, orfico, era filosofo e anche poeta.

(2 – continua)

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