Fabio Lazzari (1992) è laureato in Investigazione, Criminalità e Sicurezza Internazionale presso l'Università degli Studi Internazionali di Roma (UNINT), sotto la guida del Professor Danilo Breschi. Ha conseguito successivamente un Master in Agricoltura Sociale presso l'Università degli Studi di Tor Vergata. Educatore cinofilo, appassionato di filosofia ed etologia, lavora in una Cooperativa che si occupa di agricoltura sociale.

Recensione a: G. Thibon, Nietzsche o il declino dello spirito, Iduna, Milano 2021, pp. 314, € 25,00.

C’è da chiedersi perché un cristiano ardente, come il francese Gustave Thibon, abbia impugnato la penna per far parlare l’Anticristo, cioè Friedrich Nietzsche, che così amava definirsi. Lo ha fatto forse per farsi nuovamente testimone sulla scena del crimine dove, come poche volte succede, il carnefice, Nietzsche, incurante delle urla della folla giudicante, impugna ancora l’arma del delitto?

Dio è morto e non si può che provare sacro sdegno verso l’assassino. Poco interessa il movente, il cristiano volge lo sguardo altrove di fronte al grumo di passioni che ha portato un uomo, per molti versi miserabile, come Nietzsche a uccidere l’Eterno. Ciò che desta l’animo di un cristiano è l’immagine sacrilega dell’atto, è l’opposizione speculativa che scuote e al contempo diviene strumento necessario per chiudersi in una barricata contro l’ateismo parricida.

Non è però per questa passione che Thibon scrive:

Conosco certi cristiani che al solo nome di Nietzsche si sentono invadere da un’onda di sdegno sacro; e sono proprio quelli che avrebbero maggior bisogno delle lezioni di Nietzsche. Immagino costoro far le vendette di Dio, tacciando Nietzsche di pazzo, o di demonio in carne ed ossa, ma in realtà non fanno altro che difendere se stessi.

Perché allora Thibon scrisse di Nietzsche? Ma soprattutto: di quali insegnamenti parla? Le due domande confluiscono nella stessa risposta. Alla domanda «chi fu Nietzsche?» Thibon spiazza il lettore: non tanto un filosofo, né tantomeno un poeta, fu più di tutti un pastore. Così scrive:

La spietata lucidità nell’esame di coscienza, quel certo che di compassione e nausea per gli uomini, il bisogno di consacrare e di eternare attorno a sé ogni cosa, la volontà di sopravanzare se stesso e d’attirar gli altri verso la vetta, tutto indica in lui cuore di sacerdote, al quale mancò solamente Dio. […] Vi sono lupi che si travestono da pastori; ebbene, Nietzsche è un pastore travestito da lupo.

La descrizione è eloquente perché capace di intercettare una delle anime più contraddittorie e controverse della contemporaneità. Nietzsche è stato molte cose, ma mai avremmo pensato potesse essere un prete nello spirito. Eppure Thibon coglie un punto che era rimasto in penombra ai più. La sete di assoluto di questo pensatore è tale da far impallidire molti cristiani condotti da una tiepidezza d’animo. Lui che volle raggiungere le vette più alte dell’esistenza, a un passo dalla soglia divina, in quello spazio fra la terra e il cielo, lì dove la purezza incontaminata dell’aria è tale da rinvigorire il sangue di chi è capace di sostenere le vertigini delle altitudini. Lui che volle far cadere la maschera della morale ipocrita borghese, superando così il bene esistente, come fece Gesù nel condannare i farisei per le loro interminabili preghiere.

Se l’humus su cui costruire il destino di questo uomo sembrava fertile per una vita di genuina bontà, cosa determinò allora l’incompiutezza della sua vocazione pastorale? Cosa lo rese un pastore travestito da lupo? L’orgoglio, ci dice Thibon. Nietzsche ne fu talmente prigioniero da perseguire la sola via dell’auto-riflesso. Uccise Dio, prese il suo posto e nel farlo non poté che specchiarsi. L’immagine riflessa però lo condusse sulla via dell’auto-distruzione. Con parole incisive Thibon mette a nudo l’intero impianto esistenziale del filosofo tedesco:

Nietzsche non poté far della sua persona un centro assoluto, perché aveva in sé due tendenze, del cui antagonismo rimase vittima: la sete di verità assoluta ed il culto dell’io. Il contrasto fra un ideale estrinseco alla persona e le smisurate pretese della persona stessa finì col mandargli in frantumi la ragione. La volontà di verità non si lascia impunemente sopraffare dalla volontà di potenza.

Potenza e purezza, attorcigliate in un valzer letale, portarono Nietzsche alla pazzia. Un paradosso. Lui che aveva cercato di far varcare all’umanità le soglie onnipotenti del divino, morì nelle condizioni più umane che si possano immaginare. Le parole di Eraclito, secondo cui «ogni cosa, quand’è arrivata al punto culminante, si muta nel proprio contrario» sembrano essere state scritte su misura per Nietzsche.

Gustave Thibon in questa opera scritta nel 1948, sembra, simbolicamente, recarsi sull’epitaffio del filosofo tedesco con in mano un Ibisco. Non un fiore qualsiasi, l’Ibisco, tanto appariscente quanto fugace, che vive meno di un giorno all’anno. In lui potenza e bellezza si sprigionano in pochi attimi. Dopo di ché la caduta fragorosa nel nulla. È la pietas ad aver condotto Thibon davanti la sua tomba, proprio quella virtù che Nietzsche odiava più di tutte. Un velo di speranza cade fino alla fine sul filosofo francese che scrive nella pagina finale del suo saggio le seguenti parole:

È possibile che, di fronte ai patimenti di quella creatura di carne, l’anima di Nietzsche si sia aperta al supremo invito dell’ultimo fra gli uomini, del crocifisso maledetto, di cui ogni abiezione è simbolo? […] C’è tuttavia un biglietto, scritto il 4 gennaio 1889, al fedelissimo amico Koeselitz – un pietoso biglietto infantile, dalla scrittura atassica – che dà al cuore una stretta di tenue, mesta speranza:

Cantami una canzone nuova. Il mondo è trasfigurato e tutti i cieli esultano. – Il Crocifisso.

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