Matteo Antonio Napolitano (1989) è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, Motorie e della Formazione dell’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma. Nello stesso Dipartimento è titolare anche dei corsi di Storia contemporanea - Seminario laboratoriale di Analisi delle fonti e Storia contemporanea C.A. Insegna, inoltre, Storia contemporanea del crimine e Storia e istituzioni dell'Asia nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Sociologiche del medesimo Ateneo. È membro del Comitato Scientifico della Rivista «Europea». Tra le sue recenti pubblicazioni:  c Verso l’Europa unita. Il percorso politico-istituzionale di Giulio Bergmann (2020); curatela di V. Cian, Ricordi d'un ottuagenario, introduzione di S. Bartolini (2023);Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino (2023; vincitore del Premio "Emilio Colombo" per la saggistica storica dell'Unione Europea nell'ambito del Premio Letterario Basilicata).

«Call me Charlie». Poteva aprirsi in questo modo, con la rielaborazione del famoso incipit di Moby Dick, lo script del film The Whale di Darren Aronofsky, che ha portato un trasfigurato, commovente ed eccezionale Brendan Fraser all’ambita statuetta della Academy statunitense.

La pellicola ripercorre dall’interno di un solo ambiente – una mefitica e squallida casa persa tra le piogge dell’Idaho, resa nitida proiezione del ventre della balena, ovvero dell’interiorità del protagonista, e accessibile all’unica figura capace di umana pietas, quella dell’infermiera e intima sodale Liz – il dramma familiare di Charlie, colto e solitario professore in una università online che, per amore di uno studente (Alan), poi divenuto compagno di vita, scelse di abbandonare la moglie (Mary) e la figlia (Ellie) ancora in età infantile, subendo le esiziali conseguenze della sua consapevole scelta, dovute prima ai rimorsi e al controverso rapporto con il timore di Dio di Alan, poi, in un secondo momento, alle estreme condizioni fisiche e ai ruvidi rapporti con il cinismo di Ellie nel tentativo di riconquistarne la fiducia filiale.

«Call me Charlie», dunque. E non solo perché banalmente il titolo richiama in maniera limpida il grande classico di Herman Melville, ma anche per il co-esistere – in quel corpo provato e, nella pur resistente integrità dell’anima, che per moto fisiologico si contorce nei dubbi dello stare al mondo, reso deforme dalla grave obesità – di due differenti destini: quello di Ismaele, il testimone, e quello di Achab, colui che sfida la propria ossessione ossia il Leviatano. È sempre il protagonista, infatti, a trovare la sua ascensione di salvezza nel momento in cui arriva a compimento, con mestizia, la propria missione, l’ultimo passo, quindi la propria “insensata” e incompleta ricerca. V’è da chiedersi, al netto di una tendenza, crediamo tollerabile, all’affettazione in alcune scelte di regia, ma tenendo – per limiti di competenza – fuori dalla trattazione i giudizi tecnici, quali siano i (o almeno alcuni dei) temi sollevati da questo errare nella eterna ricerca trasposto sul grande schermo. E per proporre qualche riflessione su tale quesito, nonostante in base alle sensibilità risultino numerosi i possibili spunti critici e i significati suggeriti dall’apprezzato soggetto scritto da Samuel D. Hunter – autore della sceneggiatura e della omonima opera teatrale adattata da Aronofsky per il cinema –, riteniamo opportuno soffermarci su due direttrici fondamentali: la dimensione religiosa e l’immagine spietata dell’America profonda, così lontana dalle downtown fitte di grattacieli o dalle contrattazioni dei business districts.

L’afflato religioso si respira durante tutta la durata del film, in maniera evidente nei tratti di alcuni personaggi e nei loro dialoghi. Se Alan ad esempio è chiamato – senza mai apparire – a rappresentare l’usurante dissidio tra il modello di vita dettato da un dogma (in questo caso, identificabile nel messaggio della millenaristica “New Life Church”) e la perpetua condizione umana di peccatore, dissidio scaturito dall’albergare in lui una fede profonda e inconciliabile con la propria omosessualità. Sin dalle prime scene ad emergere è un altro carattere, decisivo nell’indirizzare la lettura religiosa dell’opera, ovvero quello del giovane missionario della “New Life” di nome Thomas. Al di là della sua evoluzione funzionale alla trama – specialmente nel rapporto con la non credente Ellie, immagine viva della possibilità dell’etica delle «ragioni prima dei principi» (si veda il filosofo Jonathan Dancy) –, ipotizziamo plausibile l’identificazione di Thomas con l’Abramo orante che nella Genesi cerca una via di intercessione per la redenzione dei gravi mali di Sodoma e Gomorra, invocando di fronte a Dio la necessità di trattare gli empi come gli innocenti in nome di un superiore – divino, appunto – ideale di giustizia. Alcuni passi della catechesi di Benedetto XVI sulla preghiera (2011) risultano di esemplare limpidezza nel delineare i tratti problematici di questo ideale, impossibili da chiarire in questa sede.

Come noto dai passi biblici, Abramo fece diminuire, con una progressione da cinquanta a dieci, il numero di innocenti necessari per la salvezza di tutti gli altri. Non a caso, Thomas maturerà l’idea che il fine della propria missione salvifica per l’umanità sia quello di rivolgersi con dedizione verso la redenzione non di migliaia, centinaia o decine di uomini, ma di un solo uomo: Charlie. Il discorso religioso e spirituale, e Al Dio sconosciuto di John Steinbeck ne è un chiaro esempio, non risulta ad ogni modo sconnesso da quello relativo all’America profonda che traspare nel film. Le superstizioni, il rapporto con il sistema, la struttura sociale e i suoi rituali, l’emarginazione e la depressione delle zone interne, sono tutti elementi presenti e visibili tramite la porta di interconnessione tra l’interno e l’esterno e la piccola finestra oscurata da una malandata tapparella, dalla quale penetra la luce fioca delle presenze pronte a entrare nella statica azione del plot.

Il vivere ai margini si lega strettamente in The Whale alla cruda narrativa che il regista riserva all’immagine del corpo di Charlie – e soprattutto alla sua epifania – nell’epoca del correct portato agli eccessi e, al contempo, della inaridente spettacolarizzazione di problemi complessi. Invero, non appena il docente si mostra ai suoi studenti – i quali avevano imparato a conoscere solo la sua voce – in preda a un grave momento di disperazione, la prima reazione tra i diffusi ghigni è quella di riprendere con lo smartphone il mesto spettacolo al solo fine di diffondere poi il “contenuto”, in una triste spirale di mancanza di empatia e incapacità di comprensione nei confronti di un manifesto disagio esistenziale.

Che cosa rimane, dunque, usciti dalla sala? Una lettura forte della contemporaneità, adatta sia a chi crede nella “vita come arte dell’incontro”, sia a quanti la reputano un macchinoso passaggio tra due estremi di quasi incoscienza. Il racconto di una fatidica settimana di ordinaria eternità, questa sconosciuta e ignorata, nelle maglie di una vita al tramonto e un percorso per immagini molto evocative nella lotta insoluta tra il bene e il male, che ci ricorda un particolare: la “balena” – l’irrisolvibile errare dell’uomo – è stata, è ancora e sempre sarà nelle nostre stanze.

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