Matteo Antonio Napolitano (1989) è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, Motorie e della Formazione dell’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma. Nello stesso Dipartimento è titolare anche dei corsi di Storia contemporanea - Seminario laboratoriale di Analisi delle fonti e Storia contemporanea C.A. Insegna, inoltre, Storia contemporanea del crimine e Storia e istituzioni dell'Asia nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Sociologiche del medesimo Ateneo. È membro del Comitato Scientifico della Rivista «Europea». Tra le sue recenti pubblicazioni:  c Verso l’Europa unita. Il percorso politico-istituzionale di Giulio Bergmann (2020); curatela di V. Cian, Ricordi d'un ottuagenario, introduzione di S. Bartolini (2023);Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino (2023; vincitore del Premio "Emilio Colombo" per la saggistica storica dell'Unione Europea nell'ambito del Premio Letterario Basilicata).

Recensione a: I.J. Singer, I fratelli Ashkenazi, intr. di C. Magris, Bollati Boringhieri, Torino 2022, p. 784, € 15,00.

«‘Sappi di dove vieni, da una goccia puzzolente. Sappi dove vai, in un verminaio’». Israel J. Singer riporta questo monito così duro, tratto dal Pirké Avòt (Massime dei Padri) – all’interno del quale sono raccolti insegnamenti di carattere etico e morale –, nel mezzo del suo mastodontico romanzo, I fratelli Ashkenazi, non per mania sensazionalistica, ma per rendere, in un momento non cruciale dell’intreccio, il lettore consapevole dei propri umani limiti, gli stessi che i protagonisti incontreranno nello scorrere delle pagine, quando i giochi di fortune e destini avversi addenseranno le loro vite, scandendo inesorabili il ritmo delle generazioni.

I fratelli apparvero a puntate negli Usa – dove lo scrittore emigrò nel 1934 – a metà anni Trenta e poi in Polonia nel 1936. Anni orribili per le comunità ebraiche del Vecchio Continente, successivi, come noto, a Norimberga e di poco precedenti rispetto all’invasione nazista del territorio polacco. Quasi da subito si avvertì, a livello internazionale, una sensazione di oscuro presagio, di testimonianza ultima, intorno a questo libro-fiume, scritto in elegante Yiddish dal suo autore: sì, perché a leggerlo furono in moltissimi, tanti da eguagliare il grande successo di Via col vento, l’opera pubblicata dal futuro premio Pulitzer (1937) Margaret Mitchell nello stesso anno dell’edizione europea di Singer. Ma per quali motivi un romanzo sulla parabola della comunità ebraica di Łódź riuscì ad avere un’eco così ampia?

Una delle risposte è da ricercare senz’altro nella maestria dello stile di scrittura, riconosciuta non solo da Claudio Magris – curatore di una corposa ed essenziale Introduzione all’edizione Longanesi del 1970 (riproposta nella più recente Bollati Boringhieri) –, ma anche dal fratello minore di Israel, il più noto Isaac Bashevis, vincitore del Nobel per la letteratura nel 1978, che lo considerava suo maestro. La dote scrittoria e la propensione alla complessità di analisi fece comunque parte di un comune corredo genetico, poiché anche la sorella primogenita, Esther Kreitman nata Hinde Ester Singer, nonostante la tardiva riscoperta, si distinse nell’ambito letterario.

La proiezione del testo singeriano conserva un proprio spirito, identificabile in quella commistione, tutta europea, di speranza e tragedia. Ed è questa la seconda risposta ipotizzabile per l’interrogativo sull’eco del romanzo. Tra le circa ottocento pagine del volume – volendo ricorrere alla incarnazione di Eliot –, nel mondo piccolo della comunità ebraica polacca, risulta invero racchiuso il senso generale dell’“essere europei”: le radici giudaiche, il trionfo e poi il lungo declino della classe borghese sul crinale dei rivolgimenti novecenteschi e dell’ascesa delle masse in politica, o ancora il rapporto con l’alterità, sia essa determinata da diversi orizzonti valoriali, dati dal mutare delle esperienze politiche e socioeconomiche in ragione del contesto (si pensi alle fasi prodromiche alla Grande Guerra), oppure da scosse di carattere palingenetico, come la Rivoluzione del 1917. Gli esempi rinvenibili seguendo questa direttrice sono molteplici, due però particolarmente significativi. Il primo si lega al rapporto e al forte contrasto tra la tradizione ebraica e l’irrompere della modernità, ben tratteggiato da Singer nella fine opera di delineamento dell’evoluzione psichica e fisica dei fratelli rivali Simcha Meyer – spregiudicato e brillante uomo d’affari divorato dall’ambizione, votato al nichilismo – e il fascinoso Jacob Bunim, entrambi Ashkenazi, figli quindi della stessa rigida tradizione chassidica ovvero di quell’insieme di regole, codici e imposizioni che, da prospettive diverse, si troveranno a mettere in discussione per poter affermare la propria identità. Non per caso, si faranno chiamare con i nomi gentili di Max e Yacob, eliminando dalla loro fisionomia i tratti riconoscibili della peculiare formazione ricevuta, dai cernecchi alla barba, dalle vesti rituali al modo di esprimersi e apparire in pubblico. Sarà con queste vesti che affronteranno la carambola di eventi del XX secolo, la rovina e la morte. Ci troviamo sul versante opposto rispetto al legame weberiano tra etica protestante e spirito del capitalismo. L’altro esempio si riconnette invece alla interessante percezione della Rivoluzione russa, fatta avvertire dall’autore non soltanto dal punto di vista di chi ne subì le conseguenze più dure e traumatiche – i tanti Max Ashkenazi che nella storia si possono ritrovare, avvezzi a prosperare nelle maglie porose dell’Impero zarista e caduti in disgrazia con l’arrivo di Lenin –, ma anche da quello degli stessi fautori della Rivoluzione, quei molti assertori delle rivendicazioni operaie e del verbo socialista trovatisi travolti dal movimento rivoluzionario che prima li sconfessò in nome di una nuova purezza ideologica e poi li tagliò fuori completamente, con il disprezzo riservato ai “revisionisti”, rendendo nulla la dignità della loro rischiosa sfida al sistema industriale in espansione e calpestando senza remore il sangue versato per dare voce alla causa rossa. Una sorte cinica e beffarda.

Una terza risposta plausibile alla domanda iniziale crediamo sia da ricercare nella lingua utilizzata da Singer per I fratelli, lo Yiddish. Scrivere in Yiddish significava per l’autore condividere una comune sofferenza con la propria comunità, riferirsi a radici profonde per scavare in un dramma antico, segnato dai pogrom, dal perpetuo errare, dal continuo adattarsi e reinventarsi in contesti spesso largamente ostili, e con buona probabilità anche lenire il senso di difetto dato dal suo status di emigrato. Nella mescolanza di elementi lessicali tedeschi, ebraici, slavi, neolatini, pensare ed esprimersi in Yiddish permetteva a Singer la riconnessione con un universo condiviso e la decodificazione compartecipata di simboli ricchi di significato storico. Inoltre, volendo ampliare il nostro sguardo liberandolo da pregiudizi ancora oggi molto vivi – gli eventi in corso lo confermano –, lo Yiddish poteva costituire una base già nota per una lingua comune europea, spesso invocata nei progetti europeisti. Non è stato possibile a causa dello sterminio nazista degli ebrei dell’Europa orientale.

I fratelli, dunque, condensano i tratti ritmici di una prosa lucida, densa, coinvolgente, tragica, mai banalizzata da enfasi moralistiche – vi è, anzi, un intenso contrasto tra morali – e accessibile senza sacrificio sul versante contenutistico. Foriero di fortune editoriali, il linguaggio prosastico con queste caratteristiche permise a Israel Singer di parlare scientemente al proprio tempo e al futuro.

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