Matteo Antonio Napolitano (1989) è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Scienze Umanistiche, Motorie e della Formazione dell’Università degli Studi Niccolò Cusano di Roma. Nello stesso Dipartimento è titolare anche dei corsi di Storia contemporanea - Seminario laboratoriale di Analisi delle fonti e Storia contemporanea C.A. Insegna, inoltre, Storia contemporanea del crimine e Storia e istituzioni dell'Asia nel Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Sociologiche del medesimo Ateneo. È membro del Comitato Scientifico della Rivista «Europea». Tra le sue recenti pubblicazioni:  c Verso l’Europa unita. Il percorso politico-istituzionale di Giulio Bergmann (2020); curatela di V. Cian, Ricordi d'un ottuagenario, introduzione di S. Bartolini (2023);Il Gruppo Liberale e Democratico al Parlamento europeo. Un profilo politico (1976-1985), Rubbettino (2023; vincitore del Premio "Emilio Colombo" per la saggistica storica dell'Unione Europea nell'ambito del Premio Letterario Basilicata).

Boston Garden, 20 aprile 1986. Il ventitreenne Michael Jordan, in maglia rossa “23” dei Bulls, mette a referto sullo storico parquet bostoniano 63 punti, con percentuali semplicemente non umane. Di tutti i commenti seguiti alla sensazionale prestazione, per alcuni la migliore di ogni tempo, rimane indelebile quello di Larry Bird – la grande icona, col suo rivale dei Lakers “Magic” Johnson, degli Eighties in Nba –, che con un’espressione quanto mai calzante disse: «Questa sera ho visto Dio, ed era travestito da Michael Jordan».

Ben prima di quella data dell’86, in ogni caso, già altri si erano resi conto delle eccezionali potenzialità del golden boy proveniente dalla University of North Carolina di Chapel Hill. Air, diretto e interpretato da Ben Affleck, racconta la storia di questa intuizione e della rivoluzione portata dalla stessa non solo nella percezione del gioco inventato da Naismith a livello mondiale, ma anche in tanti specifici ambiti: nel marketing, al primo posto, e a seguire – pur non secondari – nella pubblicità, nel design degli articoli sportivi, nella contrattualistica sulle sponsorizzazioni. In generale, nel mondo sempre più complesso, tecnico e tecnologico che da quel momento in poi, l’anno era il 1984 – MJ fu oro olimpico a Los Angeles (l’olimpiade del boicottaggio incrociato del blocco sovietico dopo Mosca 1980) e rookie (esordiente al primo anno) –, iniziò a girare intorno agli atleti.

La pellicola prende le mosse dalla situazione di forte stallo vissuta nella prima metà degli anni Ottanta dal settore basketball della Nike, messo sotto pressione dai successi aziendali nel campo dell’atletica e del fitness e dalla concorrenza dei giganti Converse e Adidas, sostenuti da budgets a molte cifre, detentori dei migliori contratti e, di conseguenza, della più ampia visibilità. Ogni amante della palla a spicchi, tra gli anni ’70 e gli ’80 – e il dato crediamo sia incontrovertibile –, ha indossato almeno un paio di scarpe di tela Converse All Star o un modello Superstar dell’Adidas. Tertium non datur.

Il vento iniziò a cambiare rotta per la Nike quando l’esperto Sonny Vaccaro (Matt Damon), forte della sua credibilità di attento osservatore cestistico ma sull’orlo del declino, propose di investire tutto il budget disponibile sul giovane Jordan. Un solo investimento invece di due o tre in base alle scelte del draft, la vetrina dei futuri campioni. Lo scout incontrò sul suo cammino non poche resistenze, da Phil Knight (Ben Affleck) – l’asceta trasgressivo, CEO della Nike, ispirato dalla divinità greca della vittoria – ai dirigenti specializzati, fino ad arrivare alla famiglia di MJ e all’atleta stesso, consapevole del proprio destino, dotato – come pochissimi altri nella storia – della capacità di controllarlo e soprattutto, negli interessi della trama, deciso a scegliere l’Adidas. Il successo finale di Vaccaro, ovvero vedere il contratto della stella strappato ai rivali, fu il frutto di più coincidenze favorevoli: la sua personale conoscenza dell’ambiente favorevole alle mire della Nike, le doti persuasive nei confronti della madre di MJ – la fondamentale signora Deloris, convinta dell’unicità del figlio e perno della sua stabilità psico-fisica (prima e dopo l’assassinio dell’amato padre) –, la responsabilità sul rischio d’impresa di Knight e il sogno di Peter Moore, il designer padre delle Air Jordan 1 e del Jumpman, il logo forse più iconico e riconoscibile di ogni epoca, realizzato e perfezionato poi da Tinker Hatfield.

Da quella stagione 1984-1985 sono trascorsi quasi quarant’anni e Jordan ha toccato quest’anno i suoi sessanta. Nel film, la star non compare mai. È una presenza-assenza che lascia intendere il fatto che non ci sia bisogno di vedere il soggetto perché le vicende dell’oggetto lo comprendono. Non è necessario compaia, ogni spettatore ha in mente senza porsi troppe domande cosa ha significato quel prodotto per intere generazioni di appassionati e anche per coloro che non hanno mai visto Jordan volare a canestro o addirittura, e non importa, restano indifferenti rispetto al basket giocato: «Be like Mike», essere come Mike. Il messaggio è sottinteso, come il vero protagonista di Air.

Ma il numero 23 dei Bulls non è solo marketing, nell’immaginario collettivo non può essere ridotto a una mera speculazione commerciale, seppure impeccabile e irripetibile. Perché la persona perfetta non fu. Senza discutere i caratteri assoluti del suo agonismo, disciplinato al limite del maniacale e incorruttibile – espresso poi da pochi altri epigoni, tra cui l’indimenticabile Kobe Bryant –, come sportivo e come uomo Jordan ha avuto infatti le sue ombre, i momenti in cui ha toccato terra nel corso di una carriera disseminata di trionfi e titoli, superflui da elencare per quanto noti. Ha ricordato lui stesso la centralità di queste fasi discendenti, dimostrando di aver compreso il messaggio profondo trasmesso da Phil Jackson negli anni a Chicago, il “coach zen” che gli permise di toccare con l’idea del collettivo sul singolo le più ambiziose vette e, nel mentre, di non trascurare il potenziale dello spirito umano:

Nella mia carriera ho sbagliato più di 9000 tiri. Ho perso quasi 300 partite. 26 volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito davvero molte volte nella mia vita. Ed è per questo che alla fine ho vinto.

Possiamo allora tutti “essere come Mike”? Ognuno ha la propria personale risposta. Ci resta però una grande fortuna da condividere, la possibilità di lasciarci ispirare e meravigliare da elementi in fondo molto semplici: un movimento, un salto, un’uscita dal blocco, una difesa efficace. La grandezza, positiva e messianica, dell’apparentemente superfluo.

 

Consigli di lettura per approfondire 

  • F. Buffa, Black Jesus. Un grande viaggio nel basket americano in 23+1 fermate, Castelvecchi, Roma 1999.
  • D. Halberstam, Air. La storia di Michael Jordan, trad. it. di A. Boggiani e I. Polli, Salani, Milano 2020.
  • Ph. Jackson, Basket & Zen, ed. it. a cura di T. Lauro e G. Guida, Libreria dello sport, Milano 1998.
  • Ph. Knight, L’arte della vittoria. Autobiografia del fondatore della Nike, trad. it. di G. Lupi, L. Tasso, G. Zucca, Mondadori, Milano 2016.
  • R. Lazenby, Michael Jordan, la vita, trad. it. di G. Di Martino, 66thand2nd, Roma 2015.
  • J. McCallum, Dream Team, pref. di F. Buffa, Sperling & Kupfer, Milano 2013.
  • S. Pippen, Unguarded. La mia vita senza filtri, con Michael Arkush, trad. it. di U. Piazza e F. Pe’, Rizzoli, Milano 2022.
  • W. Santiago, Michael Jordan. La biografia a fumetti, Edizioni BD, Milano 2015.
  • D. Torelli, So Nineties. Il decennio dorato dell’NBA, pref. di D. Vismara, postfaz. di R. Gotta, Ultra, Roma 2020.
  • F. Tranquillo, Basketball R-Evolution, Baldini & Castoldi, Milano 2016.

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