Alfonso Lanzieri (1985) è dottore di ricerca in filosofia dal 2017. Attualmente insegna filosofia presso la Facoltà Teologica di Napoli e l’ISSR “Duns Scoto” di Nola-Acerra. Si interessa principalmente di filosofia della conoscenza e filosofia della mente. Ha pubblicato saggi, articoli e monografie, tra cui Pensiero e realtà. Un'introduzione al "realismo critico" di Bernard Lonergan(Mimesis, 2017); Il corpo nell'anima. Henri Bergson e la filosofia della mente (Mimesis, 2022).
In un romanzo di qualche anno fa, il protagonista, David Piperno, è un giovane ebreo romano trapiantato a Tel Aviv con il sogno di diventare un regista famoso. Per sbarcare il lunario, David lavora per il Museo di Yad Vashem. Lui e i suoi amici si occupano di registrare i racconti dei sopravvissuti all’Olocausto, necessari per conservare la memoria dei crimini nazisti. A un certo punto, però, quando anche l’ultimo dei sopravvissuti viene a mancare, David e la sua troupe vengono licenziati dal direttore del museo. Per continuare a guadagnare qualcosa, però, i ragazzi la fanno grossa: s’inventano un ultimo sopravvissuto alla Shoah.
Coinvolgono nel loro folle piano Mordechai, un senzatetto che vive nel loro quartiere, costruiscono una sceneggiatura studiata nei minimi particolari e gliela fanno recitare. L’inganno, però, viene scoperto. A poco a poco, la cosa genera un terremoto di scala mondiale. Tutti si avventano su quella storia, che diventa il grimaldello migliore per far deflagrare il negazionismo e l’antisemitismo dormiente, in un vortice incontrollabile di falsità costruite a tavolino, verità parziali, sofismi e stupidità di massa. In uno scenario ormai distopico, a Roma, Berlino, Francoforte e Amburgo vengono rubate le pietre d’inciampo; sui social, chiaramente scatenati, si parte dalla testimonianza di Mordechai per decostruire altre prove della Shoah attraverso argomentazioni speciose, manipolazione di materiale già esistente, fabbricazione di falsi. «Presunti storici e opinionisti di ogni genere ̶ narra il romanzo ̶ si palesano in televisione avventurandosi in strampalate dimostrazioni teoriche con l’intento di dare spiegazioni alternative sul funzionamento dei campi di concentramento e in alcuni casi di metterne in dubbio l’esistenza».
Il libro di Alberto Caviglia, Olocaustico, di cui finora si è parlato, riesce a ricordare in maniera inquietante il nostro presente di post verità, in cui anche il richiamo ai fatti più evidenti e scontati, può essere rovesciato con contro-argomentazioni che hanno tanta presa sulle folle. Se a questo scenario si aggiunge la possibilità dell’IA di creare immagini false delle più varie situazioni, i cosiddetti deepfake, dotate però di una straordinaria verosimiglianza, si comprende il senso di impotenza e di smarrimento che prende molte persone. Che sia la politica, la pandemia o la guerra, i falsificatori e gli increduli ideologici (quelli che rifiutano qualsiasi informazione che contrasti con l’immagine del mondo preferita a priori) sembrano quasi invincibili.
Un esempio paradigmatico possono essere le reazioni seguite all’inchiesta del “New York Times” del dicembre 2022 sul massacro di Bucha, in Ucraina, perpetrato dall’esercito russo sulla popolazione civile. Una delle più importanti testate del mondo, incrociando documenti, dati raccolti con tecnologie avanzate e testimonianze, comprova nei dettagli le brutalità compiute dai soldati russi; l’inchiesta è anticipata, nei mesi precedenti, dai numerosissimi resoconti di inviati di guerra delle più diverse nazionalità, tutti concordi nel riportare le atrocità consumate nella cittadina. Nonostante ciò, irriducibili negazionisti scettici esprimevano sui social il loro diniego, dichiarando che solo alla luce di una «inchiesta internazionale fatta da personale davvero indipendente», avrebbero creduto ai tragici fatti. Ciò che queste persone domandavano, era già a loro disposizione: evidentemente a non andar bene era la verità emersa dall’inchiesta. Meccanismi simili si possono osservare su altre questioni calde del nostro tempo, dai migranti al conflitto israelo-palestinese.
Ora, le questioni sollevate sono già ampiamente affrontate dalla sociologia dei media e dalle scienze della comunicazione: echo chambers e confirmation bias, crisi di autorevolezza dei media tradizionali, complottismo ecc., sono termini e concetti dei quali si discute da tempo. Il livello che mi interessa qui evidenziare è quello prettamente epistemologico. Come arriviamo ad esprimere un giudizio di fatto? Come distinguiamo una critica corretta dallo scetticismo ideologico o strumentale? Per trovare spunti utili, può essere opportuno ascoltare la lezione di Karl Popper. Secondo il filosofo austriaco, il grande movimento che condusse, dal Rinascimento in avanti, alla nascita delle società aperte e della scienza moderna fu sorretto da un grande ottimismo circa la possibilità dell’uomo di discernere il vero dal falso e dall’assunto che la verità sia manifesta.
Bacone e Descartes – scrive Popper ne Le fonti della conoscenza e dell’ignoranza ̶ insegnarono che, quanto alla verità, l’uomo non ha alcun bisogno di appellarsi all’autorità, perché ciascun uomo porta le fonti della conoscenza in se stesso nella facoltà della percezione sensibile che può usare per l’osservazione accurata della natura, o nella facoltà dell’intuizione intellettuale, di cui può servirsi per distinguere la verità dalla falsità.
Se le cose stanno così, perché cadiamo in errore? Ciò succede a causa del nostro colpevole rifiuto di vedere la verità o perché la nostra mente è vittima di perniciosi pregiudizi che l’hanno avvelenata. Pregiudizi magari inculcati dal potere, religioso, politico o economico che sia. L’ignoranza, dunque, può essere figlia di una cospirazione, che in quanto tale va smascherata e neutralizzata.
Che la verità sia manifesta, sostiene Popper, può però essere un’idea pericolosa: non riconoscere che la verità è invece difficile da trovare, che la nostra intelligenza è fragile e procede a tentoni, può condurre al fanatismo. Se la verità è manifesta, infatti, chi mai potrebbe rifiutarsi di riconoscerla? «Dei malvagi che hanno interessi a che tutto resti nell’ombra» è la sola risposta possibile. Chiunque non riconosce la verità che a me pare lampante, insomma, può essere iscritto nel registro dei nemici dell’umanità. La ricostruzione critica di Popper, che non possiamo seguire nel dettaglio, conduce a un punto interessante. Per liberarsi delle autorità della tradizione e vedere la verità con occhi finalmente non inquinati, Bacone e Descartes prediligono ̶ nota Popper ̶ due nuove fonti della conoscenza: «Essi innalzarono l’osservazione e la ragione come nuove autorità, e le posero all’interno di ciascun singolo uomo. Ma, così facendo, lo scissero in due parti: una superiore, che ha autorità rispetto alla verità – l’osservazione di Bacone, l’intelletto di Descartes – e una inferiore». Cosa c’è di male in tutto ciò? Il fatto che, in definitiva, tale impostazione può condurre a un nuovo autoritarismo, tanto pesante quanto quello tradizionale, dal quale i padri della rivoluzione scientifica volevano liberarsi. Infatti, una nuova e indubitabile fonte di conoscenza (i sensi per Bacone, l’intelletto per Descartes) ora sostituisce le vecchie fonti indubitabili (Aristotele, la Scolastica, la dottrina ecclesiastica ecc.). Insomma: è solo mutato il sovrano dinanzi al quale inchinarsi, se così posso esprimermi.
Su queste basi, Popper polemizza con Hume, a mio avviso giustamente. Il padre nobile dell’empirismo, infatti, nelle Ricerche sull’intelletto umano afferma:
Se domando perché credete in qualche determinato fatto […] dovete dirmi qualche determinata ragione; e questa ragione sarà qualche altro fatto, connesso con quello. Ma poiché non potete procedere a questo modo in infinitum, dovete per ultimo metter capo a qualche altro fatto […] oppure dovete ammettere che la vostra credenza è completamente senza fondamento.
Secondo Popper queste parole di Hume esemplificano l’impostazione fondamentale dell’empirismo circa la validità dei nostri giudizi. Questa può essere sintetizzata così: quali osservazioni (o ricordi di osservazioni) sono alla base della tua asserzione? Orbene, prosegue Popper, tale punto di partenza è del tutto inadeguato.
Anzitutto, nella concreta pratica conoscitiva, la maggior parte delle nostre asserzioni non sono basate su osservazioni ma sopra ogni altro genere di fonti. Affermiamo molte delle cose che affermiamo, perché le abbiamo lette o sentite da più fonti concordi (dunque non le abbiamo sperimentate direttamente), fonti che messe insieme formano un nucleo solido e coerente di informazioni univoche o abbastanza univoche su un certo fatto, al punto da fornirci una certezza che in molti casi equivale all’esperienza diretta di un fenomeno. Un esempio classico. Chi scrive queste righe, non ha mai visitato il Marocco. Pur non avendo mai constatato coi miei sensi l’esistenza di questo paese, però, il fatto che il Marocco esista ha per me la medesima certezza dell’esistenza dei miei genitori, e ciò grazie al fatto che fin da quando sono piccolo ho visto immagini del Marocco, parlato con persone provenienti dal Marocco, ho visto il Marocco sulle carte geografiche, ne ho sentito parlare sui libri di storia, è inserito negli annunci delle agenzie turistiche, ho vissuto in un ambiente nel quale tutti davano per scontato che esistesse il Marocco e così via. A questo punto, l’empirista potrebbe rispondere: «Magari coloro che ti hanno parlato del Marocco, a loro volta ne hanno avuto esperienza indiretta, e tuttavia percorrendo all’indietro la catena delle cause si arriverà a una prima esperienza diretta, empirica, dell’entità che chiamiamo Marocco. Anche la maggior parte dei libri è tratta da altri libri, ma alla fine tutto parte da osservazioni dirette». Ora, tale visione, che in prima istanza appare inattaccabile, è in realtà assai problematica.
Anzitutto, nella stragrande maggioranza dei casi, e spesso proprio su questioni fondamentali, risalire alla “prima osservazione” è praticamente impossibile. Qual è la prima persona che ha visto il Marocco coi suoi occhi? Quando è successo? E quello che ha visto era proprio il Marocco o un’altra entità poi divenuta Marocco? E se si fosse sbagliato? In fondo anche i nostri sensi hanno bisogno di conferme: possono ingannarsi. Come facciamo ad essere certi che non si trattasse, ad esempio, dell’Algeria? Sul giornale leggiamo: «Ieri il Primo Ministro era a Roma». Se volessimo controllare in prima persona questa asserzione, perché non ci fidiamo dei giornali, cosa faremmo? Probabilmente chiameremmo la segreteria del Primo Ministro. Se questa confermasse la notizia, si tratterebbe comunque di un testimone posto tra noi e il fatto empirico osservabile. Cosa potremmo fare? Controllare le foto? Ma le foto possono essere ritoccate, ecc.
Questa noiosa catena di passaggi, che potrebbe continuare all’infinito, ci dice che probabilmente l’osservazione iniziale da cui ogni conoscenza scaturisce è più un mito o concetto limite che una realtà. La maggior parte dei giudizi di fatto si basano su una mediazione spesso affidata a testimoni o documenti (si pensi alla storia). L’avanzamento della nostra conoscenza procede sempre per modificazioni di nostre conoscenze precedenti (come vuole Popper, ma anche Heidegger e dopo di lui il suo allievo Gadamer): all’inizio non c’è né la tabula rasa né l’osservazione diretta. Anche nella conoscenza scientifica, basata sull’esperimento e sull’osservazione dei dati, il ricercatore trascina sempre con sé un certo numero di conoscenze acquisite dalle ricerche precedenti che non può mettersi a verificare direttamente una per una: se per assurdo volesse farlo, passerebbe la vita a controllare tutto ciò che ha appreso prima di iniziare la propria attività di ricerca e non muoverebbe un solo passo in avanti.
C’è insomma un carattere testimoniale e fiduciale della conoscenza che troppo spesso dimentichiamo. Tale aspetto non è extra-razionale ma è parte essenziale del modo in cui costruiamo le nostre conoscenze. Naturalmente non si nega che l’osservazione accresca la nostra conoscenza, ma non si tratta di una fonte definitiva. Quali sono allora le fonti della nostra conoscenza?
La risposta – afferma Popper – è questa: la nostra conoscenza ha fonti di ogni genere, ma nessuna ha autorità. […] Prevalentemente non controlliamo la validità di un’asserzione o di un’informazione rintracciandone le fonti, o l’origine, ma la controlliamo, in modo molto più diretto, mediante un esame critico di ciò che è stato asserito, dei fatti stessi riportati.
In questo esame ogni fonte, suggerimento, indizio, può essere utile.
Se le esigenze critiche ci vietano di credere ciecamente a qualsiasi fonte, è anche vero che una componente fiduciale nella nostra conoscenze è ineliminabile e nient’affatto irrazionale. Il pensiero critico non è dubbio e basta: è dubbio più metodo. Non c’è nulla di più ingenuo di uno scetticismo incontrollato. Negazionismo e incredulità ideologica sfruttano l’oblio di questo elemento per giustificare sé stessi. Ad una certa fonte, dalla quale si apprendono determinate notizie (ad esempio il “New York Times” e altri giornali che raccontano del massacro di Bucha), si contrappone un’altra che sarebbe più diretta, basata su osservazioni immediate. Poiché nella maggior parte dei casi, pensiamo alle notizie di guerra, nessuno può controllare direttamente i fatti, sarà sempre possibile confutare una notizia. In altre parole, ed è bene saperlo, se si parte da assunti epistemologici scorretti, qualsiasi affermazione, anche la più scontata, può essere smontata. «Auschwitz è esistita davvero? Siamo sicuri che i video in cui i sopravvissuti raccontano il loro calvario siano autentici? E se stessero leggendo un gobbo? Chi c’era là con loro, nel 1943, che può confermare i loro racconti?»: tutte queste domande capziose, che rappresentano il modello standard di ogni negazionismo, fondano la efficacia retorica sulla presenza del positivista che è in noi, il quale è continuamente alla ricerca della “prova regina”, che dev’essere di carattere empirico.
I nostri giudizi sono per lo più costruiti per accumulo di tanti giudizi più piccoli di assenso fiduciale (che non vuol dire irrazionale), una sorta di catena: raggiunto un determinato numero di anelli che puntano concordemente in una certa direzione, affermiamo, con un atto che coinvolge la nostra intera soggettività: «È così!». Il negazionista ideologico o il propagandista, però, ignorano o fingono di ignorare questo meccanismo fondamentale e puntano a indebolire uno o più anelli della catena, per spezzare la catena nel suo complesso. Ecco perché controbattere ai “fatti alternativi” dei negazionisti o dei debunker fintamente neutrali, contrapponendo altri fatti, vale fino a un certo punto. Non è solo questione di psicologia delle masse, che in questo momento storico hanno perso fiducia nelle tradizionali piattaforme di mediazione (partiti, scienziati, giornalisti), ma anche di funzionamento del nostro dinamismo conoscitivo. Se vogliamo difendere i fatti che ci stanno a cuore, se non altro per custodire un minimo di giustizia per tutte le vittime della storia (da Auschwitz a Bucha, passando per Srebrenica), forse la consapevolezza sul modo in cui costruiamo i nostri giudizi di fatto è un elemento di cui tener conto. Epistemologia ed etica non abitano su due galassie lontane.