Redattore

Nicolò Bindi (1991) si è laureato in Filologia Moderna all’Università degli studi di Pisa, discutendo una tesi su “Teoria e pratica del futurismo. Palazzeschi, Marinetti, Soffici”. Interessato principalmente agli aspetti stilistici, metrici e linguistici, sta concentrando le sue ricerche letterarie soprattutto sugli autori delle avanguardie storiche e del modernismo italiano ed europeo. Collabora con diverse associazioni culturali. È docente presso l'Istituto "Francesco Datini" di Prato.

Se proprio si vuole trovare un aspetto minimamente positivo nel bizzarro e iniquo metodo di reclutamento del personale docente in Italia, questo sta nella pluralità di esperienze che i candidati sono costretti, volenti o nolenti, a fare. Per quanto mi riguarda, ciò mi ha dato la possibilità di insegnare materie come italiano e storia alla scuola primaria, alla scuola secondaria di primo e di secondo grado, alla scuola serale. Grazie dunque a questa varietà, ho potuto interagire e confrontarmi con studenti di età diversa, di zone geografiche diverse (con esperienze in Toscana e in Veneto), di formazione diversa (dato che, a causa dei contratti annuali, ho quasi sempre dovuto “riprendere” il lavoro dell’insegnante che mi aveva preceduto).

Ora, nel corso delle prime lezioni, ho sempre l’abitudine di chiedere ai miei studenti se conoscono il motivo per il quale sono “obbligati” a studiare le materie di cui sono insegnante. Le risposte che ho avuto sono state, in un certo senso, molto significative. In questa sede, come esempio emblematico, parlerò in particolare delle reazioni avute quando ho posto questa domanda su storia. La prima cosa che mi ha stupito è stata il constatare che, dalle scuole elementari alle scuole superiori, inclusa anche la scuola serale, la reazione generale e le risposte sono sempre state le stesse: qualche minuto di silenzio imbarazzato, un paio degli individui più “vivaci” che ridendo dicono «Ah, boh!», «è inutile» – e qui viene in mente il noto adagio di Arlecchino che si confessò burlando. A un certo punto, qualcuno alza la mano; di solito è uno dei più svegli e partecipativi. Risponde: «Per non ripetere gli errori del passato». Oh, ecco la risposta giusta. Anzi, la risposta che lui (o lei) ritiene giusta. Per questo l’ha detta, e si aspetta che la sua frase chiuda la questione, di prendersi un «bravo» per la risposta data, che l’insegnate faccia una piccola arringa a suffragio della sua risposta e che poi si passi ad altro.

Quello che riceve, invece, è altro, ovvero una serie di altre domande: «E quali sono questi errori?», «Dunque oggi non li commettiamo più?», «Chi commette quegli errori non ha studiato storia?», «E allora perché li commette?», «Siamo dunque migliori dei nostri antenati?». Ovviamente, le domande riportate sono state poste nei cicli di scuola secondaria. Nelle classi delle scuole medie, si aveva un’idea abbastanza chiara di quali fossero gli “errori”, ma era palese che la risposta fosse viziata dal bombardamento di laboratori, progetti civici e letture mirate che li accompagna per tutto il ciclo dei tre anni. Si indicano dunque i classici “razzismo”, “violenza”, “guerre”, “inquinamento”… Le certezze, però, cadono ben presto, sotto la richiesta di spiegazioni più precise, o di esempi che confermino il loro pensiero.

Tra i più grandicelli, c’è chi è andato in crisi già alla prima domanda: non sapevano indicarmi quali fossero, quei fantomatici “errori” da loro stessi evocati, palesando la totale inconsistenza della loro risposta. Eppure, data la sicurezza con cui la sentenza era stata esposta, era lecito aspettarsi qualche contenuto in più, un minimo di resistenza. È lecito dunque coltivare qualche sospetto. Se in scuole diverse tra loro, per ordine, grado e regione di appartenenza, tutti danno la stessa risposta, e nessuno sa motivarla fino in fondo, fermandosi, a volte, alla superficie stessa, il motivo non può che essere uno: quello esposto non è un loro pensiero reale. Se uno di questi studenti si fosse sentito libero di dire, fuori dalle ipocrisie, il suo vero pensiero, ovvero che la storia non serve a nulla, sono convinto che sarebbe riuscito a motivarmi e ad argomentare la sua posizione molto meglio, anche se magari non in modo dialetticamente proficuo. In una classe delle superiori, per la verità, qualcosa di simile è successo: l’alunna che aveva dato la risposta «A non commettere gli errori del passato» è stata contestata da un suo compagno, che è pure riuscito ad avere l’ultima parola. Alla domanda su quali fossero questi errori, aveva risposto “forse” la guerra; al ché il compagno alza la mano e risponde: «Ma mica sono io a decidere se fare la guerra o meno. Non sono io che decido se invadere un paese o no. Posso essere contro la guerra, ma ritrovarmi in guerra lo stesso». A prescindere da chi potesse avere ragione e chi potesse avere torto, la differenza l’ha fatta un fattore: una posizione era sincera, l’altra no.

Ora, questo concetto moralista dell’insegnamento della storia, è effettivamente il più quotato all’interno della didattica odierna, se si pensa che è ribadito con forza anche all’interno dei manuali di preparazione al concorso pubblico per accedere al ruolo (i manuali ci sono, sebbene i concorsi latitino). Si prenda, ad esempio, il manuale delle edizioni EdiSES, curato da Alessandra Pagano, in cui è fortemente raccomandato all’insegnante di concentrarsi sugli eventi storici portatori di valori “positivi” e di operare una continua attualizzazione di questi, con l’intento di far sentire i ragazzi come parte della storia. Per questo, ad esempio, è bene concentrarsi sugli aspetti positivi del modello democratico greco e fare riferimenti alla contemporaneità. Così, sostanzialmente, la storia si pone come obiettivo l’educazione civica del discente. Il punto, però, non è tanto quale sia l’idea pedagogica che muove la didattica della storia, poiché, da quel che ho osservato, gli studenti non assimilano niente di tutto questo. Ciò che è pervenuto loro, è poco più di un mantra, una frase buona a far felice il professore di turno, che nasconde dietro di sé il vuoto. La verità, per quanto amara, per quanto scomoda, è che la maggior parte degli alunni con cui ho avuto il piacere di avere a che fare, non avevano e non hanno la minima idea del perché debbano studiare certe cose; ancora peggio: non hanno la minima idea di cosa stiano effettivamente studiando.

D’altronde, è difficile che certe riflessioni possano nascere spontaneamente in un ragazzo: nessuno pensa alle risposte, se nessuno comincia a far domande. Se già gli insegnanti, tra di loro, evitano di confrontarsi sul significato stesso della loro materia, perché mai dovrebbero farlo i loro alunni? Raramente, nella mia esperienza scolastica, mi è capitato di confrontarmi non tanto sui metodi, ma sulla visione globale della materia insegnata. D’altronde, è il sistema scolastico stesso a porre un forte limite a questo tipo di dibattiti: subissati dalle scadenze burocratiche, il tempo da poter dedicare ai “massimi sistemi” si restringe. Le stesse riunioni di dipartimento, che dovrebbero avere anche questo tipo di utilizzo, sono monopolizzate da fatti pratici, incombenze, pratiche da sbrigare e progetti da portare a termine. L’insegnante, “burocaticizzato”, non viene più valutato in qualità di essere pensante, ma di adattabilità al sistema.

A complicare la situazione, poi, vi è pure la visione didattica che viene propagandata, in cui, come si è visto, l’attualizzazione e la formazione civica svolgono un ruolo di primo piano a cui tutte le materie, soprattutto quelle umanistiche, devono sottostare. Il risultato di questo sub-ordine, però, è paradossalmente quello di ridurre la consapevolezza di ciò che si sta facendo, delle azioni che si stanno compiendo: l’insegnante si trasforma in un essere passivo, che limita il suo intervento alla consegna di materiali già fatti, in cui la sua elaborazione personale è ridotta al minimo. Il risultato di questa spersonalizzazione della didattica: la difficoltà degli studenti ad entrare dentro alle materie umanistiche, per definizione allergiche a schemi e formule preconfezionate.

Il problema esiste e va affrontato, poiché, confrontandomi con colleghi più anziani, ciò che viene fuori è la difficoltà, crescente negli ultimi anni, degli studenti ad affrontare lo studio della storia. Urge, dunque, attivare un tipo di confronto diverso sull’istruzione, più teorico che pratico, stimolante per il docente, che torni ad essere considerato così in qualità di essere pensante, di ideatore, e non solo come dispensatore di strategie e materiale didattico.

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